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Autore: thewhitelady    29/11/2010    2 recensioni
- Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti gli incubi - Liam Keeran.
- Questo è solo la Genesi, dobbiamoa ncroa passare per il Levitico,l'esodo e il Deuteronomio prima d'arrivare a qualcosa - Eneas Clayton
Storia di una caccia al tesoro che si trasforma tra inseguimenti e una rapina in un museo in pericoloso gioco mortale. Storia di come un uomo scopre di essere ciò ch ha sempre combatutto, e della redenzione di un altro. Storia di due amici. Il tutto girando il mondo tra Inghilterra, europa dell'Est e estremo Oriente.
La mia prima storia, recensite ma soprattutto buon divertimento! :D
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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= Genesis =
 
 
 
- Questo è solo la Genesi, dobbiamo passare ancora per l’Esodo, il Levitico e tutto il Vecchio Testamento prima d’arrivare a qualcosa – Eneas Clayton
 
 
- Prologo -
Le volpi del deserto cominciarono presto ad uscire dalle tane insabbiate tra le dune. Erano affamate, percepivano che la preda era debole. C’era odore di morte nell’aria, e quel dolce richiamo arrivava prima nell’aria afosa che precedeva il tramonto.
Iniziarono a girare intorno alla preda, in cerchio, erano già tre giorni che aspettavano, ormai erano impazienti e nervose: lotte sporadiche scoppiavano trai membri del branco. I più giovani erano eccitati come solo prima di un’uccisione, i vecchi al contrario serbavano le energie, consci che a loro sarebbe bastata la sola posizione gerarchica per accaparrarsi la carne migliore. Non fosse stato per la fame avrebbero potuto sembrare disinteressati alla caccia, ma anche loro percepivano già il sapore di sangue.
Il sole sfolgorante stava per spegnersi coperto dalle alte dune. L’ululare del vento era forato da un rantolo profondo, agghiacciante per la forza con cui sconquassava il corpo che lo emetteva; ma le volpi non avevano compassione da provare, e se anche l’avessero avuta non l’avrebbero spartita. Era solo il loro primo pasto abbondante dopo giorni di digiuno.
Un esemplare particolarmente giovane, poco più che un cucciolo s’avvicino a quella strana carcassa ansimante che strenuamente continuava ad avanzare, appena tentò un’offensiva l’essere parve riaversi e cercò di colpirlo con un coltello. La bestia schivò la lama, inferocita si rigirò cercando d’intimidire la preda, un attimo dopo ritornò  tra le file dei compagni.
L’ultima difesa contro la giovane volpe aveva stremato Iljich Sokolov, quella semplice azione gli era costata l’ultima stilla di forza: le ginocchia si fecero molli sotto il suo peso, cadde a terra con un tonfo, come se fosse stato morto.
E infondo era come se la morte l’avesse già abbracciato, era solo una carcassa arsa dal sole mossa da un ideale, che non sembrava più così nobile. Ripensò alle parole dei suoi generali: il massimo onore sarebbe stato morire per il socialismo, per Mosca, per Marx, per Lenin e per Stalin…e per una serie di altra gente baffuta di cui nemmeno ricordava il nome. Al momento però la sua più alta convinzione era che morire per un ideale, di altri soprattutto, fosse una cosa detta da gente che era spirata seduta comodamente in salotto. Ora che se ne stava accasciato con il sapore della polvere in gola e le mani piagate dal sole, non vide nessun proposito in quelle ferite. Non uno che giustificasse il morire a migliaia di chilometri da casa; no, non di certo a diciannove anni.
Fissò le volpi, oltre di loro un’infinita pietraia, e poi le dune e dietro queste il crepuscolo. Appoggiò la testa contro la sabbia, era il momento della giornata che preferiva: il tepore emanato dal terreno prima del freddo notturno. Chiuse gli occhi, non sarebbe stato male riposare un po’ una volta tanto prima di riprendere il viaggio; si lasciò scivolare via, lentamente.
Avvertì solo vagamente una fitta ad un polpaccio, i denti della giovane volpe che penetravano nella carne.
 
 
Venti soffiavano con forza a tratti impressionante tra le dune, dando vita ad una specie di sinfonia segreta che entrava nelle orecchie e nel cervello di chiunque l’ascoltasse come una litania. Pareva poteva essere solo l’insieme di tutti i respiri affannosi mozzati dal deserto in centinai di miglia di giornate assolate come quella. Un uomo vestito di nero si passò un fazzoletto di lino sulla fronte, mentre con gli occhi scrutava attraverso un paio di lenti oscurate l’intero paesaggio. Le dune, la pietraia, i cespugli, i serpenti sotto le pietre, ogni singolo granello di sabbia che era stato confinato in quell’inferno passava sotto la sua analisi. Si portò alle labbra una tazzina di caffè forte, fatto alla maniera dei nomadi, infine fece ritorno all’enorme tendone bianco che era stato montato apposta per lui, ma che alla fine non usava quasi mai: malgrado avesse decine di sottoposti sentiva il bisogno fisico d’assistere, di fare lui stesso.
Sedette, stava in una posizione rigida che sottolineava quanto fosse pronto da un momento all’altro a scattare in piedi. Fissò la linea dell’orizzonte, si confondeva col terreno a causa della polvere sollevata dal vento. Immaginò come doveva essere quel luogo migliaia d’anni prima, forse era una valle verdeggiante, una brughiera infinita magari persino un lago… il punto era che quel luogo era cambiato con lo scorrere dei secoli, e gli uomini non ci avevano potuto far niente, e tanto erano abituati ai cambiamenti. L’uomo in nero pensò quanto questo fosse positivo, e che lo fosse anche di più se ad apportare il cambiamento fosse stato lui. Sperava che questo avvenisse presto e ancor più sperava di poter andarsene il prima possibile da quel posto maledetto, odiava il deserto qualunque esso fosse.
Incrociò le mani sul ventre. Vide un suo collaboratore corre velocemente verso di lui, prima ancora che potesse raggiungerlo, l’uomo in nero s’alzò rapido e gli venne incontro, senza una parola lo seguì, un sorriso soddisfatto gli stava schiarendo il volto bruciato dal sole. Camminarono per pochi minuti sino ad arrivare ad uno scavo enorme, uno studioso dall’aria pensosa se ne stava impettito con una busta in mano, che consegnò all’uomo in nero che senza molto rispetto per il reperto l’aprì e ne tirò fuori un quadernetto consunto che per miracolo pure era ancora integro. Gli diede una scorsa veloce, avrebbe avuto tutto il tempo del mondo dopo per studiarlo approfonditamente. S’infilò la busta di plastica nella tasca della camicia, proprio davanti al cuore. Poi si chinò ad osservare l’intero ritrovamento: una cassa toracica, un femore, un teschio e qualche brandello di tessuto  verde. Sollevò il teschio umano prendendolo dalla calotta cranica rotta, probabilmente dagli animali spazzini per cibarsi del cervello; gli occhi rapaci dell’uomo scintillarono ancor più inquietanti che le vuote orbite del teschio. Per un secondo il sottoposto e lo studioso avrebbero potuto giurare d’aver visto un impossibile sguardo d’intesa trai due. 
 
   
 
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