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Autore: small    28/11/2010    1 recensioni
Amanda Sprint è una strega, ma non è affatto contenta di esserlo... così, un guaio tira l'altro, si trova a cercare di diventare una fata, con scarsissimo successo e con molto, ma veramente molto, da perdere.
Dal I cap.
"Con aria melanconica le streghe apprendiste infilarono i loro libri nelle borse e si trascinarono fuori dal bar, lasciandosi alle spalle l’insolita conversazione che avevano avuto sulle fate."
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO I

AMANDA (parte I)

 

Amanda era una strega. Chiunque al suo posto sarebbe stato strafelice di esserlo, ma lei proprio non riusciva a capire perché quel destino fosse toccato proprio a lei. Come strega non era granché. La sua bruttezza non faceva rompere tutti gli specchi, odiava i rospi e le lucertole, non sapeva volare sui manici di scopa, era allergica ai gatti e nessuno la teneva in gran conto…oh, quasi dimenticavo, i suoi voti nelle materie più importanti a scuola erano bassissimi e non riusciva proprio a fare del male a qualcuno. Il giorno in cui ebbero inizio le sue grandi avventure, stava seduta su un tronco della Foresta Bruciata a contemplare un tritone abbrustolito. Il paesaggio attorno a lei era stato eletto il più adatto come simbolo del Regno Stregonesco. Non c’erano alberi dalle chiome rigogliose e verdi, ma solo tronchi spezzati, bruciati, tagliati. Le uniche piante che crescevano indisturbate erano un paio di arbusti marroni e neri, appassiti non per il caldo, ma per la tristezza che ogni roccia diffondeva. Amanda avvicinò il naso a gobba al tritone. Era un animaletto verde, anche se in alcuni punti le sfumature erano giallognole. La strega sospirò. Tolse gli occhi verdi, tondi e grandi, stravaganti ed eccentrici, dall’animale. Forse un giorno avrebbe trovato un tritone rosso, si disse. Incurvò appena le labbra fine, violette, perché nel Regno Stregonesco nessuno rideva veramente, si facevano al massimo delle strane smorfie di felicità. Amanda prese il mantello nero che aveva poggiato a lato e se lo rimise, coprendo la chioma viola scuro con il cappuccio. Si specchiò un attimo in una pozzanghera. Il suo foruncolo sul naso era piccolo, rosa e per nulla spaventoso. Sospirò e abbottonò il mantello, nero come gli altri. Le sue scarpe annaspavano nel fango mentre, pensierosa, si dirigeva nella città principale: Stregopoli. Il sentiero si strinse, poi un’ansa, un piccolo ponte instabile ed ecco la città. C’erano case basse, con tetti di paglia e porte di mattoni, altre erano più alte ed avevano stecche di legno sul tetto, altre ancora erano molto simili a villini, lasciati andare in malora, con cupe nubi di fumo che uscivano dai comignoli e strani amuleti appesi sulla porta. Le strade erano fatte grossolanamente di pietre e mattoni, alcuni spuntavano all’improvviso, come se volessero artigliare il piede del passante. Una sola strada attraversava tutta la città, arrivando di fronte al Palazzo delle Streghe Eccellenti, il PSE, dove abitava la regina, le sue consigliere e il resto delle parlamentari. Il PSE era un mostro orribile, con ben nove torri come braccia, disperse in tutte le direzioni. Le mura erano irregolari e non lasciavano spiragli, una sola torre seguiva l’andatura irregolare dei muri, la Torre della Regina, che risaltava sul resto del Palazzo come una macchia scura su un foglio bianco. Amanda si fermò davanti al bar del Vecchio Zio Frankenstein. Li dovevano esserci sicuramente le sue compagne di scuola Odretta, Meriga e Verdognola. Entrò, facendo tintinnare di un suono cupo come la notte i campanelli appesi alla porta. Il barista, un uomo corpulento, con capelli grigi e un naso così lungo da sembrare un manico di scopa, la guardò con gli occhi neri, vuoti. Il suo sguardo si perse dietro di lei, al rinnovato suono di campanelli. Amanda si guardò intorno. Il locale era squallido, illuminato appena dal tepore lunare magico proveniente da una lampada ad olio appesa al soffitto. I tavoli erano occupati da uno o due individui ciascuno. Indossavano tutti lo stesso lungo e nero mantello. Amanda andò dritta, senza rivolgere a nessuno lo sguardo, verso il tavolo vicino alla finestra, dove stavano sedute le sue “amiche”, chine sui libri scolastici. Odretta era la più grassa, settanta chili portati tutti sulla pancia, capelli verdi e a ciocche, come quelli dei polipi, occhi grandi, enormi e strabici, di un colore nero scurissimo. Meriga, invece, era la studiosa. Labbra grosse, nere, enormi, che le sovrastavano il volto, nascondendole gli occhi grigi, fini e piegati all’ingiù. Oltre alle labbra dominavano il suo volto i capelli rossi e ricci, come la chioma di un albero. Verdognola meritava in pieno il suo nome per il colore dei suoi capelli, della sua pelle e dei suoi occhietti acquosi, piccoli e stretti, vicini al naso abbastanza per darle un aspetto orribile. Le tende nere della finestra vicino a cui sedevano erano tirate, come le altre, e non si vedeva quasi nulla, poiché il tavolo era lontano dalla tiepida luce lunare. Amanda, arrivata al tavolo, spostò una sedia e si sedette, sapendo che non c’era bisogno di alcun saluto speciale. Con sguardo vacuo fissava intensamente un punto del bancone, senza realmente vederlo. Ad interrompere il silenzio per prima fu Verdognola che, sistemata una ciocca di capelli verdi dietro le spalle, disse con tono cantilenioso e beffardo:

  • - Allora, Amanda, hai trovato il tuo tritone rosso vivo?
  • La ragazza si costrinse a spostare gli occhi verdi sull’amica, con estrema calma esaminò ogni zona del suo cervello per trovare la risposta più adatta da darle. Ma la sua innaturale tranquillità e pacatezza non le permisero di trovare pensieri abbastanza perfidi, quindi rimase in silenzio, sentendosi colpevole. Odretta, che conosceva bene il carattere odioso di Verdognola, si intromise nella discussione che si sarebbe potuta aprire.

  • - Verdognola amara, lasciala stare – disse con la vocina stridula che la distingueva – Vedi che la nostra odiata Amanda non ha parole per descriverci il suo fallimento. Lascia correre. Non devi obbligatoriamente dimostrare che avevi ragione tu. Sono sicura, parola di strega, che la nostra odiosa amica terrà d’ora in poi conto dell’importante lezione di oggi – fece una pausa, assaporando il gusto di rimbeccare Verdognola (bada lettore che quelli che a te sembrano insulti ad Amanda sono espressioni comuni nel Regno Stregonesco, ove parole come “cara”, “dolce”, “tesoro” sono sconosciute), poi riprese con tono sicuro – Meriga, a proposito di compiti, hai sentito oggi che noia letale la lezione di Storia delle Streghe-Grandi Antenate?
  • Quest’ultima, sentendosi chiamata in causa in una questione che poco le piaceva, alzò pigramente la testa facendo tintinnare il cappuccio del mantello, a cui aveva appeso diversi campanelli, e scelse con cura le parole da usare.

  • - Non so, Odretta odiosissima – replicò con calma, mentre chiudeva un enorme libro intitolato “Mille modi per cucinare i cani morti” – Se devo dare il mio modesto parere, ecco… oserei definirla quasi interessante. Mi spiego. Era noiosa per la voce soporifera dell’insegnante, che raramente attrae la nostra attenzione se non per i primi tre pipistrelli di appello (nel Regno Stregonesco i minuti sono i “pipistrelli”, le ore le “scope” e i secondi i “calderoni”), ma… come dire… il contenuto della spiegazione era altamente istruttivo e di grande importanza per noi giovani streghe, ancora da formare totalmente.
  • Le parole erano state dette, scelte con cura e dotate della giusta enfasi. Nessuno era superiore a Meriga in fatto di parlantina. Nessuno riusciva ad eguagliarne il linguaggio schietto e talvolta provocatorio. La strega aveva conciliato le sue idee senza offendere il carattere impetuoso dell’amica e di questo andava non poco fiera. Verdognola, che l’ammirava, batté le mani, entusiasta.

  • - Oh, ben detto, tristissima Meriga. Io non avrei saputo spiegarlo meglio – e qui diede in un risolino acuto – La professoressa Viscivola ci ha fatto capire esattamente i vantaggi di essere streghe. È riuscita a trasmetterci la sua ammirazione per il Regno Stregonesco, disapprovando totalmente e giustamente le frivolezze che caratterizzato quella pagliacciata del Regno Fatato. Le fate, bah! Esseri infernali che assumono le fattezze angeliche, per ingannare e ammaliare. Se ci sono mostri, creature ed esseri in generale più orribili di loro, io sono una lucertola.
  • E detto ciò annuì vigorosamente con la testa e incrociò le braccia, convinta di aver appena dimostrato un argomento ormai indiscutibile, su cui non potevano esservi più dubbi. Un complicato teorema. Ma Amanda, per quanto taciturna e schiva, non era d’accordo e, in questa occasione, le salì per tutto il corpo il coraggio di esprimersi liberamente.

  • - Ma cosa ne sappiamo noi, in fondo? – chiese, con un filo di voce, rauca, come se fossero secoli che non si schiariva la gola – Voglio dire – aggiunse, preoccupata dai volti increduli delle amiche – Nessuna strega è mai andata nel loro mondo, nessuno del nostro regno sa come sia fatto veramente. È… e si sbagliassero? Se non fosse come dicono loro? Insomma, siamo pronti ad accettare un’altra eventualità?
  • Abbassò la testa, consapevole di aver osato troppo. Persino Meriga la guardava sorpresa, lasciando la lingua viola penzolare dalla bocca aperta. Odretta aveva gli occhi fuori dalle orbite, girando folli per altre galassia. Verdognola fissava Amanda come se non la conoscesse, disprezzandola forse. La situazione era alquanto imbarazzante, tanto per Amanda, quanto per le altre. Ma si sa, in certi casi nei libri giunge sempre un aiuto esterno. In questo caso si tratta di un bel giovane stregone, per la precisione l’aiutante del barista. Il giovanotto non doveva avere più di venti anni. Era di costituzione sottile e la sua pelle era bianca e perlacea come il latte. Aveva scuri capelli neri, lasciati cadere scompigliati fin sotto le orecchie. Gli occhi erano viola, un po’ strabici, ma nel complesso dei migliori. Indossava una logora giacca di pelle nera, che gli si attillava perfettamente sul corpo snello. Con fare professionista e con un sorriso che spezzava numerose speranze, si avvicinò con passo sicuro al tavolo delle quattro streghette.

  • - Vi serve aiuto? – chiese, educato.
  • Amanda strabuzzò gli occhi, non perché fosse venuto qualcuno a prendere le ordinazioni, ma piuttosto perché quel qualcuno era suo fratello.
    -E tu cosa ci fai qui?
    La domanda non sembrò turbare più di tanto Elseto, ma solo infastidirlo, come una mosca che appare nel momento più inopportuneo.
    -Lavoro – rispose, semplicemente – Perché non si vede, odiosa sorella? – aggiunse in tono un po’ accusatorio e un po’ beffeggiatorio.
    Amanda ricompose il volto e poi rispose a tono all’unica persona che aveva il coraggio di sfidare così apertamente, perché sapeva bene che dal fratello non poteva venire alcun male.
     - Elseto! Papà ti aveva detto che se ti ripescava a lavorare quando dovresti studiare per il tuo esame, ti avrebbe appeso per la caviglia nel ripostiglio. Io ne sarei minimamente preoccupata.
    - E questo perché non lo conosci e in parte sei fifona, Amanda. Infatti nostro padre non farebbe mai una cosa del genere per il semplice fatto che mi ricoprirebbe di disonore. Così, anche se passassi l’esame finale, non potrei mai far carriera nel Parlamento Stregato. Meriga, odiosa – disse, rivolgendosi all’amica d’ Amanda, con voce più tenera – Come sta la tua infelice sorella Malincona?
    Meriga aveva, infatti, una sorella della stessa età di Elseto e tra i due l’amore era stato immediato. Malincona, poiché era questo il suo nome, aveva lunghe trecce nere, folte, che le cadevano accidentalmente sulle spalle, coprendo il collo azzurro. I suoi occhi erano grigi, quasi trasparenti, e per questo conosciuti con il nome “i fantasmi di Connervo”. Connervo era il nome del padre di Meriga e Malincona; era tenuto in gran rispetto da tutta la comunità, perché possedeva l’unica biblioteca esistente in tutto il Regno Stregonesco, la biblioteca “Mollusco”. Ma sulla descrizione di questo imponente edificio ci fermeremo nelle prossime pagine. 
     

     

    -Bene, grazie – rispose pronta, come sempre, Meriga, benché la sua voce tradisse una leggera nota d’impazienza per quella conversazione che, a suo modesto parere, si stava troppo prolungando.
    La strega fece uno sforzo immenso per sorridere, o imitare quello che nel Regno Stregonesco era chiamato sorriso. L’orologio dietro il bancone cominciò a cinguettare una strana melodia, ricordando a tutti che era ora di tornare a casa. Con aria melanconica le streghe apprendiste infilarono i loro libri nelle borse e si trascinarono fuori dal bar, lasciandosi alle spalle l’insolita conversazione che avevano avuto sulle fate.


    Ho fatto un po' di casino con l'htm, ma conto di riuscire a maneggiarlo meglio al prossimo capitolo... spero che v piaccia e che sia tutto abbastanza chiaro. Fatemi sapere cosa ne pensate!!!
     

       
     
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