Fictional Dream © 2007 (20 febbraio 2007)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa, Ken Kitamura,
Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo di quest’ultimo)
sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
Le autrici non intrattengono con i succitati artisti alcuna relazione di tipo
economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto ed
all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento diffamatorio (né
pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità
lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright delle autrici (Neve83 -
Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la
citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalle stesse
tramite permesso scritto.
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Ricordo la prima volta in cui ci incontrammo, Tetsuya e io.
Ricordo tutto.
Soprattutto l’impressione profonda che mi fece.
“Questo tipo non farà mai neppure un errore,” mi dissi.
Probabilmente perché io ne facevo in continuazione, senza trarne mai la minima
lezione.
Me lo diceva sempre anche Pero, che proprio non riusciva a
vedermi come un leader, perché ero distratto, approssimativo, inconcludente. Lo
dimostrava il fatto che volessi ostinarmi a fare il chitarrista, pure s’era
evidente che non ne avessi la stoffa. Mi fa ridere pensare che oggi ci sono
milioni di invasate pronte a giurare sul mio genio, quando all’epoca, su
settanta ubriachi, neppure la metà stava ad ascoltarmi, e non erano neppure
quelli più sobri. Così finì che Pero mi sventolò sotto il naso quell’annuncio.
L’annuncio, dovrei dire, perché mi cambiò la vita. Di
questo sono certo.
All’inizio l’idea di irritava e basta. M’irritava pensare
come il mio batterista preferisse tentare la sorte con un paio di sconosciuti
che non credere alla capacità del sottoscritto di trasformare i Jerusarem’s
in un gruppo epocale, di quelli che avrebbero segnato un’intera generazione.
M’irritava sentirmi in qualche modo messo da parte o forse ridimensionato – e
sì, potrei anche dire che l’espressione offre il fianco a qualche battuta di
troppo. Ma Ogawa non era uno qualunque. L’avevo visto spesso dalle parti del
BAHAMA, assieme a Hiro o a qualche amico suo – conosceva un sacco di gente,
all’epoca. Ai miei occhi di ragazzetto timido e un po’ scemo, tanto bastava ad
impressionarmi.
Non era uno che si ubriacava o si faceva notare; tutto quel
che faceva era fissarmi, tant’è che all’inizio avevo proprio pensato che fosse
uno di quelli.
A quei tempi stavo con la ragazza ch’ero quasi sicuro di
sposarmi. Ero un deficiente romantico e sognatore, con un paio di sopracciglia
orribili e l’espressione imbambolata dei miopi. Chissà perché, però, davanti al
microfono mi sentivo bellissimo e irraggiungibile; mi veniva spontaneo, dunque,
credere che chiunque potesse innamorarsi di me.
Anche tetsu, dunque.
Ma a Ogawa interessava solo la mia voce; il resto, come
realizzai deluso, quasi non l’aveva notato. Potrei dire che sono egocentrico
come tutti i figli unici, ma non penso che sia giusto dare a un genitore la
colpa dei tuoi limiti; tutto sommato mi piaceva la sensazione di invincibilità
che provavo sotto le luci, come il fatto di guardare la vita e gli altri da un
palco. Più in alto, dunque più in alto di tutti. Quella mattina, invece, non
c’era palco e non c’erano luci. L’unico presentabile era Hiro, perché io mi ero
svegliato troppo presto per preoccuparmi di vestirmi con qualcosa di
accettabile, mentre Tetsuya sembrava un otaku sfigato, di quelli che nei
manga servono appena a riempire la cornice. Come se non bastasse, l’occhiata
quasi schifata che mi diede mi lasciò intendere che non mi aveva nemmeno
riconosciuto.
Ammesso e non concesso che all’epoca mi truccassi davvero
come una troia, non fu una bella sensazione. La stoccata peggiore, in ogni caso,
fu quella che seguì le reciproche presentazioni, perché per il ruolo di vocalist
si era già presentato un certo Nishikawa che aveva proprio una bella voce. Un
batterista, però, poteva sempre far comodo.
Fui tentato di andarmene, mollarli lì su due piedi, tanto per
chiarire come hyde non dovesse proprio pregare nessuno, né intendersi alla
stregua di una seconda scelta; poi mi dissi che sarebbe stato più divertente
umiliarli, e cantai.
Fu allora che tetsu mi conquistò. Meglio, mi comprò,
perché da quel momento in poi non avrei più smesso, in un certo senso, di
sentirmi suo.
A uno sguardo superficiale vi riuscì secondo la tattica più
banale e scontata del mondo: riconoscendo con entusiasmo il mio talento. Di
fatto, però, tetsu ha un modo molto personale di farti i complimenti; una
maniera, a ben vedere, che è rara da trovare: te li fa con assoluta sincerità.
Quando hai alle spalle una lunga carriera riconosci
facilmente i parassiti, i leccapiedi, gli opportunisti. Sono pieno di amici
che ho salutato al più una sola volta, per dire, ma nei confronti di tetsu non
ebbi mai la possibilità di nutrire il minimo dubbio. Mi guardava dritto negli
occhi, lui, e mi diceva che sarei diventato più famoso di Morrie.
Quanto, Tetchan? Quanto neppure immagini.
Malgrado la gavetta sia durissima agli esordi – almeno lo era
per quelli della mia generazione, con pochi soldi, tanti sogni e, se proprio
dovevi contattare qualcuno, un’agenda da due chili e tanti spiccioli per una
cabina telefonica – i primi due anni insieme volarono senza che quasi me ne
rendessi conto, perché c’era lui. Dove c’era Tetsuya, non c’erano mai problemi –
io, almeno, non dovevo preoccuparmene. Potevo perdere il treno, fare tardi alle
prove: mi rifilava un’occhiataccia, ma non infieriva mai. Non lo fece neppure
quando quasi diedi fuoco al tappeto della sua camera, per essermi fatto sfuggire
di mano una sigaretta. Da quella volta in poi, però, mi costrinse sempre a
fumare in veranda. Mi faceva compagnia Ken, che tirava una boccata dalla propria
marlboro e intanto mi raccontava certi episodi ignobili dell’infanzia sua e di
Tetsuya; per me che non avevo mai avuto fratelli, quella strana intimità era
quanto di più vicino sentissi alla mia stessa famiglia.
Forse è per questo che divenni anche possessivo e geloso – di
tetsu, soprattutto – perché non c’entrava niente l’essere compagni di band o di
lavoro o di ambizioni. Io preferivo pensare al nostro gruppo come a qualcosa di
scontato e naturale, che sarebbe durato per sempre, molto oltre le note. Tetsuya,
però, era un pentagramma che non riuscivo mai del tutto a decifrare: a volte la
sua gentilezza si lasciava equivocare con facilità, inoculandomi la sicurezza di
poter disporre della sua pazienza e del suo tempo impunemente; a volte era
soprattutto un leader di ferro, che mi ridimensionava entro un ruolo codificato
ed entro i limiti che ne discendevano. Ero troppo immaturo per gestire la
situazione, in caso contrario avrei avanzato l’unica pretesa davvero plausibile.
Quella, a ben vedere, da cui è disceso ogni errore e anche
questa storia.
Che mi considerasse un amico, cioè. Non un cantante, non un
fratellino, non una mascotte, ma un amico.
Il problema è che tetsu ce l’aveva già un amico, e non gli è
mai venuto in mente di cercarsene un altro. Se Kitamura non avesse avuto
l’intelligenza di comprendere subito la situazione, cavalcarne gli equilibri e
persino inventarseli, s’era il caso, avremmo finito con lo scannarci com’era
successo con Hiro.
La cronaca ufficiale racconta solo una mezza verità, come
succede sempre quando sono i vincitori a fare la storia e gli altri devono
subirsela così come viene. Hiro aveva abbandonato il gruppo – che pure aveva
concorso a fondare – perché i suoi progetti erano divergenti dalla linea scelta
da Tetchan.
Vero.
Quello che pochi dicono, però, è perché tetsu avesse scelto
proprio di cavalcare un filone che ancora in Giappone non aveva poi gran credito
– per intenderci, facevamo gli indie con i Kuroyume ai tempi in cui
Kiyoharu sembrava ancora Morrie con la proboscide. Ogawa l’aveva fatto per me,
per valorizzare me, la mia voce, la mia capacità di vestire il palco. Dovevo
liberarmi dallo spettro di Baki e dei Dead End, perché io ero già perfetto. Ero
già una nuova stella.
Hiro, però, non aveva gradito questa piccola, essenziale
rivoluzione. Forse, a essere onesti, la mia spocchia aveva finito con il colmare
la misura critica della sua sopportazione. Ero giovane, l’ho detto: in qualche
modo dovevo fargli pagare il fatto fosse più bello, più alto di me e,
soprattutto, sapesse davvero suonare la chitarra. Non mi fermai neppure per un
momento a riflettere sul fatto che la musica non fosse un’alchimia di simpatie o
una giostra di prime donne. tetsu aveva preso impegni ben precisi con la
Night Gallery, riceveva pressioni da chiunque e non ne faceva parola.
Non sono mai stato bravo ad affrontare di petto le situazioni
davvero spinose; se l’avessi fatto allora, chissà? Forse questa storia sarebbe
stata completamente diversa. Forse non saremmo andati avanti per quindici anni,
ma ci saremmo conosciuti davvero. Le convivenze più riuscite, a ben vedere,
spesso poggiano proprio su omissioni di comodo.
Per la verità ci provai, a mio modo. Glielo chiedevo,
persino.
“Tetchan? Va tutto bene?” “Tetchan, vedrai che troviamo un
nuovo chitarrista.” “Tetchan, posso fare qualcosa?”
Ma tetsu sorrideva sempre e mi liquidava con un sorriso.
Mi faceva pensare alle centinaia di ragazze che mi avevano
sempre trovato carino, ma poi non si erano mai sprecate a regalarmi cioccolata
per San Valentino. Ero irrilevante, tutto qui. Ero il cantante ed ero
decorativo. Avevo un anno più di lui, quasi, e dovevo pure beccarmi le paternali
del caso.
Lo adoravo e mi irritava per la stessa ragione. A morte,
ma non gliel’ho mai detto.
Dovevo approfittare del periodo in cui restammo soli a
occuparci del futuro del gruppo e non lo feci: quando arrivò Ken, nei fatti, lo
spazio che restava al sottoscritto era proprio quello che non volevo. Ero una
mascotte, a essere generosi. Dopo di me – e non ne sono neppure del tutto
sicuro – al più c’era quella stronza di Elizabeth.
Sarebbe erroneo credere che tetsu non mi consultasse più –
Tetsuya è un magnifico leader perché ci ha sempre permesso di esprimere
liberamente le nostre idee e la nostra personalità. È un perno di raccordo. È
quel qualcosa che ci permette di sapere che alla fine tanti colori daranno
davvero un arcobaleno – ma era l’atmosfera a essere mutata. Nelle sue parole, se
si rivolgeva al sottoscritto, c’era sempre una specie di dolce condiscendenza –
e mi piaceva, siamo onesti – poi, però, lo guardavo parlare con Ken – incazzarsi
o ridere con Ken – e mi rendevo conto di essere proprio un’altra cosa.
Non suo amico, comunque, e dire che avrei ucciso per
ottenere un simile privilegio.
Per quale motivo? Perché sono un uomo, prima di tutto. Oltre
le leziosaggini da palco, i fanservice cretini, le mossette isteriche per
fangirl più isteriche ancora, ero un ragazzo come tanti altri, che ammirava quel
suo coetaneo così efficiente, così vincente, così sicuro, e desiderava esserne
ricambiato. Ma se quel mio coetaneo così perfetto mi trattava come se fossi la
sua terza sorella – quella bella che non aveva, per dirla come Ken – forse non
avevo poi tutti i torti a sentirmi sottovalutato nel modo peggiore.
Intendiamoci: non è che tetsu fosse un mostro. Se mi
ritrovavo tanto coinvolto dal nostro rapporto era proprio perché per certi versi
mi capiva meglio di chiunque; aveva realizzato a pelle, per dire, quanto fossi
timido, quanto hyde fosse una facciata dietro cui c’era ancora il bambino
frignone e piscialletto dell’Apple, solo ch’era come se avesse operato
una scelta selettiva tra i molti me possibili, trattenendone per sé solo
alcuni.
Gli altri non li vedeva, o fingeva di ignorarli.
Spesso, però, erano quelli che contavano davvero.
Se Ken non fosse stato una persona davvero intelligente e
sensibile – oltre a un compositore troppo bravo perché potessi pensare di
disfarmene in qualche modo – dunque, non è difficile ipotizzare che la
convivenza sarebbe stata per tutti molto faticosa; io, se non altro, avrei fatto
il possibile perché lo diventasse. Era l’amico del cuore di tetsu da una
quantità spaventosa d’anni, insomma, mentre io avevo dovuto sudare sette camicie
per strappargli indirizzo e numero di telefono.
E io ero la sua star, non uno sconosciuto qualunque.
Ma Ken evitò di presentarsi come la spalla di Tetchan; era il
nostro chitarrista, era un musicista che non negò mai, dalla prima volta in cui
provammo insieme, d’essersi innamorato della mia voce – al punto che, a quella
voce, avrebbe dedicato una canzone omonima.
Mi conquistò anche lui, con facilità. Per certi versi mi
trattava con più rispetto di tetsu: non si faceva scrupoli a punzecchiarmi, a
mettermi in imbarazzo, a coinvolgermi in certi giochetti che da bravo figlio di
mamma fingevo di non conoscere. Era un chitarrista bravissimo, una persona
divertente; mi vincolò a sé con un’ammirazione che non è mai venuta meno,
liberandomi perciò dallo spettro della gelosia. Tutto merito suo, comunque,
perché da quel punto di vista temo che tetsu non abbia proprio subodorato
niente.
A volte ho il sospetto che per lui tutto potesse essere
liquidato con un bacino sfuggente nel backstage. In un paio di occasioni ho
persino accarezzato l’idea di darglielo sul serio, uno di quei baci per cui il
Giappone avrebbe pagato, ma sapevo che Tetchan non avrebbe capito.
Allora, almeno. Alla fine è evidente che abbia perso del
tutto il controllo – e non solo per colpa mia.
Mi fa un effetto strano pensare come la peggiore delle mie
crisi di gelosia sia esplosa con l’arrivo di una delle persone che ho più care
al mondo, il che, nondimeno, invita anche – se non soprattutto – a riflettere
sul fatto che la prima impressione non sia sempre quella giusta. Non è che
decisi di odiare Sakura per partito preso, è solo che tetsu ne parlava come una
fangirl rincoglionita; come sproloquiava al più di Crazy Cool Joe o di Morrie,
intendo: non certo di me.
Com’era questo Sakura? Oh, un genio assoluto. Uno che
sapeva suonare qualunque cosa, che aveva già inciso e lavorato persino con i
Dead End. Uno che veniva da Tokyo, ch’era bello e pure simpatico.
Oh, meraviglioso. Davvero. Meraviglioso.
Ce l’aveva almeno un difetto, questo Sakura?
No. Sembrava di no.
Avevo voglia di smontargli la batteria prima ancora di
vederlo, si può dire. A maggior ragione quando venni trascinato al concerto di
un gruppo per cui faceva il roadie, senza altra speranza che non fare da
tappezzeria – un po’ perché nel bel mezzo di quella marmaglia urlante c’era la
buona probabilità mi trovassi stritolato da qualche parte; un po’ perché io sono
negato per i primi approcci.
Se non ti conosco, cioè, non ti parlo. Fine della storia.
Del resto sarebbe stato difficile per chiunque – lo fu
persino per Ken – intavolare un discorso, visto che quel Sakura aveva in bocca
un LP di puro rock concettuale inglese anni Settanta e tetsu gli andava dietro.
Alla fine della cena non sapevo neppure se ero più rincoglionito dalla birra o
dalle chiacchiere. Del resto, è vero anche che se Sakura mi notò fu per tutto il
maiale che avevo mangiato – e mi aveva mandato quasi di traverso – nel tentativo
di tenere impegnata la bocca per non bestemmiare o essere politicamente
scorretto.
Voglio dire, a quel punto mancava solo che si mettessero ad
amoreggiare sul tavolo e avevamo concluso.
Rewind.
Ovviamente era la mia gelosia infantile e possessiva che mi
faceva straparlare e pensare ancora peggio. Con il senno di poi, è evidente che
tetsu facesse il possibile per risultare aperto, gradevole e disponibile. Sakura
era senz’altro il miglior batterista in cui potessimo sperare – in verità
Tetsuya aveva fatto un pensierino pure su un certo Awaji di Chiba, ma ce
l’avevano soffiato i Die in Cries – e un leader responsabile non poteva
ignorarlo. In compenso c’era una prima donna che si struggeva senza
valide ragioni, e rimuginava in silenzio rivendicazioni in merito alle quali
aveva se non altro il buongusto di sentirsi imbarazzata.
Forse a colpirmi nel vivo fu proprio il fatto che Sakura
fosse proprio come me l’avevano descritto: alto, attraente e bravo, proprio
bravo. Era spiritoso, giocherellone e non si dava per niente quelle arie da
bello e dannato che gli avrebbero cucito addosso; persino io, che pure ne ero
geloso, realizzavo a pelle che uno così dovesse piacerti per forza, a meno che
tu non t’impegnassi a sostenere il contrario.
Sono sempre stato il campione della cause perse, mettiamola
così. Forse intuivo in partenza che non sarei finito molto lontano con certi
miei infantilismi, ma se perpetrarli poteva significare attirare su di me
l’attenzione di Tetsuya, allora potevo fare buon viso a cattivo gioco.
Sakura era un ottimo professionista, soprattutto, e ci aveva
salvati, perché avevamo un contratto con la Danger Crue e un posto vuoto
che ci ipotecava il futuro; ora quel posto era stato riempito da un figlio di
papà e di note, che conosceva chiunque, ma, chissà per quale miracolo
indicibile, aveva scelto proprio noi.
Perché? Perché eravamo bravi.
No, meglio, perché un cantante come me non l’aveva ancora mai
ascoltato e visto nessuno.
Visto? Visto. Di belle voci non ne mancano mai, ma hyde
possiede qualcosa in più.
Sakura ha sempre avuto un modo di guardare alla musica tutto
suo, un occhio clinico, direi. Sarà che la sua famiglia ne ha sempre vissuto, ma
da quel punto di vista era un complemento perfetto per Tetsuya. Sul momento non
l’avresti mai detto, perché erano incredibilmente diversi, ma s’intendevano alla
perfezione.
Con una sola sessione di prova, Sakura aveva capito tutto di
noi: punti di forza e punti di debolezza, persino che i limiti erano veniali,
rispetto all’impalcatura sonora che avremmo tirato su.
L’unico buco nero in quel luminosissimo Tanabata di
aspettative ero proprio io.
Se tetsu mi avesse davvero capito fino in fondo, avrebbe
dovuto darmi una lezione, chiudermi la bocca e impormi di crescere, non tentare
di dare le attenuanti a qualcosa ch’era infantile e stupido.
Cosa significava il fatto che non volessi lasciare Osaka?
Morrie era volato in America per fare dei Dead End una vera rivoluzione e a me
sembravano troppi seicento chilometri?
Era vero che avessi paura. La mia vita stava cambiando e io
non ero pronto. Era ancora diverso dal giorno in cui avevo lasciato Wakayama per
andare a convivere con la mia ragazza: con un’ora di treno, potevo di nuovo
mugolare favori e ricatti emotivi dalle parti dell’Apple.
Ora ero obbligato a crescere fino in fondo, e non potevo
sbagliare.
Ken aveva già fatto una scelta di campo radicale, come poteva
esserlo lasciare l’università e farsi cacciare di casa. Sakura, per quel poco
che avevo capito di lui, era un genio per davvero. Lo lasciavano fare qualunque
cosa, tanto era pieno di soldi, di amici e di fortuna. tetsu era proprio un
gundam, quando entrava in conto la volontà. Sembrava timido, ma aveva la faccia
come il culo e non si vergognava davvero di niente.
Una volta Ken mi ha detto che quando Ogawa era solo un
bambino c’erano sempre certi bulli a tormentarlo per il suo atteggiamento
stralunato, ma a tetsu non era mai interessato cambiare. Era sicuro che si
sarebbero stancati prima di lui e non aveva sbagliato neppure in quell’occasione.
A Tokyo, però, dovevamo andare per forza, fosse pure perché
era là che aveva sede la Danger Crue, la label che ci aveva salvato la
vita e che avrebbe lanciato la nostra carriera. A dirla tutta c’erano parecchi
gruppi di peso interessati a noi – a me, per la precisione – le offerte erano
fioccate con insistenza, ma Ogawa si era dimostrato più scaltro.
Come potevo fare a meno di idolatrarlo, se anticipava ogni
mio desiderio e, soprattutto, mostrava di prevedere qualunque dettaglio, anche
il più piccolo? Il più marginale?
In una riunione del gruppo più burrascosa delle altre –
perché alternavo mutismo a sigarette e monosillabi scontenti – tetsu scoprì
tutte le carte: se ci vendevamo a Osaka, appena agli inizi della nostra
ipotetica ascesa, ci saremmo dovuti rassegnare a un contratto capestro come
quello che ci aveva offerto la Night Gallery. Avevamo un seguito
discreto, ma non eravamo ancora i Dead End. Dopo due anni non avevamo un quinto
degli spettatori che avevano assistito al debutto di Morrie, insomma, dovevamo
stringere i denti, valere di più: solo allora saremmo diventati major.
Ma alle nostro condizioni.
Sudava, Tetchan, era il nostro leader, era meraviglioso, era
insostituibile, ma non era un dittatore. Mi guardava e sembrava aspettare solo
una mia parola. Scollai quell’assenso con fatica, senza ricambiare la sua
espressione speranzosa e leale. Aveva colpito nel vivo il mio nucleo più
ambizioso, ingordo e arrivista. Forse anche un po’ l’affetto che nutrivo nei
suoi confronti, ma soprattutto la mia metà più nera. Tetsuya, però, non penso
che credesse alla sua esistenza, magari anche per il fatto che mi guardassi bene
dal palesarla del tutto davanti a lui.
È sempre stato un rapporto difficile, ambiguo e per niente
scontato, il nostro. Un rapporto nato, prosperato, degenerato sugli equivoci.
Sarebbe sempre meglio non farsi coinvolgere così dalle persone: gli errori che
ne vengono sono dolorosissimi.
Ma l’ho capito adesso, adesso che forse è troppo tardi per
tutto – se non per tornare indietro, senz’altro per costruire un’amicizia: non
te la inventi a quasi quarant’anni, quando l’hai mancata per quindici.
Credo.
Ma parlavo di Sakura.
Cosa c’entrava Sakura in tutta quella storia? Parecchio.
Yasunori era quello di cui tetsu aveva bisogno per trasformare i suoi sogni in
una macchina da guerra, in una schiacciasassi implacabile, che non avrebbe
tollerato rivali, perché Sakura conosceva bene il sistema, gli equilibri del
Kanto e aveva gli agganci giusti.
Mentre il sottoscritto ancora sbagliava linea della
metropolitana, perdeva le chiavi della weekly mansion, tossiva dello smog di
Tokyo, Sakura trattava con la massima disinvoltura chiunque: dal rocker che
aveva appena realizzato un sold-out al Budokan, al manager d’assalto; dalla idol
destinata a una carriera di serie B all’indie più promettente. Accanto a lui,
anche tetsu si faceva le ossa, diventava sempre più sicuro, sempre più attento:
lo stavo perdendo e ne ero consapevole, perché per mio conto sapevo di non avere
tutta quella facilità nel trattare gli altri. Riuscivo comunque a farmi notare e
a rendere il nome del gruppo sempre più famoso – per quanto fosse
impronunciabile – sebbene in un modo ch’era (almeno all’inizio) del tutto
inconsapevole.
Dopo quindici anni, se non sei stupido, o un maldestro
ingenuo, le regole del gioco ti appaiono tanto chiare che ti dici pure come
avresti dovuto impararle da subito. La musica è una recita, con i suoi tempi e
le sue battute: a quei tempi io avevo il talento e la faccia giusta, ma a
segnare la mia ascesa fu quel qualcosa che chiamano fascino.
O carisma. O, volgarmente, culo.
Anche se Tetchan gioca a fare il modesto e a chiunque dice
d’essere stato sempre un tipo fortunato, è evidente che mente. Mente e sa di
farlo in modo spudorato. Non sei fortunato se ti danni dietro le occasioni, se
te le inventi, se le crei persino dal nulla, quando non hai la minima chance di
sopravvivere all’ingranaggio.
Sei fortunato se, come me, un bel giorno trovi un tipo come
Mori che ti bacia con la lingua davanti a tutti e dice che sei la troia più
bella del Giappone: sei fortunato perché gli crederanno sulla parola, e da quel
momento in poi, qualunque cosa tu faccia, ci sarà sempre qualcuno disposto a
credere tu sia meraviglioso.
Ma lo sei davvero?
Io non so cosa sarebbe stato di me senza tetsu. Può anche
darsi che avrei avuto ugualmente successo. Può anche darsi, però, che avrei
abbandonato tutto, mi sarei sposato a vent’anni e avrei ereditato il pub dei
miei genitori.
A volte ci penso: forse sarebbe stata davvero la vita più
giusta e più felice per me, ma il destino non si fa con i ‘se’. Non posso
permettermelo io, che sono sempre stato anche ambizioso, egoista ed egocentrico,
e sto bene sul palco. E mi sta bene quando mi urlano HYDE haido kakkoi.
Quando mi chiamano king e ci credono davvero, poveri loro.
Invece l’unica persona che desideravo davvero che mi
riconoscesse quella corona ha sempre fatto finta di non vederla.
Peggio, mi ha rifatto il verso su una cover del cazzo.
Credo che nessuno mi abbia mai fatto arrabbiare tanto quanto
lui. Ma nessuno ha mai fatto quanto lui, in tutti i sensi.
Anche allora mi ferì. Non se ne accorse nemmeno, perché era
in buona fede e perché non studiava davvero certe mie espressioni incerte,
dubbiose o spaventate. Non si era neppure accorto che in un paio di mesi a Tokyo
mi ero fatto un solo amico, Yukihiro Awaji.
Ora, so che fa comodo a molti pensare che io abbia un debole
per i batteristi, ma la verità non è così banale e così scontata. Yukki era un
altro timido come me; stare con lui era un po’ come fare a oltranza quello
stupido giochino del silenzio cui ti obbligano all’asilo quando non ne possono
più di sentirti rognare – non che con me qualcuno avesse mai avuto quel
problema, ma generalizziamo. Era già famoso, perché suonava per un gruppo sulla
cresta dell’onda, ma era anche uno di quei senpai curiosi che non si danno le
minime arie.
Non era invadente. Non mi stava addosso. Non mi scrutava con
quell’espressione un po’ incuriosita, un po’ scettica, un po’ divertita che
avevano in tanti quando m’incontravano dal vivo – e dovevano per forza di cose
abbassarsi un po’. Soprattutto era uno che giudicava la mia voce e le mie
canzoni, non tutto il resto, perché già all’epoca la mia parte sul palco era
stata codificata nel modo peggiore.
Io ero carino, ero timido, ero dolce, ero una bambola: penso
che anche tetsu ne fosse convinto, perché per lui, cresciuto in una famiglia
tradizionale – checché ne dicesse il suo gusto in fatto di abbigliamento – uno
come me aveva per forza qualcosa di strano. Qualcosa di effeminato.
Perché? Perché non mi costava niente abbracciare qualcuno, se
capivo avesse il morale sotto le scarpe? Perché mi sarebbe piaciuto ricevere
altrettanto, se ero il primo a sentirmi sotto un treno?
Forse Ogawa avrebbe dovuto studiarmi meglio, studiarmi mentre
scaricavo le casse di birra dell’Apple, per esempio. O mentre camminavo.
O parlavo. O fumavo. O facevo l’amore.
Se c’era una signorina, tra noi due… Be’, quella non
ero io.
Non che Ogawa avesse sbagliato poi su tutta la linea, eppure
difettava di sensibilità. Tra noi due sono io il daltonico, ma anche quella di
tetsu è senz’altro una cecità estremamente selettiva.
Comunque fosse, fu allora che il muro di incomprensioni tra
noi cominciò a crescere, poco a poco. Fu anche allora che Sakura entrò nella mia
vita, e non dalla porta di servizio, proprio no. Se l’avesse fatto, per
intenderci, non avrei davvero pensato di smontargli la batteria pezzo per pezzo,
come quando si trasferì a Osaka.
A casa di tetsu.
Già, proprio nel mio territorio.
Pensandoci bene, fosse pure per come mi trattava a volte
Ogawa, sembrava destino prendessi il posto di Ren, comprese certe gelosie a dir
poco canine, ma non me la sento d’imputarmi tutta la colpa.
Voglio dire, tetsu aveva sempre difeso i propri spazi privati
dal sottoscritto. Se comprendevo benissimo li aprisse a Ken, era molto più
difficile accettare che l’ultimo arrivato mi precedesse senza la minima
difficoltà nella personalissima graduatoria del nostro leader.
Ero molto immaturo e non sapevo niente di come davvero ci si
rapportasse tra adulti. Se l’avessi fatto, avrei anche dovuto dirmi che siamo
tutti diversi e che possiamo voler bene senza dare i numeri a nessuno. Ora che
ho una famiglia – che ho una moglie e che sono padre – riesco a intenderlo
perfettamente: le persone che mi sono care sono troppe perché possa pensare ad
una gerarchia. Non ho neppure abbastanza vite da regalare a ciascuno come pure
vorrei.
A quei tempi, però, ero convinto che esistessero rapporti di
prima, di seconda e di terza classe. La mia autostima, poco ma sicuro, era
finita imballata in un cartone della stiva appena sopra la sentina.
Era un periodo difficile e delicatissimo per il gruppo; è
strano che riuscissi a pensare ai miei disastri emotivi – tetsu che non mi
voleva più bene, la mia ragazza che mi aveva lasciato – s’ero su un palco tutte
le sere. Forse fu quella la mia fortuna, e un po’ anche l’inizio della fine.
Soprattutto la mia fortuna, però, perché m’inebriai di me stesso.
Poco a poco, con sicurezza crescente, ero sempre più padrone
di quella folla urlante che mi avrebbe sbranato, se solo mi fossi sporto troppo.
Quella folla ch’era un mugghio a volte assordante e che mi adorava, malgrado
quel disgustoso, zuccheroso kawaii.
Dune sbancò; quasi non ci credevo e feci bene a dirlo.
Imparai, anzi, a recitare me stesso e la mia ingenuità fino in fondo. Tanto
tetsu era sempre controllato, sorvegliato, attento a pesare le parole, quanto io
ne vomitavo senza neppure pensarvi.
La verità paga sempre, diceva mio padre, che pure con la
sua verità non era diventato ricco. Ma io ero diverso: io sapevo giocare con la
verità – un gioco pericolosissimo, le cui conseguenze, però, sono sempre stati
altri a pagare.
I giornalisti del settore e persino i critici più impietosi
mi trovavano adorabile: ero così sensibile, così carino, così naïf. Dopo tanti
rocker maledetti, concepiti in serie, un piccolo poeta che sembrava una
principessa.
Oh, in parte era senz’altro così, ma dentro già covava un
demonio.
Speravo che Tetsuya si complimentasse almeno un po’ per come
sapevo catturare la benevolenza del pubblico più pericoloso, invece sembrava non
cullare il minimo dubbio sulla genuinità di quel che vedeva. Non era uno
stupido, tetsu, eppure non c’era proprio verso si accostasse al mio vero io.
Mi faceva male anche solo pensarlo, ma arrivai alla conclusione che Tetsuya
credesse che io fossi davvero stupido come recitavo talora davanti alle
telecamere.
Sorprendente era il fatto che non si chiedesse allora come
pure fossi in grado di scrivere le canzoni che lo impressionavano tanto: i
pazzi, forse, possono essere poeti. Gli imbecilli, no.
Mi dispiace, ma proprio no.
Eppure mi trattava come se fossi una sorellina carina e
scema. Contenta, per altro, d’esserlo.
Invece era così umiliante misurarmi con i limiti della mia
educazione, della mia timidezza, persino della mia inflessione meridionale!
Scontrarmi con quella specie di ghigno persistente e
sardonico che aveva sulle labbra chiunque ci intervistasse, aspettando solo il
la per menarti una stoccata da piangere.
Era una voce condivisa fossi in grado di addormentarmi
ovunque, persino in una stazione radio, in attesa della diretta. Vero, ma potrei
anche dire che accadeva perché non ci dormivo da due notti prima, teso com’ero a
ripassare tutto quello che dovevo dire, come lo dovevo dire, recitare,
impostare; preoccupato di non fare brutta figura per primo, e, soprattutto, di
non far fare brutta figura a tetsu, perché io speravo ancora che volesse
diventare mio amico, con un accanimento quasi infantile, e agli amici non farei
mai del male.
Mai. Posso giurarlo.
tetsu, però, non ci pensava per niente, e me lo dimostrò in
più di un’occasione.
All’epoca eravamo già diventati major e i ritmi forzati della
produzione avevano in qualche modo stemperato le ansie emotive. Lavorare può
essere un ottimo modo per fingere che non ci siano problemi, anche se nel mio
caso importava sentirsene travolti, perché dovevo scrivere, ed era un imperativo
categorico.
I ruoli sembravano distribuiti con una tale nettezza tra noi
che non pensai mai di chiedere aiuto o ribellarmi; la verità era che se comporre
belle canzoni poteva essere un modo per conquistare la stima di Tetsuya, l’avrei
fatto sino a morirne.
Sono proprio così, io, troppo egoista per inventarmi una
devozione che non provo.
E la provavo.
Per ricompensarmi, Ogawa giocava con me. Detto così potrebbe
sembrare qualcosa di carino e di gratificante, ma le parole sono sempre ambigue
e in questo caso, bisogna proprio dirlo, menzognere.
‘Giocare con’, infatti, potrebbe voler dire che ci
divertivamo insieme, oppure ch’ero il suo giocattolo.
Indovinate un po’ quale fu la sua scelta?
Mi giocò il tiro della marionetta ch’eravamo sul
palco, la prima volta. Senza che me ne rendessi conto, nei fatti, mi aveva
afferrato alle spalle i polsi, muovendomi come se fossi il suo pupazzo. Sul
momento mi sembrò un’idea anche carina, per sollecitare ancor più le nostre fan.
Poi lo fece per una specie di filmino privato, che girammo in
Marocco, e mi incazzai.
D’accordo, d’accordo: era un gioco, ma perché non giocava
così con Ken o con Sakura? Cos’ero io? Un coniglio nano?
Ci avrei pianto, giuro: ci avrei pianto di rabbia. Ma quando
mi sento profondamente umiliato, io ingoio la lingua, non riesco a dire più
niente. Non riuscii a dirgli niente, né allora, né successivamente.
Fu Yasunori a chiedermi se non fosse accaduto qualcosa,
perché, da un giorno all’altro, mi aveva visto giù di corda.
Ero partito per quel viaggio pieno di entusiasmo; era la
prima volta che andassi all’estero e ci andassi da star, per dire. I miei
genitori non erano come quelli di Sakura, non erano così istruiti, eleganti,
occidentalizzati, e io ero figlio dei Takarai sotto tutti i punti di vista.
Il Marocco mi aveva deluso. Era un luogo magnifico, pieno di
suggestioni, ma io non c’entravo niente. Ero un pesce fuor d’acqua, periferico
rispetto pure ai miei compagni di squadra.
Me ne stavo molto per conto mio, quando non c’erano le
riprese. Cercavo un po’ d’ombra e qualche soggetto da immortalare su un blocco
con cui ingannavo il tempo.
Sakura cominciò d’abitudine a sedersi accanto a me,
silenzioso come non era mai. Mi guardava disegnare e, se mi faceva un
complimento, era sempre molto puntuale. Un apprezzamento maturo, cioè, per
qualcosa che aveva un valore ai suoi occhi.
Non che tetsu non me ne avesse mai fatti, ma sembravano
complimenti di rito, elargiti con la leggerezza che si usa con i bambini.
Cominciai a guardare Yasunori in modo diverso: non come a un
intruso che mi aveva sottratto tetsu, ma come a qualcuno che poteva occupare il
posto su cui Tetsuya non aveva mai fatto neppure un pensiero piccolo piccolo.
Sakura non sembrava disturbato dall’ipotesi d’essere mio
amico, assecondava quel che stava accadendo con molta naturalità, e no, non
c’era niente di sporco e di interessato tra noi, perché non esiste un sentimento
più pulito dell’amicizia.
Potrei fare molti esempi sulle mille ragioni per cui Yacchan
si sostituì sempre più a Ogawa, riequilibrando in qualche modo la bilancia
distorta delle mie stesse emozioni. Alcuni sono molto banali, ma significativi.
Prendiamo la promozione a Pop-shake, per dire. Quando mi aveva
accompagnato Tetchan, ne era uscita una scenetta ignobile, in cui io passavo per
un deficiente e Ogawa se la rideva. Quando andai con Sakura, Yacchan si fece
mettere il guinzaglio e passò volentieri lui per l’idiota della
situazione.
Era più simpatico di me, era più bravo a comunicare, per
questo mi proteggeva. Al suo fianco diventavo sempre più sicuro di me stesso,
perché quando sai di avere un vero amico su cui contare, non puoi più pensare di
te stesso che vali poco o niente.
Tetsuya mi stava proprio trascinando lungo quella china,
ignorandomi o blandendomi come faceva. La goccia che fece traboccare il vaso fu
quando gli fregai la ragazza e quasi neppure si incazzò – non come avrebbe
dovuto, insomma – ai miei occhi era la prova ulteriore che non mi considerasse
proprio alla sua altezza. Non un ragazzo e neppure un rivale.
A ventisei anni – perché tanti, ormai, ne avevo – è qualcosa
che ti fa davvero male, perché io continuavo ad ammirarlo, ma mi ero rotto le
scatole di supplicare per un miracolo che, a quel punto, dubitavo potesse
esservi.
Non se non c’era nessuno a volerlo.
Dunque mi legai a Sakura come non mi era più successo dai
tempi in cui vivevo ancora a Wakayama ed ero solo un bambino inebriato e
intimidito dalla vita; anche se non avevo più l’età per un amico del cuore,
insomma, Yasunori divenne proprio quello. Mi piaceva stare con lui anche oltre
l’orario di prova. Me ne fregavo delle mille voci che giravano sul nostro conto,
perché erano solo – mi sembravano, almeno – pubblicità gratuita, e poi gongolavo
per l’espressione tesa e scontenta di Tetchan, che a volte mi faceva dei
discorsi strani.
Non passavo troppo tempo con Sakura? No, non mi
sembrava, perché?
Una volta glielo chiesi proprio a brutto muso, con un
sorrisino ch’era malignità allo stato puro. Gli scoccai a bruciapelo: “Sei
geloso, Tetchan?”
tetsu ci rise su, senza farmi leggere la propria espressione.
Per un pugno di istanti ebbi la magnifica sensazione di tenerlo in scacco, ma
Ogawa non è uno che ti dia soddisfazione neppure se lo inchiodi al muro. Non ero
crudele sino a quel punto, preferivo vivere la mia vita.
Una vita, a ben vedere, in cui tetsu entrava poco e male.
Il millenovecentonovantacinque fu un anno orribile per me. Mi
ammalavo in continuazione ed ero in piena crisi creativa. Avevo passato un
Natale di merda e solo Sakura mi aveva chiamato per sapere se fossi vivo o meno.
Tetsuya, in compenso, mi aveva dato una mezza lavata di capo per l’orribile
esecuzione di Blurry Eyes che avevo reso davanti alle telecamere di
Pop Jam, senza pensare che fosse già un miracolo stessi in piedi e avessi
arrangiato le ottave che mi servivano.
Tutto sommato, però, anche se sul momento rimasi mortificato
da quella che mi sembrava proprio una reazione esagerata e gratuita, gli fui
grato per aver perso le staffe: se essere visibile ai suoi occhi voleva dire
rinunciare ad ogni privilegio, be’… Io ne avrei fatto volentieri a meno.
Altrettanto ovviamente mi chiese però subito scusa,
comprandomi con quel suo sorriso adorabile e quella dolcezza disarmonica come il
suo viso. Una dolcezza che sembrava vergognarsi di esserci, e che dunque usciva
sempre un po’ rigida e sbilenca.
Non potevo fare a meno di volergli bene, ma se dovevo pensare
a un amico, quello non poteva che essere Yasunori. C’intendevamo a pelle, noi
due. In albergo dividevamo spesso la stessa stanza e chiacchieravamo fino
all’alba, come un tempo avevo sperato di poter fare con tetsu, ma era come se i
nostri sogni e i nostri desideri fossero fatti per incontrarsi in un solo punto
e poi divergere immediatamente.
Mancava tutta quella meravigliosa complicità che mi legava
invece a Sakura, una complicità fatta anche di bevute, di pattinate insieme, di
scherzi cretini, di barzellette sporche e fanservice estremi.
Yasunori non mi trattava mai da bambola o da ragazzina; mi
pizzicava le guance e diceva che avevo più baffi di lui. Poi saltavo sul sellino
della sua moto e andavamo a ingozzarci come maiali da qualche parte. Fu grazie a
lui che allargai il mio giro di conoscenze, che cominciai ad abituarmi a Tokyo,
ai suoi ritmi, alle sue luci e alle sue ipocrisie. Raggiunsi un equilibrio che
si rifletteva sulla mia musica, sulla nuova facilità con cui componevo e sul mio
umore. In quel periodo ridevo e sorridevo spesso, anche lontano dalle
telecamere. I rapporti all’interno del gruppo erano un miracolo di solidità.
Eravamo quattro fratelli e quattro amici; certo, tetsu passava più tempo con Ken,
come il sottoscritto era sempre incollato a Sakura, ma marciavamo compatti. Ci
volevamo bene.
Era tutto perfetto.
Sembrava.
Non c’è mai stato un vero e proprio accordo sul
millenovecentonovantasette. Non è che ci fosse cioè un vincolo contrattuale che
ci obbligava a stare zitti, eppure sono stato il solo che ha avuto le palle di
dire qualcosa.
Meglio, un limite c’era: non danneggiare il gruppo più di
quanto non avesse già fatto un drogato cretino.
Devo andare avanti? Lo sanno tutti chi era quel drogato
cretino. Per questo, immagino, i soliti noti avranno tratto tutte le
conseguenze del caso. Era naturale, cioè, che soltanto io me ne sentissi
colpito; io che ero l’amichetto – o l’amichetta? – di Sakura.
Non è che a invecchiare uno debba diventare stronzo per
forza, di sicuro, però, impari qualcosa su chi ti circonda. Impari a non
fidarti, soprattutto, di niente e di nessuno. E poi, a dire la verità, il mio
personalissimo sogno era finito molto prima di quel tremendo ventiquattro
febbraio millenovecentonovantasette. E non per colpa di Sakura, proprio no.
Ricordo molto bene l’undici aprile del
millenovecentonovantasei. Faceva già caldo e il pensiero di suonare per un altro
intero mese dal vivo non riusciva poi troppo diverso da un suicidio. Il problema
della fortuna, del successo e della fama, è che finisci con l’assuefarti; solo
un anno prima ero tanto eccitato da non dormirci la notte, in quei giorni ero
comunque pieno di buona volontà, ma avevo già capito che avevamo doppiato la
famosa boa che divide i gruppi emergenti da quelli che staranno a galla per
sempre.
Per sempre? Il mio era un salvagente bucato e neppure lo
sapevo.
L’undici aprile del millenovecentonovantasei, tetsu si sentì
male poco prima del nostro ennesimo live.
Perché quell’avvenimento mi è rimasto dentro in un modo così
doloroso ed evidente?
Perché non mi ero accorto di niente; perché Ogawa non aveva
detto nulla. Mi era svenuto davanti agli occhi senza un apparente motivo, invece
era evidente che qualcosa ci fosse, solo che, come al solito, io non contavo
abbastanza per saperlo.
Almeno era quello che pensavo; probabilmente, per contro,
Tetsuya interpretava il ruolo di leader a modo suo, e il leader, per tetsu, era
come Char Arznable: un martire delle cause perse. Se si sentiva così stanco,
così esaurito, così sottopressione, perché non aveva chiesto di poter staccare
la spina? Perché non ci aveva imposto d’essere un po’ tutti più responsabili o
collaborativi?
No, tetsu negoziava da solo, pativa da solo, si stressava da
solo e, se non l’avessi visto con i miei occhi baciare Kaori Mochida, giuro che
avrei creduto che potesse riprodursi pure da solo, per gemmazione o come i
lombrichi.
So di essere una persona dipendente e probabilmente è proprio
quello che mi rende tanto difficile penetrare la psicologia di un uomo come
Ogawa, ma se essere dipendenti vuol dire riconoscere il valore degli altri,
allora sono contento dei miei limiti. È terribile, invece, tentare di rendere
più leggero il fardello di chi neppure vuole passartelo, quel peso maledetto, e
poi vederlo crollare, sentendoti in colpa per qualcosa che neppure sai chiamare.
Senso di responsabilità? Lacrime di coccodrillo? Ma
responsabilità per cosa, se Ogawa non delegava niente a nessuno?
Desideravo capire, ma eludeva le mie domande con la solita
condiscendenza.
Oh, sì, ero davvero carino a preoccuparmi così per lui, ma
ora il peggio era passato. Sarebbe stato bene.
Intanto il mio orgoglio colava a picco, ma quella voce non
era compresa tra i talenti che doveva possedere il vocalist delle sue più
recondite ambizioni.
Quando dico che il mio sogno era già finito ben prima che la
dipendenza di Sakura fosse nota a tutti, intendo proprio questo: l’aver compreso
che non avrei mai ottenuto la stima e l’amicizia di tetsu. Che avrei continuato
a recitare una parte vuota, priva di un reale scopo. Che avrei accontentato
tutti, tranne me stesso, perché in fondo non m’importava affatto di piacere a un
milione di fan, io mi accontentavo di uno, di quel primo, silenzioso fan dei
giorni del BAHAMA.
Poi realizzai che il mio migliore amico si bucava; strano che
non mi sia buttato dalla finestra, insomma.
Riepiloghiamo: ammiro un ragazzo che mi ha confuso con una
nuova razza canina. Sono il miglior amico di un meraviglioso musicista che
antepone l’eroina a me.
Che razza di merda sono?
No, non è tanto per dire: io l’ho pensato davvero. Ci ho
messo due anni a risalire la china e a volte mi chiedo se ce l’ho mai fatta del
tutto. Non è che io voglia fare la vittima. In una storia come questa è anche
troppo facile dare giudizi e decidere le parti, insomma. Quello che tento di
spiegare è perché, all’improvviso, mi fossi stancato proprio di tutto.
Di un Arcobaleno fatto a pezzi, della stampa, del palco, dei
giornalisti, persino dei fan, che urlavano, urlavano, urlavano il mio nome, ma,
cazzo, ad ascoltare non pensavano mai.
Eppure li amavo tanto, i miei fan. Il loro era un amore di
facciata, ma almeno esisteva. Quel che mi circondava, per contro, era una fiera
delle vanità.
Sakura si bucava. Una parte di me urlava: “Dillo a tetsu,
dillo a tetsu! Deve esserci una soluzione!”
L’altra metà, no. L’altra metà preferiva sacrificare Yasunori
al mio orgoglio d’amico.
Indovinate un po’ quale haido vinse?
Quando arrestarono Sakura, io c’ero, ma non vi dirò come,
perché e cosa accadde. È un’umiliazione che mi porterò dentro per sempre: la mia
e la sua. Avevo sempre creduto di poter essere un amico perfetto; ch’era Tetsuya
lo stupido ad aver perso un’occasione come quella che gli offrivo, invece avevo
lasciato che Yasunori si distruggesse senza fare niente.
D’accordo, ero una merda e basta.
Poste tali premesse era evidente che del gruppo non
m’importasse nulla. Ci avevano tagliati fuori? E allora?
I Laruku eravamo noi quattro, in fondo. Senza Sakura non
c’era niente che avesse davvero senso. E poi non sapevo proprio se mi avanzava
la voglia di salire ancora sul palco e cantare.
Cantare cosa? Tutto quello che potevo riversare su carta
sapeva del mio rimorso, del mio rimpianto e, forse, della voglia di piantarmi
una palla in testa.
Per un po’, nei fatti, mi trastullai con quell’idea: ogni
giorno pensavo a un modo diverso con cui mi sarei potuto ammazzare. Svenare,
impiccare, buttare dalla finestra o sotto un treno; non che ci fosse una ragione
precisa per cui morire mi paresse così allettante, se non che mi sembrava… Come
dire? Riposante, ecco. Riposante.
Era evidente che non ci stessi con la testa. Anche se non
avessero sospeso il mio diario pubblico, dubito che vi avrei scritto qualcosa di
passabile. Qualche circuito essenziale del mio cervello doveva essersi
inceppato. Capita a tutti, a chi prima, a chi dopo. A me capitò allora. Punto.
Fu in quel periodo che tetsu fece qualcosa per cui non sono
mai riuscito del tutto a perdonarlo: ebbe pietà di me. Pietà di
uno che da cinque anni gli scodinzolava dietro per veder riconosciuta la propria
dignità.
Pietà.
Mi salvò la vita, senz’altro. Fu dolce e comprensivo e tenero
come solo i miei genitori possono dire d’esser stati nei confronti del
sottoscritto, ma mi umiliò definitivamente.
Ero una merda che non era stata in grado di salvare il
proprio migliore amico e che ora succhiava via attenzioni ed energie come un
parassita dal proprio leader.
Che meravigliosa carriera!
Senza tetsu sarei morto, ma Ogawa mi uccideva in modo
diverso. Meglio, uccideva una parte dell’haido ch’ero stato. Quello davvero
buono e fiducioso, forse. Quello che non solo somigliava a una bambolina, ma
forse lo era un po’ davvero.
Nella larva ingozzata di psicofarmaci che s’infilava nel suo
letto per non affrontare i propri incubi in solitudine, germinava un ego
disincantato, già corrotto da quell’overdose di realtà: un ego maligno che mi
nutriva di verità scomode e malignità gratuite.
E cosa mi diceva haido? Ad esempio ch’era tutto un
atteggiamento di facciata e di comodo: io servivo a Tetsuya. Io ero la voce, la
faccia, il cuore di quel suo cazzo di sogno. Non poteva perdermi.
E poi Ogawa voleva sempre sentirsi il migliore di tutti. Il
più bravo di tutti. Doveva godere un sacco nel vedermi ridotto così; così male
che neppure le fangirl più cieche mi avrebbero preferito al nostro invincibile
leader.
Dov’era la verità nel mio lucidissimo delirio paranoico? Nel
mezzo, probabilmente, solo che non sono mai stato bravo con le mezze misure – il
che, detto da un daltonico, suona a ragione persino credibile.
Parlavo molto poco in quel periodo. Sicuramente ho messo in
difficoltà pure Yukihiro, che, per altro, non mi conosceva abbastanza da capire
che non ce l’avevo con nessuno in particolare, non certo con il batterista che
doveva salvarmi la carriera.
Ken riusciva persino a farmi ridere, qualche volta. Con lui
non era poi difficile aprirsi un po’: forse perché, come me, era amico di Sakura
e non si vergognava ad ammetterlo. Tetchan, per contro, che con Yasunori aveva
amoreggiato in modo persino plateale, non si pronunciava mai, quasi l’avesse
cancellato.
Secondo capo d’accusa, insomma: era opportunista e pure
spietato.
Non era vero niente, ma a qualcosa dovevo comunque
appigliarmi per non odiare solo me stesso. Uno specchio, insomma, quando t’incazzi
non ti dà poi tutta questa soddisfazione.
Passammo da deportati buona parte dell’estate. A giugno ero
ridotto così male che mi consigliarono amichevolmente di prendermi una
pausa. Ai miei venne un colpo, quando videro com’ero ridotto; l’avevano
senz’altro intuito dalla natura sconclusionata di certe nostre conversazioni
telefoniche, ma toccarlo con mano doveva essere tutt’altra cosa.
Ora che sono padre, posso dire in tutta onestà d’essere stato
proprio un figlio ingrato. Ingrato e complicato. Senz’altro ho avuto accanto due
persone molto – ma molto – più sensibili, dotate e coraggiose del sottoscritto.
Non mi fecero neppure una domanda – e dire che ne meritavo eccome. Soprattutto
meritavano loro le risposte – eppure sono sicuro che compresero tutto. Ce ne
andammo alle Hawaii per una decina di giorni: sembrano pochi, ma mi aiutarono a
rimettere insieme qualche idea. A suturare – se non del tutto, almeno in parte –
la ferita che mi si era aperta dentro. A darmi il coraggio di rialzarmi, se non
altro, con la vaga idea d’essere diverso e migliore, soprattutto.
Non volevo essere più così dipendente. Non volevo più
implorare un’amicizia impossibile.
tetsu non mi riteneva all’altezza? D’accordo. Non sarei morto
per tanto poco. In fondo eravamo solo compagni di squadra, mica amanti, no?
A parole suonava quasi semplice. Nei fatti poteva anche
essere tremendamente complicato; ad esempio mi buttai a corpo morto in una
storia d’amore senza capo né coda, ch’ebbe come unico effetto quello di farmi
sentire ancora più debole e fallito.
Tetsuya usciva con Kaori Mochida, per dire; quel cretino di
haido, invece, non riusciva a scoparsi neppure la vicina di casa.
Fortunatamente il millenovecentonovantotto fu un anno
infernale: lavoro lavoro lavoro e, se ti distraevi un attimo, ancora lavoro. In
un certo senso non fu una semplice medicina, fu la salvezza. A furia di dover
convivere tutti i giorni con Ogawa, i suoi perfezionismi, le sue fissazioni –
per dire: i pass di Evangelion. I pass di Evangelion? Eravamo
professionisti o deficienti dell’asilo? – guarii da quella specie di ignobile
sudditanza psicologica che avevo sempre nutrito nei suoi confronti.
D’accordo, era un bravo leader, un ottimo professionista, ma
non era perfetto. Non era migliore di me.
Forse la frase che segna tutta questa storia è proprio quella
che ho appena pronunciato: non era migliore di me. Ma, a ben vedere,
tetsu non l’aveva neppure mai preteso, ero io, in lotta perenne con me stesso,
che proiettavo in lui le mie insicurezze, le mie paranoie e persino gli insulti
che non mi aveva reso nessuno.
Una persona, tra tutte quelle conosciute in quegli anni, mi
costrinse a rendermene conto: mia moglie.
Megumi era l’unica ragione per cui guardassi il telegiornale
la sera o pattinassi nei corridoi degli studi nella vana speranza di non
ammazzarmi e farmi piuttosto notare. Potrei dire che il mio fu un vero e proprio
colpo di fulmine; una sera, anziché bestemmiare sugli acquazzoni fissati per il
giorno dopo, rimasi come un imbecille a studiare quel viso intollerabilmente
carino.
Non so chi la conciasse così male. Di sicuro, però, la
costumista doveva essere una zitella invidiosa.
Megumi precipitò nella mia vita in intervalli successivi, via
via più ravvicinati.
La prima occasione in cui ci sfiorammo fu un set fotografico,
nel maggio del millenovecentonovantasette. Io avevo i capelli rossi – peggio:
color arancio – un tailleur da donna e un quintale di biacca in faccia, per
nascondere gli zigomi che bucavano la pelle. Sembravo una troia cocainomane, con
tutto il rispetto per chi è del mestiere.
Lei non era quasi truccata, pur pubblicizzando una linea di
cosmetici.
“È la ragazza delle previsioni del tempo,” disse qualcuno. Io
pensai solo ch’era proprio carina. Ero troppo depresso, in ogni caso, per
presentarmi, e poi, a ben vedere, non ero neppure granché presentabile.
La seconda occasione fu piuttosto un succedersi di occasioni,
visto che lavoravamo più o meno nello stesso stabile e gli orari a tratti
coincidevano. Megumi era sempre carina e io irrimediabilmente basso. Però mi
faceva sempre un bel sorriso, persino se non aveva la più pallida idea di chi
fossi.
La terza fu l’infamia di Utaban. E lì preferirei stendere un
velo pietoso. Se non altro i soliti biografi non autorizzati non inventeranno
nel dire che con le donne sono sempre stato un disastro. Restano i filmati del
mio imbarazzo; non, per fortuna, le parole che non avrei mai detto ad una
telecamera.
Megumi accettò i miei inviti, il mio corteggiamento
imbranato, la mia spropositata e ingombrante notorietà con una facilità che mi
sorprese e mi inoculò anche qualche orribile sospetto: non sarebbe stata né la
prima né l’ultima, in fin dei conti, a spianarsi la strada con un marito famoso.
Megumi, però, non aveva quel genere di ambizioni. Avrebbe voluto una bella
famiglia tradizionale, una casa con tanti bambini, un cane e qualche gatto.
L’unico punto eccepibile, a ben vedere, erano i felini, quanto al resto, sarebbe
piaciuta pure a mia madre.
Megumi, soprattutto, mi costringeva a pensare e a leggermi in
un modo diverso, non come cantante e neppure come musicista. Entrava in conto
piuttosto Hideto come uomo, come amante, come amico. Qualcuno che non faceva poi
così schifo, se una ragazza tanto carina accettava persino separazioni di
qualche mese. Valevo, insomma, oltre un pezzo di carta; se così non fosse stato,
per dire, non saremmo durati.
Proprio come Tetchan e Kaori.
D’accordo, stoccata infelice, ma voluta e meritata. Mi
dispiaceva per quella ragazza, ma non per tetsu. No, per tetsu no, perché era
ora che si rendesse conto che le persone non erano figurine di un album per
otaku e doveva rassegnarsi ad ascoltarle.
Guardarle non bastava, insomma.
Non eravamo tutti come Ken, non conoscevamo tutti il
Tetchan-quattrocchi-sfigato che ti faceva tanta tenerezza. Non potevamo dargli
le attenuanti dell’amicizia e dell’affetto senza che avesse provato almeno a
guadagnarsele.
Guadagnarsele come, poi? Facendomi cantare Perfect Blue?
Grazie, Tetchan, per avermi aiutato a sentirmi un mostro.
Al duemila arrivai stremato. Ci arrivammo tutti, per la
verità, ma soprattutto il leader e io, che ci odiavamo, probabilmente, ma non
potevamo dircelo. Meglio, forse ci mancava l’occasione adatta.
Che poi non è neppure vero; io non potrei mai odiare tetsu.
M’irritava, però, troppo per lasciar davvero correre. Troppo per fingere di
poter essere il solito, fedelissimo, canino haido.
Avevo più di trent’anni, stavo per sposarmi: non volevo più
carezze. Volevo – anzi pretendevo – rispetto, soprattutto perché ne davo.
Se c’era ancora qualcosa da salvare, in ogni caso, fu il
sottoscritto a liberarsene. Il sottoscritto a travolgere ogni imbarazzo residuo
senza rimedio, e non perché fossi stupido, ma perché ero onesto.
Io sono onesto.
La gara di kart fu un pretesto. Senza quella circostanza,
probabilmente, sarebbe capitato sui pattini o persino sul palco.
Quando l’aria è secca, scoppia un incendio anche per una
sigaretta di troppo: la nostra era una specie di sigaro cubano da venti
centimetri. Non era neppure una questione di ioni, ma di giorni.
Dovevamo distrarci e giocare un po’, ma tetsu non gioca mai.
Non molla mai. Non capisce neppure quando è ora di farla finita con la
perfezione più sfacciata persino nelle curve a gomito. Era lui che volevo
schiantare, non Ken. Era lui che volevo umiliare, una volta tanto, e non ci sono
riuscito.
Come in mille altre occasioni, la mia vendetta si è
trasformata in un brutale atto di autolesionismo. Mi sono fratturato più costole
di quelle che pensavo di avere, ma l’orgoglio mi fece molto più male. L’orgoglio
e quella specie di sorrisino soddisfatto e trionfante che tetsu teneva incollato
in faccia, mentre agonizzavo sul palco. Si preoccupava solo per Ken, lo stronzo,
perché con lo sterno a pezzi, suonare la chitarra è difficile.
Ma ha mai provato a far andare su e giù il diaframma, con un
puzzle al posto della cassa toracica?
A volte mi chiedo come sono sopravvissuto a quelle maledette
giornate, poi mi sfugge quasi un sorriso e penso sia stato per dispetto.
Esattamente quello, per fare un dispetto a tetsu.
Nei fatti, anche a riguardarmi, non trovo difetti tanto
vistosi da farmi vergognare. Ho cantato bene. Sono stato provocante e seducente
al punto giusto. Il bustino, tutto sommato, era persino sexy. E poi io sono
haido; tutto quel che offro è per forza di cose meraviglioso.
Il giorno in cui ho deposto il mio certificato di matrimonio
mi sono sentito libero come mai prima, forse perché mi sono visto finalmente
adulto. E nel mondo di un adulto, tetsu – e tutto quel che rappresentava il
nostro legame – non aveva ragione d’essere.
Era un falso miraggio, comunque, perché se persino durante lo
hiatus continuavo a scrivere e a cantare sentendomi sotto esame, voleva
anche dire che quel complesso non era stato superato per niente.
Era più vivo che mai, piuttosto; mi stava distruggendo la
vita.
Non ho pubblicato Roentgen per vendetta, ma per
necessità. Non dovevo dimostrare niente a nessuno, se non a me stesso. Volevo
guardarmi allo specchio, fissarmi negli occhi e chiamarmi uomo. Volevo
scrivere il dolore e dividerlo in strofe, così, a cantarlo mille volte, mi sarei
illuso d’averlo solo sognato.
Niente da fare. Tornai a Londra troppo presto – o troppo
tardi, dipende dai punti di vista. Mi separai da Megumi – e avevo ancora bisogno
di lei. Soffrivo i postumi di un eccesso di boria e di orgoglio, che divennero
presto abusi più specifici e pericolosi.
Senza quasi rendermene conto, ero di nuovo in fondo a un
pozzo senza uscita e senza luce, e non c’era nessun tetsu questa volta. Non
c’era proprio nessuno cui potessi aggrapparmi.
Ero rabbioso. Ero incredulo. Ero incazzato.
Il mio matrimonio stava andando a rotoli, la mia carriera
solista non decollava come volevo e io non mi piacevo per niente. Persino il mio
modo di cantare, a riascoltarmi, era squallido.
Eppure qualcosa mi salvò. Meglio, qualcuno mi salvò.
Qualcuno che non avevo salvato io, per esempio. E poi Ken. E Yukihiro. E
anche Megumi.
Un figlio non è un alibi sufficiente a salvare un matrimonio
che non funziona, ma non era la nostra unione a fare acqua, ero io: darmi una
seconda possibilità, in fin dei conti, poteva anche essere qualcosa di diverso
da una scommessa azzardata. Poteva essere un investimento. Non volevo deluderla.
Non volevo deludermi, in qualche modo dovevo alzare di nuovo la testa.
In quel periodo nero, segnato dalla depressione, dall’alcool
che mi aveva distrutto lo stomaco, da un figlio che doveva arrivare – e io che a
stento riuscivo a vivere, come me la sarei cavata? – tetsu non fu neppure
un’ombra pallida, non fu niente. Non si vide, né si fece sentire.
Non mi aspettavo enormi slanci, ma non certo di trovare al
più un messaggio in segreteria che si limitava a scoccare fredda: “Per metà
luglio dobbiamo pensare a qualcosa di nuovo.”
Leggi ‘Scrivi, haido. E se proprio vuoi crepare, fallo
dopo aver assicurato un altro mezzo secolo di diritti d’autore’.
Con tali premesse, che razza di collaborazione poteva
uscirne?
Smile non vale niente. Con altre parole, l’ho pure già
ammesso pubblicamente. Non avevo idee, né mi interessava averne. Non avrei
tratto il minimo vantaggio dall’essere il solito haido accomodante e pieno di
buona volontà, avevo già perso troppo tempo dietro a un maniaco compulsivo come
Ogawa.
Lavoravo il minimo indispensabile perché nessuno potesse
tacciarmi di disfattismo, ma l’ispirazione è un’altra cosa. Sono sicuro che
tetsu se ne rendesse perfettamente conto e mi odiasse anche solo per il fatto
che non gli offrissi il minimo appiglio per attaccarmi.
Mi ero fatto furbo, povero Tetchan, e lo conoscevo meglio di
quanto lui non conoscesse me, perché l’avevo rispettato come leader e come uomo,
io, non avevo cercato un animaletto da compagnia.
Persino quando all’Otakon dimenticai le parole di una
canzone che pure avevo cantato mille volte, non mi lasciai prendere dal panico:
avevo fatto cantare il pubblico, avevo fatto eccitare il pubblico in milioni di
circostanze diverse. Potevo inventarmi persino un fanservice su due piedi senza
che nessuno credesse allo squallore sotteso delle mie intenzioni.
Dall’occhiata che mi diede, tetsu mi avrebbe ucciso; non lo
fece e forse perse un’occasione, perché con Awake accadde di peggio.
Da Awake, a ben vedere, discende anche una giornata
come questa, che pure ha senz’altro radici lontanissime, là fin dai giorni di
quel BAHAMA in cui non vado più da anni come semplice cliente.
Io non posso odiare tetsu. Lo ripeto ossessivamente, senza
sapere chi debba davvero convincere, se me stesso o l’invisibile giuria chiamata
a giudicarmi.
Non c’è nulla che abbia davvero voluto per fargli del male.
Ogni mio gesto, al più, era finalizzato a impedire che me ne facesse ancora lui,
con il suo disinteresse, il suo sprezzo mai troppo ostentato, ma pur sempre
presente. La sua freddezza manifesta. Il suo non considerarmi degno di
un’amicizia che avrei invece ricambiato mille volte.
Ne avevo parlato con Sakura, persino – Sakura che con tetsu
aveva lavorato a Reverse, facendomi sentire ancora più geloso, escluso e
cattivo – e Yasunori mi aveva detto ch’eravamo ciechi tutti e due.
“In che senso?” l’avevo incalzato, ma Yacchan non aveva
voluto offrirmi nessuna soluzione scontata. Nessuna risposta troppo diretta.
“Dovete arrivarci da soli.”
Arrivare dove? Davanti all’anticamera della morte?
Dunque ci siamo: un’omissione infantile, cattiva, dispettosa.
Un tiro dei miei, uno dei tanti, uno di quelli cui pensavo tetsu si fosse ormai
abituato.
A ben vedere, probabilmente, può anche darsi che io stesso
non sappia niente di Tetchan, non l’abbia poi capito così bene.
Interpretavamo i P’unk, ma non gli ho fatto il
chorus. Me ne sono fregato. Preferivo sculettare come un imbecille per il
pubblico pagante, preferivo scegliere il mezzo più diretto, squallido e crudele
per dargli a intendere che dell’Arcobaleno contava ormai un solo colore.
Io.
Quello non era un concerto, ma un sistema haidocentrico.
Però… Però…
Non mi aspettavo che avesse davvero il fegato di sfidarmi
faccia a faccia, con il piglio da leader che non usava più da eoni – se poi
l’aveva mai davvero posseduto. Mi chiamasse – spalle al muro – a confrontarmi
con la mia penosa immaturità.
E l’ha fatto, oh, se l’ha fatto.
Ho sbagliato io a tappargli la bocca. Ho sbagliato a usare
proprio quel mezzo: perché in un istante da niente non ho potuto fare a
meno di pensare ai baci ch’era stato piuttosto tetsu a darmi, e in nessuno di
quelli c’era lo stupido disprezzo con cui io ho distrutto quindici anni di
un’amicizia possibile.
Non era importante che non l’avessimo mai chiamata. Forse
qualcosa c’era.
Io, invece, me ne sono nutrito sino a lasciarne una spoglia
esangue.
Il mio Tetchan.