Anime & Manga > D.Gray Man
Ricorda la storia  |      
Autore: E u r eka    10/12/2010    2 recensioni
«Se io sono la dolcezza» ha chiesto in tono rassegnato e mite, «BaKanda cosa dovrebbe essere di preciso?». Kanda non gli ha puntato la mugen al collo solo per la presenza di Linalee -non augurerebbe nemmeno al suo peggior nemico le urla maniacali e assillanti di Komui sulla salute della sorella-, ma ha digrignato i denti in un ché di ridondante che rimandava l’assicurazione di ritorsioni future e con disprezzo il solito mammoletta. Lavi non ha dovuto nemmeno rifletterci.
Ha sorriso in maniera più ampia e -sinistra- sfacciata. «Yu è la nostra coscienza» ha esplicato portandosi un dito alla fronte e picchiettandocelo per meglio inculcare l’idea nel suo uditorio.
La Coscienza da vecchio saggio ha continuato imperturbabile ad affilare la spada, ruminando epiteti poco fini e Lavi se possibile ha sorriso in modo più marcato.
Linalee ha approvato con soddisfazione: «E’ vero». Allen si è grattato una guancia, pensieroso, e li ha guardati uno per uno come a domandare loro -davvero?- pieno di perplessità al riguardo. «E tu Lavi?» ha ricordato con cortesia amabile Linalee. Lo sguardo di Lavi ha brillato torvo, il ghigno s’è fatto bieco. «La risata» buona o cattiva che sia- ha risposto beato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rabi/Lavi, Yu Kanda | Coppie: Allen/Lenalee
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Mem

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono state occasioni, ripensa Linalee, in cui combattere non le piaceva per niente, non ci si trovava.
Ed è successo spesso all’inizio, tante da perderne il conto e anche qualcos’altro, volte in cui le missioni affidate si rivelavano fallimenti ancor più grandi dei ripetuti tentativi di rifiutare l’innocence. Scelta da Dio per combattere, come un’eroina, come la stessa Giovanna D’Arco aveva letto in un romanzo.
Gli Akuma sono i nemici, le hanno insegnato a credere e lei ha imparato a vedere in quegli involucri dispensatori di follia solo l´insano dell´uomo e non il suo grido ancestrale di disperazione.
C´è solo odio in quei mostri e ha fatto il callo lei a tutte le volte in cui si è ritrovata con le gambe impiastricciate di striature color fango e cenere, distruggendoli. Sogni diventati melma da calpestare nell’indifferenza impietosa. Neri, come le ombre delle anime perdute che li creano e compongono, non rossi, non sangue. L´assenza del sangue l´ha aiutata, certo, eppure non può fare a meno di ricordare le prime volte, quando il raccapriccio e il ribrezzo erano tali da farle scorticare i palmi a furia di lavarseli. Ci sono un sacco di cose che Linalee vorrebbe dimenticare, ma non può fare a meno di rivedere, ricalcare passo dopo passo nella sua mente.
La prima volta che ha visto Kanda ad esempio. Visto, non incontrato.
Con Kanda le prime volte sono sempre state così: visioni, mai incontri. L´incontro tra due persone presuppone che entrambi dicano almeno qualche sciocchezza di convenienza all´altro e Kanda non le ha mai parlato. A ben vedere Kanda non ha mai rivolto la parola a nessuno lì alla base nei primi due anni in cui si è ritrovato ad abitarci. Forse solo a Maire e a Komui, ma non dubita che nei confronti del secondo sia stato costretto a farlo per forza di cose, o almeno così deve essere stato all´inizio.
C´è stato un periodo in cui si incrociavano nei corridoi loro due e lei non aveva neppure il coraggio di avvicinarsi, quando camminando strusciava i piedi lungo i pavimenti freddi, ad occhi bassi e coi capelli sciolti sulle guance e le palpebre abbassate, quando tutti i vestiti le stavano troppo grossi e le cadevano di due taglie più grandi sulle spalle, spioventi, facendola apparire più piccola di quanto non fosse nella realtà, non più. Quelli confezionati appositamente su misura che Leverrier le faceva recapitare, da signorina, li ha sempre riposti nel cassettone sotto la finestra, come monito e promessa.
Che una donna esorcista sia qualcosa di strano, non miracoloso, solo strano, Linalee l´ha capito da sola e senza aver bisogno che nessuno glielo dicesse, non a parole almeno o dando suono ai suoi pensieri.
L´ha compreso osservando il modo in cui i filler la trattavano, con riserbo e un timore cauto per nulla reverenziale od ossequioso, non quello che ha visto loro rivolgere a Kanda da sempre, anche quando si rifiutava di spiccicar parola. La prima volta che si è decisa a dirgli ciao e presentarsi, Linalee non aveva ancora i codini, ma gli occhi spalancati dalla sorpresa, quasi fosse allibita lei per prima della sua stessa audacia, scuri con ciglia lunghe in un viso da bambola e grandi, puntati nei suoi assenti.
Potrebbe giurare quasi di averlo sentito trattenere il fiato Kanda se non fosse così sicura, ora più che mai, che lui non farebbe mai qualcosa di tanto rumoroso, neppure allora che del fantasma non serbava solo il canto e la voce nel cuore. Ricorda sia stato da quella volta che abbia preso l´abitudine di attenderlo fuori dalla stanza in cui era già solito allenarsi. Non gli ha mai camminato di fianco, non per disagio o paura -sentimenti così brutti da rivolgere ad un bambino, quelli che leggeva rispecchiati nei sorrisi di circostanza e cenni di saluto di chi capitava incrociassero nei corridoi-. Crede sia stato solo un gesto di premura. All’epoca non era tanto più alta di lui, ma aveva intuito che quei pochi centimetri di differenza lui non sarebbe mai stato capace di mandarli giù, insieme quelli a tante altre cose. Ingobbiva la schiena e inclinava il capo da un lato sorridendo tra sé con susseguo e un ché di timido e impacciato, lasciando che i capelli le solleticassero la nuca scoperta e si dividessero già da allora in due bande sulle scapole appuntite. Ricorda di quel periodo un po’ buio che ci fossero solo loro tre puntini luminosi nel suo mondo, a mo’ di lucciole: lei, ni-saan e Kanda.
Poi il caschetto di Kanda si è trasformato in una coda lunga, a frustare lo spazio circostante con l’impazienza caratteristica del suo proprietario. A lei è sembrato di essere diventata uno scricciolo tutt’a un tratto riscoprendolo di colpo tanto alto accanto a sé, ma ha trovato anche confortante –in modo strano- l’idea di non dover più piegarsi e poter invece inarcare liberamente il busto teso, intrecciare le mani e dondolare sulle punte come l’immagine della ballerina nel suo carillon, quello trovato durante una delle prime Vigilie davanti alla porta della sua stanza.
Sentirsi più vicina in quella maniera al cielo, anche se sempre grigio e color pioggia, che circondava la base, tappando ogni direzione come una distesa di nuvole piombo per miglia e miglia a perdita d’occhio.
Poi è arrivato Lavi. Linalee non ricorda bene il momento in cui è comparso e non si sforza nel farlo.
E’ stato un giorno di lutto quello in cui Bookman ha scelto di fare la sua prima apparizione assieme al suo apprendista e lei era troppo impegnata a versare lacrime sui corpi dei compagni caduti per dire un altro degli infiniti ciao posticci di cui si era impossessata ingorda da quel primo detto a Kanda tanto tempo prima. A che pro, si domandava, farsi degli amici- una famiglia- per poi vederla sgretolarsi come niente sotto artigli grifagni, sfuggendo alla pressione dei suoi polpastrelli troppo deboli, goffi per saper mantenere integra la presa a lungo?
Non è quello che ha pensato invece Lavi scrutandola di soppiatto, non per riserbo, ma solo pieno di curiosità di fronte alla cappa di angoscia che appestava come fumo indistinto l’aria e bruciava occhi e polmoni. Ha seguito la linea accennata della colonna sotto il cotone del vestito, studiando con interesse puramente da scienziato della storia, qual era suo destino diventasse un giorno, la piega innaturale delle ginocchia all’indietro, forse rotte, bende scomposte dappertutto, bianche nella matassa scura come piume di corvo sul capo chino e il braccio di un’infermiera avvolto con rudezza nel comune dolore inarticolato, intorno al torace riverso in avanti. La punta delle dita sottili protese verso le bare senza tuttavia mostrare l’intenzione reale di sfiorarle, o forse senza trovare il coraggio di riuscirci.
Poi ha intercettato il suo sguardo umido e traboccante, le nocche del pugno premute con forza contro il petto,l’espressione smarrita, vulnerabile. Irrazionalmente ha sperato di non doverla rivedere mai più.
Non sa perché, ma di quel giorno non è mai riuscito a ricordare il tempo se non sotto forma d’acqua. Il rumore di tante gocce di pioggia ad infrangersi su pavimenti di roccia come battiti indomati e respiri stroncati.
L’intensità di quello sguardo di cristallo, dello squarcio che ha intravisto in ogni ciglia , non è stato capace di scordarla. Si è domandato spesso Lavi se il suo prossimo sé sarebbe stato capace di non fare altrettanto e fallire.
Ha riso di una cupa risata vendicativa a quel quesito senza risposta.   

 

Guardare il proprio riflesso allo specchio Lavi lo fa spesso, ma ritrovarsi faccia a faccia con una sua copia in carne ed ossa, per di più in versione cattiva e senza cuore, l’ha sconvolto ugualmente.
Ed è questione di poco –qual è la dimensione del tempo se non quella che noi stabiliamo abbia e a cui la circoscriviamo?-, ma sente chiaramente, si rende conto, che quello che ha davanti a sé potrebbe essere lui fra qualche anno, un’immagine che piomba direttamente dal futuro, lì dove ha perso (perderà) l’ultimo filamento di quel che lo rendeva ancora umano e lo separava dal diventare un perfetto Bookman. Potrebbe anche accettarla allora quella visione, tanto familiare gli è quell’immagine, proprio come l’aveva già vista prender forma nella propria fantasia, se non fosse che ora le sono comparsi accanto anche altre figure che non può per niente sopportare.
Può vedere sé a quel modo, ma la vista di Linalee e Allen e tutti gli altri abbruttiti da una malvagità che non potrebbe loro appartenere neanche tra centinaia d’anni e peccati dopo, no. E’ questo pensiero, la paura per loro, l’amicizia che nonostante ogni ritrosia incespicata al riguardo nutre nei loro riguardi, -le distinzioni che cadono- quei sentimenti appartenenti ad un cuore di cui forse un giorno imparerà a fare a meno in tutta tranquillità, ma che ora, nell’oggi che avanza, ancora tiene in sé, serve a farlo svegliare dal torpore del sogno indotto da Road. E non è più la risata della bambina dei Noah, deliziata dalla portata del suo terrore e della sua apprensione, della tortura lenta e affossatrice che ritiene di avergli inflitto, a fracassargli i timpani. Scompare in uno
splash Lavi e sono le voci concitate di Allen e Linalee, quelli veri, che piangono perché pensano di averlo perduto e sperano basti chiamarlo perché torni da loro, a riempirgli le orecchie riportandolo sul pelo della realtà.
Un ghigno spiazzante: «Mi spiace, ma c’è ancora qualcuno che mi attende là fuori».         

 

In Lavi spesso Linalee ha pensato ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato, come un pezzo di tela lasciato incompleto dall’artista che la stava dipingendo e riempiendo dei colori della sua immaginazione. Un angolo bianco, privo della benché minima colorazione. Quel genere di tonalità assente da ogni buon senso che lei non è mai riuscita ad apprezzare appieno, forse invidiosa.
Troppo nero a marchiarle i dorsi e l’interno dei polsi perché potesse comprenderne o carpirne l’esatta essenza inafferrabile. Ecco, la risata di Lavi era di quel bianco accecante.
Aveva l’esatta portata di un buco cavo e risucchiante che invece di luce richiamava a sé le tenebre e ne sputava radici fluorescenti, ugualmente assurdo.
In quella guerra, accanto al broncio immusonito che aveva imparato a ricollegare a Kanda, la risata di Lavi si era rivelata un paradosso. Perché era impensabile, lo era stato, il vedere la familiarità con cui piegasse la bocca in quella smorfia storta e arcuata verso l’alto, coi gomiti mollemente poggiati su qualsiasi piano a disposizione e gli occhi di quel verde caliginoso, come erba al crepuscolo, puntati nei suoi a mantenere facilmente quel percorso diretto, malizia distratta e sfuggente, senza alcun secondo fine. Non poteva dire di avere ascoltato molte risate in vita sua, ma abbastanza perché quella risata in particolare le fosse divenuta cara. Perché da quella era scoppiata ciò che in seguito era stata buffamente definita epidemia dell’allegria e Linalee aveva davvero pregato perché non se ne trovasse cura o rimedio. Non si era meravigliata quindi al vedere una gemella di quella prima risata sul proprio volto un giorno di qualche mese più tardi, semmai di osservare come la sua risultasse tanto più piena rispetto a quella dell’apprendista. Non sapeva Linalee che quei buchi non rattoppati Lavi non avrebbe potuto colmarli neppur volendo. Il vuoto di nomi, volti, vite intere rese tali. E in sottofondo la cocente, bruciante delusione del sapersi impossibilitato a gustare il sapore del rimpianto derivatone.
Quelli tra le rughe di vecchiaia precoce –quanti sé, troppi sé- erano granelli, la sabbia nella clessidra scandiva il tempo che scorreva, delle fibre sbriciolate dai grossi libri le cui pergamene sfiorite Lavi toccava col naso imprimendovi l’indice ad ogni rigo, parola dopo parola. Della pelle secca che la precedente maschera cadendo aveva sbrindellato, come alla fine di ogni finzione del resto.
Ma quella per lui, checché ne dica il protocollo che la sua vita dichiara a quel modo, checché possa pensarne il vecchio che gli è mentore, non è mai stata una messinscena.
Perché in quei suoi log lui ha messo un pezzo di sé, e ad ogni nuova registrazione se l’è lasciato dietro.
Lavi l’ha capito da tempo che se Bookman un cuore non ce l’ha, non è perché non l’abbia mai avuto, ma perché l’abbia perso così, strada facendo.

 

«Ehi Linal-…» la mano che stava per carezzare in una pacca amichevole il suo interlocutore s’interruppe a mezz’aria e fece brusco ritorno in basso, stesa immota.
«Oh, Yu» respiro profondo, come per trattenere una grassa risata ed evitarne lo scoppio indelicato. «Scusa, pensavo fossi Linalee» spiegò rendendo ovvio un malinteso già compreso.
Kanda proseguì a camminare nel corridoio vuoto, senza darsi pena di ascoltarne il soliloquio –scuse campate in aria a cui lui non prestava la benché minima attenzione né verso cui mostrava l’intenzione di voler concedere qualcos’altro non fosse la strenua convinzione non vi fosse altri che la propria ombra al suo fianco-. «Sei sempre così bisbetico» si lamentò prevedibilmente con voce lagnosa Lavi, seguendolo e atteggiando le labbra in un broncio infantile. «Davvero, non dovresti prendertela così amico» una presa familiare e fraterna sul punto di avvolgersi intorno alle spalle frenata dall’elsa della mugen, frapposta tra loro come barriera dispensatrice d’avvertimenti a non oltrepassarla.
«Io non sono tuo amico» ringhiò lui accompagnando le sue parole con una smorfia sprezzante, come fosse disgustato alla sola idea. «E si dà il caso Linalee ora abbia i capelli corti. Ciò significa che non hai più scusanti che reggano pezzo d’imbecille!» sputò rancoroso, incenerendolo e rinfoderando la spada. Lavi si batté un palmo sulla fronte a quell’informazione veritiera e poi scrollò la testa passando le dita nella folta cresta rossa.  «Beh, ad ogni modo ormai dovresti essere avvezzo all’idea di sembrare una donna visto da dietro. Dopotutto l’abitudine è dura a morire, no Yu?» ironizzò ghignando spensierato. L’attimo di quiete che precede l’abbattersi furibondo di ogni tempesta che ne meriti l’appellativo. Kanda si permise un sorriso mefistofelico, l’aria serafica mentre pronunciava la sua sentenza di morte. «Ora ti ammazzo» promise sguainando di nuovo la fida mugen. Lavi rise allegramete buttando la testa all’indietro e cominciando la consueta corsa per sfuggirgli.
Kanda non comprendeva perché l’altro inseguisse tanto stoltamente l’oscura collezionista d’anime né perché ogni volta ridesse a quel modo. Sopra ogni cosa però non riusciva a raggiungere la sua comprensione il motivo per il quale lui gli avesse permesso di avvicinarsi a sé o perché anche se in modo deprecabile e detestabile l’uno braccasse l’altro colpendone il tallone d’Achille -senso di tolleranza e sopportazione reciproche, bugie mal dette-. Provenivano da direzioni opposte e per questo non potevano convergere che nella stessa direzione, meta e punto uguali a farli incrociare.                    
                   

 

Ai ricordi Kanda non tiene in alcun modo. Ha troppa dimestichezza con un lato che non gli è mai appartenuto in quella vita e ciò nonostante mai l’abbandonerà, per provare una sorta di qualche riguardo sollecito nei confronti di aspetti consunti già al loro stato brado.
Ai sentimenti ha smesso di credere, come nella fede. Tutto ciò che gli rimane e a cui si aggrappa quindi è il pulsare al petto e la riflessione –odiosa come quel suono secco e martellante nelle orecchie- che quella che abbia avuto in spiacevole concessione sia una seconda possibilità.
La terza se considerata anche quella che non appartiene al corpo, che ora ha quella forma, ma solo alle memorie che lo animano e ne coordinano i movimenti e le azioni. Kanda non rivanga il passato in quanto ritiene sia sciocco ritornare su dettagli ininfluenti, sorvolabili di quel tipo e anche perché del passato ne aveva avuto abbastanza ancora prima che arrivasse il presente, allorquando quello ancora rappresentava l’adesso. Non ricorda assolutamente perciò e si vergognerebbe quasi del contrario, l’arrivo dei due Bookman. Non gli sembra di aver fatto caso a nulla di diverso nei mesi successivi al loro sbarco all’Ordine né di essersi soffermato con malcelato fastidio sulla chiassosa chioma rossa scoperta a chiacchierare con amabile confidenzialità insieme a Linalee.
Riandando indietro o prestando caso alla questione, risale a quel periodo preciso probabilmente l’assillante e ansiosa paranoia che Komui pare aver sviluppato nei riguardi di invisibili avventori alla mano della sorella. Ad ogni qual modo comunque, a Kanda non importa. Gli è però importato nel momento in cui entrando in sala mensa ha trovato il nuovo arrivato seduto al suo posto, al suo tavolo.
Ricorda un affettamento sventato e che in seguito a quello lui abbia acquisito la temeraria consuetudine di chiamarlo Yuu e appendersi alle spalle, gioconda buffoneria cialtrona.
Lo stesso Yu cantilenante di altri suoi ricordi, quelli che sanno di vecchio e del putridume fetido che accompagna la morte. Affettarlo a strisce gli è apparsa di nuovo la soluzione migliore, ma nessuno sembrava considerarla allo stesso modo e ha dovuto contenere l’invadente impulso e reprimerlo.
Ha presto intravisto Kanda però, pur sprovvisto di intuito femminile, quello che Linalee non è riuscita a spiegarsi in tanti arrovellamenti. Il mistero intorno al Bookman minor che mai è riuscita a svelare.
Kanda conosce lo sguardo che ha avuto quando ancora era considerato un bambino per via di quelle sembianze ridicole che lo facevano apparir tale, quando la mente già era a conoscenza di cose troppo grandi e orribili perché lui continuasse a venire considerato a quella sorta.
Che l’apparenza possa trarre in inganno l’ha imparato a proprie spese e uccidendo Akuma coll’aspetto grottesco di essere umani. Non si è quindi lasciato incantare o ammaliare dalla sua risata.
Non ne sentiva l’acuto bisogno come Linalee che da sempre ha cercato una normalità che è collaudato non potrà mai raggiungere, qualunque cosa provi o tenti di fare per ottenerla, che necessita di una regolarità piatta nella sua vita irregolare quanto lui di silenzio per meditare.
C’è stato qualcosa in Lavi che però abbia trovato il sistema di cozzare contro la sua apatica noncuranza ed è appunto lo sguardo. Di sguardi come quello di Lavi ne ha visti a centinaia, a migliaia, così tanti da essere diventata quotidianità il vedere quelli e non altri sulle facce di chiunque.
E’ lo sguardo che Komui definisce dei sopravvissuti e che lui non definisce in alcuna maniera invece. Ma è anche lo sguardo di chi sa che presto o tardi non ritroverà più niente di sé dentro se stesso e teme e al contempo non può fare a meno di attendere con trepidazione esso giunga. L’attesa in fin dei conti è sempre snervante, nervosa.
C’è qualcosa di irrequieto in lui, una sorta di inquietudine stizzosa, di smania frettolosa e sfrigolante che sfoltisce gli occhi e li fa sbattere come fronde di alberi durante una bufera ai bordi.
Un qualcosa di indefinito di cui non può sopportare la vista. Linalee non è mai stata una buona osservatrice. Lei nota, ma non si sofferma sui particolari, preferendo riempire gli elementi che mancano nelle sue valutazioni coi giudizi. E’ quello che Kanda le ha sempre rimproverato insofferente.
Un distacco obiettivo tra sé e i propri sentimenti, un punto di vista imparziale che lei non potrebbe mai avere, le manca. Linalee non percepisce la realtà, la modella. Linalee vede e sente col cuore e questa, è sempre stata la sua condanna.

 

Linalee corre veloce tra la folla di sopravvissuti, nella calca irrespirabile e rumorosa e –viva- compatta. Le sembra di girare in tondo come quando da piccola volteggiava su stessa e poi cadeva stremata per terra, una danza sgraziata inventata per gioco. Ha il tempo appena di chiamare aiuto. Allen, ricorda, è ferito e sta aspettando qualcuno che lo soccorra e ne medichi le ferite, nel corridoio dove l’ha lasciato promettendogli di tornare il prima possibile.
Allen, spiega, dimenticando parole tra un respiro e l’altro, ed è già a terra. Non era così cadere, nota distrattamente. La testa allora era pesante, puntini bianchi premuti contro l’iride, le guance rosse di divertimento e per le risate. Ora si sente leggera invece, straordinariamente leggera e teme quasi di volare via. Mantenetemi o mi solleverò in aria vorrebbe dire e le scappa una risata isterica.
Per poi piombare giù. Incrocia appena lo sguardo di Kanda che la guarda al di sopra della spalla, con aspetto ordinato anche nel trambusto generale. Un brusio indistinto, crudele a gettarla nella verità, sussurri impietosi. E’ un’occhiata breve, veloce, uno scambio di colori affogati nell’altro e lei comprende. E già sente stia per piangere e tutta la stanchezza torna, ora più che mai.
Kanda si volta andando via e lei attende di essere nuovamente in piedi e di allontanarsi, per cominciare a piangere. Kanda le lacrime non le può sopportare e quel sorriso, scopre, le è già morto dentro.
Ora è come un palloncino mezzo sgonfio. Solo che è non è solo volato via, è scoppiato. Tapp…  

 

Infine c’è stato lui. Allen. E come la risata di Lavi era stata un paradosso, il sorriso stropicciato di Allen è stato un indovinello. Per Allen Linalee ha mostrato subito una sensibilità tutta nuova; e se la cosa ha lasciato lui come al solito incurante, la stessa quieta presa di coscienza di Komui a quel trattamento di favore avrebbe potuto causare perplessità in qualcun altro. Sa cosa di Allen la affascini tanto, lui.
In Allen Linalee riconosce un proprio simile: un sognatore capace di fare del sogno il perno attorno a cui ruota la sua intera esistenza. Sciocchi, deboli sognatori ecco quel che sono entrambi e li condanna Yu tra sé, ma lo fa masticando quel pensiero nel silenzio raccolto e spigoloso della propria testa.
Perché il loro di dolore è eterno e mai unico, definitivo. Ad ogni vecchio se ne aggiungono di nuovi e così via, in una catena che non conosce e mai vedrà conclusione.
E per quanto profonda e localizzata, la sofferenza procurata da una sola ferita può essere paragonata a quella di tante piccole sparse un po’ ovunque sul corpo, crosticine sempre più recenti che si affiancano ad altre mai sanate del tutto e pungenti nel prurito attanagliante.
Allen e Linalee i sentimenti non li sopprimono. Allen li ingoia, come pane e marmellata e Linalee se ne barda, li ha perfino bevuti i suoi sentimenti liquefatti. Allen non ha lo sguardo dei sopravissuti. Ha il sapore della rugiada nell’iride e cos’è la rugiada se non la malinconia pianta dai fiori per la notte al suo imbrunire? Gli occhi di Allen sono frammenti di vetro, cielo in bottiglia, strettamente collegati al sorriso e senza l’uno non c’è l’altro. Socchiude lo sguardo Allen e stiracchia in una piega dolce la bocca sottile, col labbro inferiore prigioniero dei denti che ne mordono l’interno e affondano leggermente.
Tutto il viso si spiegazza, la cicatrice a lato stazzonata verso il basso e sgualcita su se stessa come a voler scomparire. Le prime volte che se l’è ritrovato involontariamente davanti, a Kanda è sembrato quasi di rivedere Linalee. Di Linalee da piccola – dell’infanzia che ha smesso di esserlo per entrambi molto prima si incontrassero- lui non ha reminiscenze precise.
Ha poca dimestichezza coi ruderi improntati di immagini nebulose che quelle rappresentano, sia della vecchia vita che di quella nuova. Non vuole averci nulla a che fare o spartire. La prima volta che l’incrocia tuttavia, dopo il mancato tagliuzzamento alle reciproche presentazioni –affettare è l’espediente a cui ricorre per liberarsi della molesta scomodità nei pensieri che certa gente gli fa venire in mente e soffia come polvere negli occhi- non può non pensare a Linalee. Ha capelli corti di un’insolita sfumatura di bianco sporco, ma per un attimo gli appaiono neri e tanto più lunghi mentre strofinano contro il collo che pende obliquo, il capo trasverso.
Ma è la postura storta, la curva accartocciata della spina dorsale colla prima vertebra che è un bozzolo informe dietro la collottola e come se la massaggi in continuazione passandoci sopra polpastrelli screpolati dal freddo, i passi calcolati e lenti, il braccio che è un ammasso agglutinato e maledetto come la stella tatuata in fronte e gli pende sul fianco senza vita, peso morto e inceppato nei suoi ingranaggi poco funzionanti. Imbarazzato come lo era Linalee della propria indecisione, nella propria tristezza.
Solo che quella di Allen non è tanto tristezza quanto nostalgia, nostalgia diversa da quella che molti lì dentro provano per casa, e che lui nutre nei confronti di un fantasma che è stato un po’ padre un po’ creatore, come Geppetto con Pinocchio. Soltanto che lui non è un burattino, ma un personaggio mascherato tanto simile al Pierrot da rischiare di essere accusato di plagio.
E come lui guarda alla luna e la desidera pur vedendola, sapendola irraggiungibile e lontana, ben capendo che è la sua stessa maledizione a rendergliela impossibile da dimenticare.

Idiota, pensa scuotendo la coda e allungando il passo per superarlo altezzoso. E’ un maledetto e pieno di disprezzo aggiunge un “mammoletta” che non sa ancora gli ripeterà quanto più spesso possibile da quel momento in poi.

 

«Cosa c’è?»  domanda Allen osservandola con curiosità. E’ da un po’ che Linalee lo sta fissando e per quanto poco fastidiosa la cosa, si chiede cosa ci sia di così interessante nel suo viso, cicatrice a parte ovvio. «Ho qualcosa in faccia?» chiede ingenuamente e già la mano, quella buona, è corsa alla guancia e la sta strofinando con decisione rude. Ecco, ora è diventata rossa.
Le dita di Linalee sfiorano la parte ferita, delicate, fermandola con fermezza prima la graffi e questo solo perché lo stava guardando. Non capisce Allen che lei starebbe lì a rimirarlo per ore e solo per il gusto di farlo? No, semplicemente non riesce a concepirlo.

«Allen?» lo richiama e sorride già, solo al pronunciarlo il suo nome, con Allen che fa lo stesso in un riflesso speculare e incondizionato, i loro palmi ancora uniti. Sorride sempre Allen, non gli farà male? «No, niente» scuote piano la testa. Codarda. «Pensavo…» inizia di nuovo tentennando. E’ così semplice trascorrere del tempo con lui, a fare nulla di particolare che non sia lo stare insieme, solo loro due.
«Che dopotutto saresti bene anche con la pelle un po’ più scura, sai?» Avrà capito il riferimento? Ha distolto lo sguardo in imbarazzo Linalee, le mani in grembo sovrapposte l’una sull’altra, ma continua a sorridere impacciata, con affetto rassicurante mentre l’espressione di Allen si irrigidisce appena.
Si è fatta più fredda, di poco, ma lei lo percepisce quel disagio improvviso e si dà della stupida perché avrebbe dovuto stare zitta. E poi la sente. E’ un attimo e subito dopo è già scomparsa, ma è successo.
La pressione 
delle labbra di Allen sulla guancia, morbide, calore lì dove l’ha sfiorata in contrapposizione al lampo di ghiaccio che gli ha attraversato gli occhi e poi si è dissolto, un grazie sussurrato. «Me ne ricorderò» promette con maggiore leggerezza ed è tutto di nuovo tranquillo.
E’ già passato. Vorrebbe solo fosse sempre così, sereno perché lo è e non perché per combattere occorre si mantenga lucido. Gli tira la guancia per dispetto col pollice e l’indice e ridono entrambi.
Non potrebbero essere sempre così i giorni?

 

Al futuro se possibile a pensarci di più era proprio Allen. Linalee non vi si soffermava troppo, la paura di scoprire come sarebbe stato il trovarvi un mondo di frammenti sparsi attorno a lei, un incubo che si avverava. Lavi lo faceva qualche volta.
Si domandava come sarebbe stato dire addio a quel suo quarantanovesimo, cosa avrebbe provato.
Ma Dick faceva ancora male, come acqua ossigenata su una sbucciatura e un altro da accantonare in un angolo della mente e unire alle proteste troppo accorate e intense del predecessore no, non sarebbe stato capace di affrontarlo. Non prima di aver completamente insabbiato il primo almeno.
Chiudeva gli occhi allora e si lasciava andare all’indietro con la testa, le mani in tasca e l’occhio sotto la bandana col tessuto a squame che bruciava, qualcosa di caldo a premere contro le palpebre serrate.
Era presto, si consolava, ancora troppo perché pensasse a quelle cose, ché lui vi badasse o prestasse attenzione. Tornava piuttosto confuso, un ghigno frastornato come i suoi occhi, da Linalee e rollando sulle gambe traballanti della sedia di fianco alla sua, concedeva al suo sguardo di accarezzarne il profilo ancora e ancora. Pensando tra sé - prima o poi non lo vedrò più. Dovrò dimenticarlo- e facendo scorta per quel futuro in cui sapeva con assoluta e dolente certezza lei non sarebbe stata presente.
Ma Allen, Allen rimaneva quello che più di qualsiasi altro ci pensava. E ci rifletteva Allen e vagliava ipotesi e opinioni al riguardo. Li immaginava felici, sorridenti, vivi, intorno a un tavolo come quello di lì a vent’anni, a scambiarsi frecciatine e mangiare piatti preparati da una Linalee più matura e donna, magari madre e anche moglie. Non si vedeva tra loro, ma gustava ugualmente ciò che la sua fantasia gli creava, confezionandoglielo appositamente per appianare la colpa brutale dell’assassinio che la guerra richiedeva ogni giorno, in una sete bramosa di sangue mai soddisfatta, mai paga.
E il braccio pulsava un po’ meno, così come la cicatrice e le ferite che riportava sempre e per le quali Linalee sovente soleva sgridarlo e urlargli contro, per poi abbracciarlo scusandosi.
Batteva forte il cuore di Linalee contro il suo, piccolo come quello di un uccellino, i passerotti dei lunghi inverni della sua infanzia. E si diceva allora che anche a costo della propria vita quel futuro avrebbe loro voluto offrirglielo in dono. Qualcosa di più che meritato per tutti loro, ma non per sé che non poteva, e forse mai avrebbe voluto, dimenticare.

 

E’ accaduto qualcosa una mattina, quella che Linalee non può fare a meno di ricordare con orrore. Si dice sia stato il torpore che le appesantiva lo sguardo, il fatto che non avesse neanche avuto occasione di sbattere le palpebre e stropicciarsi gli occhi per abituarli alla diversa luminosità, come per i muscoli intorpiditi degli arti assopiti. Non saprà mai se sia stata l’illusione di un gioco di chiaroscurato quella macchia scura ad inseguirsi sul volto di Allen tra mille guizzi e luci più chiare, che quel qualcosa già era scomparso. Ma Linalee conserva dentro di sé l’impressione, e prega rimanga infondata, che in quell’attimo infinitesimale Allen non sia stato più Allen.
Che sia stato invece qualcun altro, l’ombra che si rifiuta d’ammettere esista e si nasconda come un parassita in lui vivendo a spese della sua serenità, che gode forse nel saperlo intimamente distrutto dal tarlo che lo tormenta sul perché e sul chi e su quel come dannato che l’ha maledetto.
Linalee non ascolta i pettegolezzi e non vi bada, non ha mai dato adito a nessuno né ha avuto modo di sentirne in prima persona, anche perché in caso tale eventualità accadesse non sa come potrebbe comportarsi. Arrabbiarsi? Certo, ma contro chi di preciso? Non c’è meschinità nel terrore, solo in chi lo genera.
Linalee vuole credere a quel che ha visto negli occhi tersi come il cielo prima dell’alba di Allen e mai elusivi se non nel rifugio appannato delle sue riflessioni costellate delle trappole che le adombrano.
Vuole credere al rossore che ne ha incendiato le guance pallide e gli zigomi.
Vuole credere in Allen, in ciò che prova e sente col cuore, non prestando orecchio a voci indistinte che lo marchiano già nella sua rovina decadente più di quanto non sia. Allen non è perduto e mai lo sarà.
Non finché avrà abbastanza fiato nei polmoni per urlare il suo nome e richiamarlo a sé, non fin quando l’innocence brillerà in tintinni scarlatti intorno alle caviglie.
Non finché per Allen conserverà lo stesso concerto di battiti irregolari. Lei ci sarà sempre qualsiasi cosa accada, lui l’ha capito questo?                     

 

 

*

 

 

(Nel presente memorie del passato…)

 

 

 

Era uno sciocco Allen se aveva pensato sarebbero stati capaci di dimenticarlo una volta fatto quello che aveva ingegnosamente deciso di fare, ma ci aveva creduto davvero.
L’ombra del Quattordicesimo che rendeva quelle sue speranze più radicate, tanto da sembrare piantate lì chissà da quanto, da tempi innominabili. Avrebbe dovuto saperlo, pur nell’ingenuità macchinosa della sua buona fede, che loro non glielo avrebbero permesso, mai.
Sacrificarsi, che pensiero sciocco, folle avrebbero detto ridendo in modo forzato e innaturale, passandogli un braccio intorno al collo e spintonandolo con maggiore decisione, come a scrollargli quelle idee di dosso per farle uscire. Eppure ci aveva creduto ugualmente.
Si era augurato che scomparendo insieme al Conte ci sarebbe stata pace finalmente. Niente più battaglie né esorcismi, solo uomini e donne liberi di essere ciò che volevano. Avrebbe dovuto prevedere anziché indovinare, che nessun piano, anche il migliore, non procede senza intoppi.
Il primo degli intoppi era stata Linalee e il pianto colmo d’ansia che si era levato col suo grido acuto nel cielo d’eclissi. Singhiozzando l’aveva richiamato fino ad avere la gola di fuoco e la voce rauca, fino a quando le falangi insanguinate e sporche per averle strette troppo nei palmi Lavi non gliele aveva sciolte con decisione scostando le dita una per una, come con una bambina.
E Allen a quel dolore, a quella supplica accorata di fermarsi, quasi aveva ubbidito; ma poi, con una contrazione all’occhio e una fitta più forte al torace all’altezza della cicatrice riaperta, s’era buttato contro il nemico. Lo spicchio dell’astro della notte che moriva un po’ di più scostandosi da quello del giorno che aveva coperto, in una luce bigiastra incastonata come un gioiello nell’oscurità sopra la sua testa e tutt’intorno a loro.
Era come l’incubo, quello dei loro sogni- suoi e di Allen-, che diventava realtà.
Ed era così tormentoso che aveva temuto il cuore le sarebbe esploso in petto. O che l’avesse già fatto.
Forse era morta e non se n’era accorta? Non c’era pace neppure per chi aveva in vita dato abbastanza di sé, tanto da arrischiarsi a porsi la domanda se sarebbe mai rimasta qualche briciola? Ma non era morta, le disse qualcosa, in un vortice urlante che partiva dal petto e si scioglieva diramandosi coi suoi lunghi tentacoli sino alle tempie, facendosi largo a furia di spintoni e lì affondando le sue immonde propaggini, avviluppandola in un abbraccio soffocante di pena straziante che la fagocitava dall’interno.    
Quelle sotto i piedi nudi tanto per cominciare –l’innocence era andata perduta e insieme a quella ogni speranza- erano macerie vere, pietra e macigni a ferirle i palmi. Detriti del Nuovo Ordine che si mischiavano a quelli dei ricordi del Vecchio, la Torre che aveva svettato nera in mezzo alla spessa cortina di tenebre e nuvole lugubri, ora palcoscenico sgangherato dell’ultimo atto di quella tragedia.
Linalee si era spesso domandata perché tutto quel nero quando non bastava forse il solo nero vomitato dai corpi mutilati del nemico ad infangare ogni cosa? Ma non aveva trovato replica o spiegazione a quella scelta. Era per confondersi tra quello stesso colore tetro, per soppiantare al disgusto l’abitudine, alla compassione il livore, mimetizzarsi tra i cattivi arrivando loro stessi ad un palmo dal diventarlo. Loro erano i buoni, avevano un cuore, una coscienza, dei sentimenti a riportare a galla la debolezza tutta umana che li rendeva capaci di quella loro unica forza ostinata, quella che aveva permesso ad alcuni di avvalersi dell’innocence.
Ed Allen che probabilmente era il più buono tra loro –la bontà di aver conosciuto la malignità insita nell’animo e averla vinta- voleva sacrificarsi. La presa salda di Lavi l’aveva abbandonata da tempo e Linalee sentì le braccia farsi più fredde che mai, gelide come le acque torbide delle pozzanghere, grosse polle d’acqua stagnante ricoperte da una patina giallastra opaca e unticcia.
L’aria sembrava così densa e crepitante d’energia statica che anche i capelli le si erano arruffati dietro le orecchie, pieni di terriccio e dell’odore stantio di muschio.
C’era però qualcos’altro portato dal vento che le fece fremere le narici dilatandole.
Qualcosa di metallico: ferro e ruggine e il sale di lacrime non ancora versate. E sangue rappreso che sgorgava da ferite aperte sulle carni martoriate dal becco di corvi e cornacchie già accorse a sincerarsi del lauto pasto offerto loro come macabro dono, il banchetto del male in trionfo.
Poco più in alto, galleggiando nell’amarezza smorta che ne incanutiva i buchi di bruma sparpagliati qua e là, in un cielo che si chiamava cielo anche se momentaneamente non lo era più, ciò che rimaneva degli antiapostoli. Tyki Mikk e Road Kamelot rappresentavano gli unici superstiti dell’antica famiglia dei Noah ed entrambi, notò lei con una punta acrimoniosa d’esacerbazione, recavano ben pochi segni che facessero intuire la loro partecipazione allo scontro di poc’anzi, giunto solo allora allo stallo di quel singolo combattimento tra avversari pari di fazioni opposte.
L’uno osservava con pigra indolenza la devastazione coltivata dagli attacchi precedenti, il terreno sottile a metri di distanza, ricoperto di una brina scura che scricchiolava come schegge di lenti cadute da occhiali rotti sotto  i passi claudicanti dei pochi superstiti, raggruppati ai margini di quel campo riarso dalle fiamme cineree e dai riverberi bluastri e verdi che divampavano dagli akuma annientati.
Si passava ripetutamente le dita tra i capelli, scostandoli dalla fronte su cui finivano poi col ricadere subito dopo in ondulazioni morbide. Ai margini della sua visuale invece Road, deliziosa come il demonio, intenta ad assaggiare il sapore dello zucchero squisito che subito scompariva nel flusso del suo sangue composto di sola perfidia. Assistevano al compimento della disfatta di quel Walker verso cui entrambi avevano manifestato tanto interesse da sempre e il malcontento che forse covavano era invisibile, anche nel broncio infantile dell’una e nell’aria annoiata che l’altro padroneggiava col suo fastidio.
E Allen intanto combatteva, affondava e parava e oh!- Kanda avrebbe potuto essere orgoglioso di lui se non fosse stato tanto impegnato a distruggere akuma e ad odiarlo e non necessariamente in quest’ordine.
E il Conte non rideva più mentre la maschera dell’avversario da concentrata si distorceva in una bieca copia di quel che era stata e Linalee poteva scorgerlo anche da lì, sentirlo, lo sconcerto del Conte mentre gli occhi di Allen si trasformavano da liquido fuso a pagliuzze d’oro e così il suo aspetto.

Ma è Allen, rimane sempre Allen, anche se in una forma differente, si ripeteva rincuorandosi al gelo improvviso provato al vederlo diverso. Il cuore, quello è di Allen e l’innocenza che tiene stretta è sua e solo sua, di nessun altro. Desiderava svegliarlo il Quattordicesimo, ma arrivava tardi il Conte. Allen aveva già fatto sua l’ombra. Le verrebbe quasi da canticchiare ora, una delle melodie orribili che Road l’aveva costretta ad ascoltare prima di privarla dei Dark Boots, quasi avesse voluto strappare via pelle dalla carne.
E in fondo così le era sembrato nella tribolazione che era seguita, come una parte di corpo sradicata, un arto amputato. Come ha fatto Kanda a sopravvivere ad una sofferenza dilaniante di quel genere?
Non c’è stata leggerezza né pesantezza dopo, non c’è stato più nulla. Solo Allen. Allen, Allen, Allen. Allen e i suoi occhi trasparenti e disincantati, Allen e le sua mani di grandezze differenti. Allen, Allen, Allen. In un turbinio di colpi –Allen-, grida –Allen-, raffiche pungenti –Allen-.
Ci sono fasci di colori a mezz’aria, come arcobaleni privati degli altri compagni di ventura. Solo viola, ametista che sprofonda in blu cobalto e pervinca gigliato, contusioni ed ematomi nel firmamento glauco.
Allen che esita e crolla su un fianco, appoggiandosi alla spada.
L’occhio che lacrima sangue blu; è un nobile Allen? Il principe azzurro delle favole?- lo socchiude, ma la visuale risulta compromessa ormai e il Conte troppo vicino.
E’ un attimo, come sempre, a decidere il tutto. Distratto dalla lama che gli trafigge metà volto e la cicatrice che sembra stia squarciandosi per quanto duole.
E la luna che scopre sempre un po’ di più il sole, risata leziosa in un cerchio tondo e perfetto di malvagità.
E’ un momento, ma basta perché lei precipiti nell’abisso.
Gocciola scie di cattiveria rappresa di follia, veleno che appesta e rende orbi. Rende cieca la lucidità e porta all’onore e alla gloria triviale la pazzia. Sembra tutto così vuoto il resto, ora.
E’ un istante, uno spasimo, tum-tum… Un saltello in petto. Mezzo tum. E Allen non c’è più. Mezzo tum.
Ed è bianco.                         

 

 

Lavi non sa cosa sia precisamente quel che lega Linalee e Allen, ma sa che è qualcosa che non provino per nessuno altro oltre loro due o perlomeno non così.
Amore verrebbe da dire, eppure gli sembra una parola troppo riduttiva, così banale per rendere e rappresentare l’idea di quel che sia, che ne ha scartato la definizione semplicistica dapprincipio.

E non perché il solo pensar loro a quel modo procuri fastidio eh, certo che no.
Una volta ha sentito dire Yu che sono uguali e fatti della stessa pasta. Anime gemelle ha pensato allora e ha strappato in brandelli la frase scritta nella sua mente e che da quella prima ha preso a ricomparire ogni volta che si è scoperto ad osservarli insieme. Sono attenti alla presenza dell’altro, ma in modo del tutto inconsapevole, ha notato. Non fanno caso all’intimità dei loro sguardi, al modo in cui entrambi si sorridano di tanto in tanto ad occhi socchiusi e cuore aperto.
Allen che prende per mano Linalee e la conduce come se l’avesse sempre fatto, fosse quello il suo compito e Linalee che si lascia trasportare, fiduciosa, che sarebbe pronta a seguirlo anche in capo al mondo se solo lui lo chiedesse. No, anche se non lo facesse, se non le domandasse apertamente di rimanere insieme a lui, lei lo seguirebbe senza esitazione.
Ne ha preso atto ed è stato proprio il loro sorriso a far capitolare la sua resistenza alla fine.
Perché Linalee e Allen hanno identico il sorriso velato, l’uno della gentilezza cordiale e l’altra della delicatezza che le è propria.
Ed è quel sorriso così simile a renderli differenti e separarli. Linalee che nel suo pare voglia urlare la forza del suo amore, pronta a far del miracolo che possiede il suo sacrificio; e Allen che invece bisbiglia nel suo quel mi dispiace che è lungimirante e ripete sempre passando oltre il proprio riflesso, chiudendo gli occhi, pieno dei sospetti che lo divorano. Sembra sappiano entrambi a cosa vanno incontro, da sempre e che ne accettino le conseguenze senza recriminazioni, col dolore che hanno acconsentito ad avere nelle loro vite come parte fondamentale ed imprescindibile, insieme alle armi impugnate e la responsabilità di vite altrui a pesare sulle spalle.
Ma Lavi può affermare di aver compreso davvero quel che Yu volesse dirgli, solo adesso. Ed è ascoltando le grida strazianti con cui Linalee chiama Allen –Allen, Allen, Allen… viene da credere lei non sappia pronunciare altro che il suo nome- che gli sovviene un altro ricordo e un altro pezzo di puzzle, l’ultimo, va al proprio posto ricomponendolo del tutto in un globo perfetto.
Anche nell’arca, quando piangeva vedendoli combattere l’uno contro l’altro, lui e Allen, lei non ha mai urlato il suo nome a quel modo. Ha pianto sì, ma non ha urlato, non ha stretto tanto le mani da ferirsi i palmi. Quel suo pianto era di dolore certo; ora però che è Allen lì in pericolo è diventato pura e semplice disperazione, frammenti d’anima staccati dal posto che spetta loro e sparpagliati ai suoi piedi come cocci di quel che erano.
E in fondo deve ammettere di aver sempre saputo che quel che Linalee cercasse non fosse un prato, ma un cielo in cui annegare lo sguardo, l’azzurro profuso d’argento che non sia quello sbiadito cui è abituata sin da bambina, ma solo quello dei suoi sogni più cari.
Non è quell’azzurro tenue però ciò che sembra irradiarsi da lei e diffondersi in un nulla nello spazio che la circonda e oltre. E’ cielo, ma non del colore che aveva desiderato diventasse la sua monotonia, di un bianco traslucido, accecante neve. Candido marmo alabastro che pare voglia stemperare ogni altra tonalità, ripulirla e salvarla in qualche modo, riportandola all’originaria condizione immacolata. E’ una bolla che ricopre ogni cosa rivestendola, cresce a dismisura in altezza e lunghezza come un’esplosione di luce, senza screziature. Sovviene allora il ricordo in cui l’innocence di Linalee si sia trasformata in quell’armatura indistruttibile simile al diamante. Questa versione però è malleabile e trapassa in lame rarefatte il corpo. E’ come immergersi in un lago di fuoco splendente e fulgido in cui non si corre il pericolo di affogare. Entra negli occhi, nel naso, nelle orecchie e attraverso la pelle –raggiunge il cuore- quella luce ed è calda, come il sorriso di Linalee e il suono della sua risata.
Gli akuma, soldati manichino in prima fila nella loro stessa marcia funebre, sembrano frenare la corsa, il luccichio malsano delle pupille rossastre, fiamme dell’inferno, del ghigno perverso congelato nella stasi della fine e puf- scompaiono.

«Cenere alla cenere, polvere alla polvere», mormora gracchiante Bookman e Lavi si ritrova ad assentire in una confusione disorientata che pare non essere il solo a provare. Sbaglia o i nemici si sono appena sgretolati, diventando pulviscolo? Yu a pochi passi da lui impugna ancora Mugen, nell’atto di tranciare l’akuma contro cui stava lottando per dargli il colpo finale. Ha le sopracciglia aggrottate e si guarda intorno con aria bellicosa e corrucciata. Cosa sta succedendo?- è il bisbiglio generale.
Cosa è successo, vorrebbe correggerli lui. Perché se le sue conclusioni al riguardo non sono errate, è possibile abbiano appena vinto. Dietro di loro come una marea impazzita non più esorcisti e finder, ma solo donne e uomini liberi di fare quel che desiderano, essere ciò che vogliono. Miranda che vola tra le braccia di Marie senza intralci nel breve percorso, il volto scampato miracolosamente al terreno non inciampando, e lo bacia sotto lo sguardo esterrefatto della folla che si lascia andare a giubili di gioia.

Scacco matto, è il primo festoso pensiero. Linalee, è il secondo.
Yu e Bookman lo affiancano e anche Link che si guarda attorno tenendo il braccio destro ferito contro il fianco. A quanto pare non è stato l’unico a pensarci.                

 

C’è stato un tempo in cui Linalee ha odiato combattere; ha odiato anche l’Innocence, la base, tutto ciò che  contraddistingueva la fine dell’altra sua innocenza, quella che è dettata solo dal non essere a conoscenza di determinate cose, determinati sentimenti. In cui si piange e ci si lagna lamentosi perché non si può mangiare il piatto preferito o si è in punizione, non legati a un letto d’ospedale a chiamare a squarciagola un fratello lontano e ripetere i nomi di genitori morti, uccisi davanti ai propri occhi.
A volte è arrivata a detestare dello stesso viscido odio perfino se stessa, quando l’idea di essere stata scelta per quella crociata la faceva semplicemente rabbrividire riempiendo di incubi rancorosi il suo sonno e il giorno di strascichi che le impedivano di riposare, abbeverarsi con gusto della luce del sole priva d’imperfezioni e nulla di spettri bui. Non si sentiva un’eroina, non si è mai sentita un’eroina lei.
Perché gli eroi nelle favole sono sempre forti e belli e coraggiosi. Come Allen e Kanda e Lavi. Loro sì, sono eroi. Lei no. Eppure aveva voluto, infine e anche se per poco, fregiarsi della sua divisa più bella perché d’accordo, non era un cavaliere, ma non voleva neppure essere la dama in pericolo, la donzelletta indifesa da salvare e sulla cui debolezza facilmente attaccare a discapito degli altri.

Lei non è un’eroina, ha pensato vedendo scomparire Allen. I piedi nudi e scalzi, pulsanti. Lei non è un’eroina, ha ripetuto con maggiore enfasi, non lo è mai stata.
Ma, ha percepito la gambe arroventarsi e il respiro farsi brace, ardere, è –grazie al cielo- un’esorcista e come tale può fare qualcosa. Potrà sempre fare la differenza, anche se minima. Un sorriso che tira i muscoli delle guance imprimendo alla pelle tesa e stanca uno sforzo sorvolabile, conciliabile. Sei una donna forte- non è così che le aveva detto Kanda?

 

 

«Ho fallito» sono le prime parole di Allen, sussurrate tra il sangue vermiglio che gli cola lungo il mento e gli ha imbrattato il mantello oltre che le labbra. Le verrebbe voglia di pulirlo passandoci sopra il dito, sfumarlo in un rosa annacquato, ma non crede a lui farebbe piacere, si sporcherebbe la rimprovererebbe in tono di disappunto. Ed è esausta. Sente non riuscirebbe a chiudere nemmeno gli occhi tanta è la stanchezza. Di questo però è grata; non vuole perdersi nemmeno un secondo, nemmeno un angolo del volto di Allen. Vuole inciderlo nell’album delle memorie e non scordarlo mai quel momento, briciola dopo briciola, molecole d’ossigeno che si mescolano a quelle del dolore che la trafiggono in aculei acuminati per tutto il corpo. La mano segue un impulso atavico dettato dal cuore e scosta quella di lui che era corsa a comprimere nella sua presa ferrea, brusca la cicatrice a stella.
Allen è sempre gentile con tutti, tranne che con se stesso.
Gli tira indietro i capelli –nero su bianco, blu nel sangue- e sorride. Sa che in questo momento ciò che lui desidera vedere sia tutto fuorché quel sorriso, perché è sbagliato, le ha confidato dando voce alla sua pena, essere felici quando tanti altri attorno a noi non lo sono?- una domanda che era più affermazione. Ed è prevedibile lui chiuda gli occhi. Le fa male non poter immergervi i propri, ma lo lascia fare. Lo tirerà fuori dal suo senso di colpa, dovesse anche costarle la vita.
«Hai fatto del tuo meglio» replica, vagamente burbera.
Non vuole rassicurarlo, assolutamente. Ritiene sarebbe uno spreco di intenti quello. Ciò che vuole fare è elogiarlo, perché è vero e Allen dovrebbe capirlo da sé senza che ci sia sempre qualcun altro a dirglielo “che ha fatto tutto ciò che era in suo potere fare”. Perché d’accordo, l’ha detto e l’ha pensato e continua a ritenere sia così, che Allen sia un eroe, ma non un supereroe. Allen non ha superpoteri. E’ umano urla il suo sangue, è fragile aggiungono le ferite. E’ mortale, la sua più intima paura. E non può continuare a portarsi allo stremo a quel modo, solo per il capriccio di varcare ogni volta la cinta che demarca la frontiera dei suoi limiti e spostarla un po’ più in là, vicina al traguardo. Ma non c’è alcun traguardo, non esiste fine, se non quello dello spirito e l’annientamento del corpo che lo ospita.
«E non c’è nulla di cui vergognarsi in questo» aggiunge più teneramente allungando le dita oltre e sfiorando le palpebre. Allen strizza un po’ prima di aprirle e quando lo fa ha riportato la mano al viso e l’ha sovrapposta alla sua che si è spostata sulla guancia.
Linalee vorrebbe baciargliela, le nocche che immagina ruvide e arrossirebbe al pensiero probabilmente se, beh… se non fosse per altri motivi inerenti al sangue che perde. E c’è ancora quel mi dispiace bisbigliato contro la retina, lo vede, ma è labile ed evanescente e capisce occorra soltanto un’altra freccia ben scoccata dal proprio arco per spazzarne via le ultime tracce.
Poggia la fronte contro la sua spalla, i polpastrelli che affondano nella piega dell’altra. Percepisce la sorpresa di Allen che si è paralizzato, il suo sbigottimento nel respiro tiepido che le si è interrotto nelle orecchie per una manciata di secondi.
«Sono felice tu sia qui» vivo, sussurra in una gratitudine così palpabile da farlo sussultare. Anche se non può vederlo può sentirlo comunque il sorriso salirgli direttamente dal centro del petto, il viso distendersi. Si rilassa finalmente e lo scontro si è davvero concluso ora.
Allen le passa il braccio attorno al busto, addossandosi a lei in un semi abbraccio. La mandibola nel lato col pentacolo premuta contro la sua tempia. «Anch’io» risponde con assoluta sincerità.             

 

 

Anche il giorno prima dell’ultima battaglia sono stati tutti attorno a quello stesso tavolo, quello che era stato di Kanda –il suo posto, al suo tavolo- e che ha finito col diventare loro a poco a poco, in modo così graduale e impercettibile che una volta accortosene lui non ha potuto far nulla per tornare alle origini misantrope. E’ seduto di fronte a Link Allen, Linalee stretta al suo fianco e accanto a lei Lavi, il braccio sullo schienale della sua sedia. C’è perfino Kanda  nell’angolo ed è meraviglioso essere tutti uniti perché da quando si è sparsa la notizia di Allen e del Quattordicesimo le occasioni per stare assieme a quel modo sono notevolmente scarseggiate. Ride Lavi fragorosamente e tra una risata sghignazzata e l’altra si porta grandi bocconi della torta che Link ha preparato in bocca.
L’odore di mele cotte, della sfoglia dorata ancora calda si infila tiepida e dolce tra di loro come sbuffi di calore, in un miscuglio piacevole con quello amaro del caffè fumante che Linalee ha conservato appositamente e provveduto a dare ad ognuno in tazze tonde.
Facendo tintinnare il cucchiaino contro il bordo nel suo rimestarne il contenuto, Allen si è lamentato con Link che gli ha rubato la zuccheriera dalle mani, impedendogli di aggiungere alla decina di zollette precedenti altre che di sicuro ne sarebbero susseguite. E allora Lavi ha detto quello che è cominciato per gioco, un innocente modo per ammazzare il tempo, per quanto l’affibbiare etichette a persone reali e non oggetti possa esserlo.
«Allen è più dolce dello zucchero» e ha ridacchiato, come divertito intimamente dalle sue stesse parole. Allen aveva la bocca troppo piena per rispondere, ma ha cercato di farlo lo stesso con ben scarsi risultati che non prevedessero lo sputacchiare pezzetti minuscoli di cibo spargendoli come molliche lavorate con le dita in un ventaglio sul piano lucido del legno.
Timcampy ha svolazzato accorrendo e sbattendo le ali più velocemente per poi picchiare con tutto il corpo rotondo contro la sua schiena. Il boccone è andato giù, deglutito piuttosto rumorosamente e tutto quello che Allen è stato capace di replicare in sua difesa è stato un bofonchiante “non sono dolce” colmo d’imbarazzo, la qual cosa ha portato in ordine Linalee a sorridere intenerita e scoccare occhiate d’avvertimento a ognuno dei presenti. Link ha scosso discretamente la testa in direzione del muro e Lavi la propria mano nell’aria, come a dare già per scontata una replica di quel genere e ribadire questa come dimostrazione della sua tesi -quale persona buona direbbe mai di esserlo?-.
Perfino Kanda ha socchiuso lo sguardo, non assottigliato con intenti minacciosi, solo socchiuso, e Linalee si contenta della possibilità fosse un grugno-sorriso brontolato il suo. O forse chissà, è solo la sua fantasia a lavorare troppo in fretta e conseguentemente male tralasciando scartoffie di vitale importanza –vizio di famiglia questo- e quello di Kanda era un crampo da paresi spastica.
Può esserlo stato come non può e in quel
non, come in tante altre negazioni, lei mette ogni speranza infilandocela a furia di volontà e olio di gomito. Ma la questione non è finita lì, oh no. Una volta trovato un passatempo che gli procuri divertimento è difficile Lavi lo molli, almeno fintantoché non ne diventi stanco o assuefatto od ambedue le cose. Sta di fatto che Kanda lo chiami ancora Yuuuu, ma quello deve essere dovuto a ciò che quell’abitudine abbia portato e si sia trasformata per entrambi e all’ovvio godimento –termine (in)esatto- porti loro.
«Sì che lo sei. Sei la dolcezza fatta a persona tu» solo sentimenti positivi- ha ribadito con fermezza ad Allen, che ancora protestava con ben poche probabilità di averla vinta. Le pacche di consolazione date da Linalee sono apparse a tutti per quel che erano, contentini, ma hanno deciso in autonomia vicendevole di soprassedere dinnanzi al sorriso splendente di cui faceva mostra. Allen ha inclinato il capo e bevuto in silenzio il suo latte macchiato, le dita di lei poggiate sulla spalla, un tepore piacevole lì ove s’erano fermate decidendo di rimanere.
«Se io sono la dolcezza» ha chiesto in tono rassegnato e mite, «BaKanda cosa dovrebbe essere di preciso?». Kanda non gli ha puntato la mugen al collo solo per la presenza di Linalee -non augurerebbe nemmeno al suo peggior nemico le urla maniacali e assillanti di Komui sulla salute della sorella-, ma ha digrignato i denti in un ché di ridondante che rimandava l’assicurazione di ritorsioni future e con disprezzo il solito mammoletta. Lavi non ha dovuto nemmeno rifletterci.

Ha sorriso in maniera più ampia e -sinistra- sfacciata. «Yu è la nostra coscienza» ha esplicato portandosi un dito alla fronte e picchiettandocelo per meglio inculcare l’idea nel suo uditorio.  
La Coscienza da vecchio saggio ha continuato imperturbabile ad affilare la spada, ruminando epiteti poco fini e Lavi se possibile ha sorriso in modo più marcato.
Linalee ha approvato con soddisfazione: «E’ vero». Allen si è grattato una guancia, pensieroso, e li ha guardati uno per uno come a domandare loro -davvero?- pieno di perplessità al riguardo.
«Link» ha proceduto l’apprendista, come nulla fosse e il Corvo si è voltato con un’espressione stupita. «Link è la giustizia. Ci ricorda quello che a volte neppure la coscienza serve a farci comprendere. Che siamo quel che siamo, ma è necessario anche diventiamo qualcun altro. Crediamo in qualcos’altro». Allen ha sgranato gli occhi e l’ha fissato come se lo vedesse realmente solo in quel momento.

«E tu Lavi?» ha ricordato con cortesia amabile Linalee. Lo sguardo di Lavi ha brillato torvo, il ghigno s’è fatto bieco. «La risata» buona o cattiva che sia- ha risposto beato. La consapevolezza degli occhi di Yu premuti contro il collo s’è fatta troppo pesante e pressante. Ha scrollato la testa piano, attento a non farsi notare. «Manca Linalee» ha fatto notare Allen con prontezza sciolta e lei ha sorriso con tatto.
Si sono scambiati una di quelle occhiate complici a cui non sembrano capaci di dare né un peso specifico né significato preciso. Lavi ha riso autentico e rasserenato, di nuovo.
Oh, lei non può che essere… «Il cuore» ha completato una voce al suo posto. Kanda ha mantenuto alto lo sguardo, fisso nel suo senza cupezza o derisione di sorta. «Non è così?» ha proseguito ed era serio, non beffardo o ironico o pungente. Solo Yu senza luoghi comuni, privo del solito savoir- faire –ah!- che è mera vernice della scorza che contiene l’apparenza. Ha acconsentito e annuito con ritrovata –falsa- spigliatezza. Linalee è arrossita, la nuca pigiata contro il braccio di Allen, il viso porpora nascosto dalle mani. Tra le dita lunghe spiragli di occhi scuri e commozione stillata in acqua salata.

«Vi voglio bene» ha mormorato tra un singhiozzo e l’altro.
Allen ha sorriso con gentilezza –come non farlo?- stringendole con affetto una mano e finendo colle lacrime di lei ad inzuppargli la divisa in petto. Lavi ha sorriso indulgente –il cuore si mostra per quel che è, nessuna meraviglia-, Link ha osservato in silenzio, Kanda non ha detto nulla. Ha stretto le labbra, ma è stato il primo a tossire vedendo Komui entrare in sala mensa qualche minuto più tardi.     

 

 

 

E’ quel vi voglio bene che attraversa il cervello di tutti, in una comune sofferenza languida che non sa di rimpianto né di amarezza. Li hanno trovati alla fine Allen e Linalee e la paura ha presto ceduto il posto ad una blanda calma che ha acquietato i respiri e risollevato i morali.
I Paladini, come verranno in seguito chiamati con vergogna umiliata di entrambi, hanno l’espressione tranquilla e pacifica di chi sa di aver fatto ciò che doveva e si culla nel riposo che gli spetta, adagio. E verrebbe voglia ad alcuni lì di togliergliela quell’aria a suon di sferzate e vagonate d’insulti, ma tace e si gode il momento nella completezza totale che si sa bene non tornerà più, non proveranno più a quel modo o in maniera così assurdamente assoluta. E’ quello che significa esser felici? La sensazione di pace… Riscoprirsi sereni e sorridere come idioti a due stupidi della peggior specie che dormono beati in mezzo al campo della battaglia che si è appena conclusa?
Allen e Linalee sono lì, inzuppati di sangue, non tanto da preoccuparsene, ma abbastanza perché meritino altre scudisciate solo per quello. L’innocence ha assolto il suo ruolo e si è staccata –click ha fatto, come una serratura che apre il lucchetto che la teneva imprigionata- e li ha lasciati, diventando miriade sfavillante di stelle nell’azzurro limpido del cielo. E’ un pezzo di cuore che se ne va quello, ma va bene così. Andrà sempre bene per tutto il tempo in cui rimarranno così. Uniti, esorcisti e Bookman e corvi e semi-vampiri. Ci si regala un ultimo sorriso sottobanco prima di decidersi a spostarli da lì. Linalee mugola qualcosa nel sonno e Allen le sospira qualcos’altro all’orecchio, rassicurante. Komui piange accanto alle loro barelle delirando sul come non potesse desiderare migliore lieto fine per la sua piccola Linalee e morde fazzoletti tra i denti. L’immagine ancora fresca nelle loro memorie e nelle foto che Johnny ha provveduto a scattare per immortalare il momento decisivo.
Sulla scrivania del Supervisore, accanto a una Linalee che scompare tra le braccia che la stringono con amore per quant’è piccina, ce n’è un’altra più recente, non altrettanto bella, ma ugualmente cara.
Allen ha la schiena contro il pilastro di una colonna spezzata, il volto inclinato verso il basso, la scia sanguinante che parte dalle sopracciglia e poi continua giù, a zigzag come la coda di una stella cometa, il mento immerso nella chioma nera di Linalee.
La sua Linalee ha la guancia premuta nell’incavo tra collo e spalla, le labbra che affondano nella scapola appuntita, ma che lei ammorbidisce e smussa col suo peso come in un incastro di pezzi che combaciano.
L’inquadratura non ha preso la pozza che avevano attorno alle ginocchia, ma non ha potuto dimenticare le mani intrecciate- anche quella connessione perfetta- e l’abbraccio in cui sono legati e stretti l’uno all’altra. Infine il sorriso, nella luce astratta e abbacinante del mattino appena sorto dopo una notte infinita.
Un sorriso consapevole dell’altro suo compagno –che era ora comparisse direbbero alcuni e non hanno mancato invece di osservare altri poco caritatevolmente-.

Cuore e Sentimenti stretti in un comune abbraccio. Che vanno a braccetto com’è giusto che sia.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ha le gambe penzoloni nel vuoto dalle ginocchia in giù, né pesanti né leggere, e si mantiene stretta al cornicione con le mani artigliate, la schiena piegata in avanti. Non ha paura di cadere, non più, ma Allen dietro di lei sbuffa lo stesso. Non vuole stia lì, lo sa, ma non può farne a meno, anche se è pericoloso. Dondola un po’ i piedi e il braccio di Allen attorno alla vita la tira indietro con decisione allora; via, lontana dal baratro senza fondo. Linalee sospira e alza il capo incrociandone gli occhi.
Non la sgrida, tuttavia l’accusa e il rimbrotto sono espliciti nello sguardo anche se lui si sforza di non dar loro voce. E’ così facile ora dare senso alle sue espressioni, comprenderle senza dover scostare i veli fitti e imperscrutabili che prima li rendevano impenetrabili.

«D’accordo» borbotta in tono simile a quello che Kanda ha adoperato qualche giorno prima quando Lavi gli ha chiesto casualmente se fosse sua intenzione accompagnarlo nel suo strampalato viaggio, del tipo giro del mondo in ottanta giorni, con il beneplacito del Bookman che è certo il suo apprendista trarrà numerosi vantaggi da questa nuova esperienza. Non sa perché a quella notizia Allen abbia reagito scoppiando a ridere con qualcosa di simile a “chi se lo sarebbe mai aspettato da quei due”, ma cosa importa adesso?
Le sopracciglia di Allen si arcuano fino a raggiungere vette insospettabili e lei lo scruta torva.
«Cosa c’è?» chiede arcigna. Lui ammicca con un divertimento che sfocia quasi in tenerezza, inclinando il capo: «Nulla. Solo ritengo il trascorrere troppo tempo con BaKanda abbia finito col nuocerti».

E non possa portare alcun beneficio al tuo umore fin troppo suscettibile negli ultimi tempi, le sembra di sentire prolungarsi quel pensiero tra le righe di quanto ha appena detto. Per poi darsi della stupida da sola, ché non sarebbe da lui dire o anche solo immaginare come potenziale frase una cosa del genere.
Allen è dietro di lei, le dita ancora premute sulla pelle, ma sul capo, in una carezza distratta e lieve.
Si aspetta una reazione di qualche tipo da parte sua e sembra non importargli null’altro che non sia il costante vigilare sulla sua sicurezza. Si è abituata ormai alla sensazione di saperlo sempre accanto a sé, la sicura percezione della sua presenza, l’abilità a sentirlo alle sue spalle ancora prima vi giunga col suo respiro a riscaldarle la nuca. Quando riesce a scappare dall’infermeria e dalla sale e dal chiacchiericcio che la blocca ad ogni angolo della Home per complimentarsi – e di cosa poi? Di aver fatto quello che è, era, il proprio dovere?- sola non rimane mai comunque. C’è Allen con lei, un accenno di sorriso che non sa per niente di scuse abbozzate, pronto a farle da cavalier servente, tenerle compagnia placandole i nervi e riportarla ai fari curiosi delle domande indiscrete una volta pronta a rituffarcisi. Le vien voglia di soffiare come un gatto, ma ingoia la rabbia e il fastidio. Eppure… Giura che non assaggerà un’altra sola fetta delle torte che Link obbliga lei e Allen a mangiare, la giustificazione poco credibile debbano rimettersi in forze. A furia di ingozzarsi a quel modo rischia di diventare una balena, altroché!
«Huh» osserva dando prova di un acume perspicace e giocherellando con un risvolto della gonna che indossa. Sembra pizzo lavorato quel ricciolo elaborato di stoffa e si chiede se mai sarà capace di cucirsi da sé cose del genere. Una donna dovrebbe essere in grado di farlo. Ma lei è- era- un’esorcista e di cucito non le è mai importato nulla, pensa sospirando appena.
Il sorriso di lui si incrina e comincia a scendere come sotto il peso di una forza ostile e insopprimibile.
E’ come cera sciolta in disfacimento, quella del cerone nel volto di un pagliaccio che a furia del calore delle risate del suo pubblico ha iniziato ad immedesimarsi a tal punto da perdere di vista la distinzione tra finzione e realtà. Socchiude lo sguardo e sbatte le ciglia più volte, in preda alla confusione, stranita –tuffo al cuore, remoto. Per un istante le è parso di vedere del sangue, ali scarlatte dibattersi impazzite simili a falene vicine al guizzo oliato di una fiamma, raggrumato in strisce fitte come cicatrici sugli zigomi e fino alla mascella, vischiose. Ma è solo un’ombra passeggera quella che le ottenebra l’iride di un ricordo che mai v’è stato, è esistito nella realtà. Non c’è più il mi dispiace ben familiare nel volto di Allen, ha smesso di esserci da tempo oramai. Giorni, settimane, mesi.
Ora compare solo quello stai bene?- ripetuto centinaia, migliaia di volte e che mai pare trovare assolvimento se non nella ritrosia del suo silenzio ostinato.
Il vuoto sotto i piedi ricompare, vecchio amico e alleato, ed è come riaffiorare da un sogno.
Questa sensazione, riaffacciarsi sulla soglia di casa, la mente sgombra, la vanità caduca della terra che crede invincibile il bilanciamento del proprio asse, gravitazione. Ma lei l’ha rotta quella legge, ha levitato librandosi libera e leggera come piuma in volo. Prima che fuochi fatui le implodessero sotto l’epidermide, una piccola galassia al momento della sua creazione.
Rimanere nel varco senza attraversarlo, lì dove cadere è un interstizio, un volubile tratto di strada tra sopra e sotto, dislivello cosmico di piani differenti.
Sente il nulla Linalee ed è come tornare a casa, anche se per poco.
C’è nuovamente il braccio di Allen che intralcia colla sua stretta stabile il sollevarsi del petto tra un respiro e l’altro, le punte dei capelli che pizzicano e le solleticano le guance intirizzite. Fa freddo, si accorge distratta. E sono il suo profumo, non stucchevole, ma appena raddolcito, l’aspro del limone zuccherato da un assaggio di miele color caramello e raggio di sole; e il suo calore –è diventato caldo Allen, forse perché adesso può sentirlo davvero quel calore? Toccarlo con mano?- che la mantengono a galla dal cascare dabbasso.
La forza di gravità cui non può più sfuggire. Ha perso le ali e la capacità di volare.
«Ti manca mai?» accenna, senza osare spostare gli occhi dalla pelle –di nuovo bianca- e lo scatto nervoso dei tendini tesi nella presa salda. Le è parso ogni lettera abbia grattato contro il palato e i denti, come non volessero uscire, superare la barriera imposta dalla malinconia che l’intinge. Si avverte tanto la nota d’urgenza di cui è pregna la sua richiesta, la rassicurazione di cui sente il bisogno?
Il tono di Allen è pacato, atto a rasserenarla. E’ un desiderio quello che lo spinge ad agire così, che si rivela in ultima analisi anche egoistico.
Rinfranca il suo animo come quello che tiene raccolto contro il petto.
«A volte» ammette, un’espressione serena. «Ma non potrei fare questo altrimenti» e la abbraccia più stretta a sé avvolgendola con le sue braccia e unendo le dita tra loro davanti sul torace. Collimano e sono uguali adesso. Linalee sfiora con la propria il dorso della mano sinistra, non più maledetta né deforme.
«Avresti potuto farlo comunque invece» obietta con le tempie corrugate e un ché di accusatorio che non sa bene se ricollegare a sé oppure a lui.
Ricorda ci sia stato un periodo in cui gli abbia fatto chiaramente intuire lei potesse arrivare ad odiarla – un sentimento annegato nella gelosia, non nel disprezzo, il sentirsi ancora una volta esclusa e non parte di ciò che lui provava e serbava per sé non raccontandole nulla-, ma è un tempo così distante e lontano.
E’ cresciuta intanto e quella mano nera – la spada che innumerevoli volte l’ha protetta frapponendosi tra lei e il nemico- ha imparato ad amarla e pure l’occhio coperto dal monocolo.
Sfregano le loro pelli, morbido contro morbido, ma non del tutto: Allen ancora li ha i polpastrelli screpolati. Sì, ha amato quella mano perché ha rappresentato un elemento decisivo nella sua vita, caratterizzante, l’ha reso ciò che è, chi lei non può fare a meno di amare.       
Allen annuisce sulla sua gola, inspirando profondamente. «Forse» dice assorto, gli occhi socchiusi.
E’ un forse il suo che contiene tutta l’incertezza del domani, della situazione che li vede protagonisti. Hanno vinto una battaglia e da allora non si sono visti Noah, ma sono ancora così tante le cose da aggiustare che pare non sia finito nulla, la vittoria non sia stata così schiacciante o vittoriosa. Il mondo è pieno d’ombre e l’uomo ha nella disperazione che non riesce ad abbattere nel proprio cuore, la richiesta d’aiuto che il Conte è sempre stato lesto ad appagare, ma nel verso opposto a quello richiesto.
L’oscurità non potrà mai essere annientata perché fa parte dell’uomo come lo è la luce e nel giusto equilibrio del loro calibrato gioco sta la base dell’intero senso del genere d’esistenza cui sono abituati da sempre. Non c’è sicurezza nel loro futuro, solo una gigantesca incognita da scoprire. Un giorno potrebbe comparire un nuovo Conte all’orizzonte che soppianti il vecchio fantasma pieno di leggende del precursore e si issi sul suo trono di scheletri e ossa rimasto vuoto troppo a lungo.
Potrebbero esserci nuovi nemici da sconfiggere, akuma da abbattere come ancora molti tra i loro compagni continuano a fare in ogni dove sul pianeta per sventare che possibilità del genere si avverino, di nuovo. Potrebbero essere di nuovo costretti a impugnare le armi a rituffarsi nelle onde del sangue nero e loro rimarrebbero indietro senza poter far nulla. O forse no.
Chissà, un giorno l’Innocence potrebbe tornare, impennate alte come rondini nel cielo a primavera o simile a una chiave, così da chiudere la porta che andandosene ha lasciato socchiusa e da cui filtra tutto il dubbio e l’insicurezza del loro domani. Nuove possibilità che impallidiscono al confronto della familiarità di un passato e delle memorie care, come i visi conosciuti e amati che ne compongono i tratti e di cui assumono fattezze, di una battaglia che fa parte di loro e che si è ritrovata a rimpiangere con amarezza rancorosa vedendo gli altri scendervi senza di lei.
Linalee si lascia andare contro il petto di Allen, la testa contro la sua spalla, il collo sulla scapola non più così appuntita. Sorride discretamente al percepire il medesimo sorriso fiorirle contro la fronte, ora distesa in una posa rilassata. Nell’oscurità già intravede il chiarore incerto del sole al suo albeggiare, che si innalza con fare timido dal letto di nuvole e li raggiunge riflettendosi sulle finestre istoriate della cattedrale.
Sa di pace la navata centrale e di vita assopita sul punto di risvegliarsi al chiarore dorato che filtra dalle finestre intarsiate. Disegni di vite santificate, volti di uomini e donne strappati al regno dei cieli e imprigionati in spoglie mortali e umane. Colori forti e intensi che feriscono l’occhio se le si guarda troppo a lungo, ma che non può fare a meno o smettere di osservare, ipnotizzata.
Tace Linalee, le paure della notte assopite dall’intenso sorgere di un nuovo giorno, in una luce sfolgorante simile a quella remota in cui tutto ha avuto fine.
Conosciuto una parziale conclusione delle vicende travagliate e visto il suo inizio.

«Forse» acconsente e pigia la guancia contro l'orecchio di Allen, inspirando aria satura della serenità che sente allargarsi dentro, profumo di casa.       

            

 

 (…nel futuro il forse del domani).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


N/A:

Ok, cos’è questa roba?- chiederete voi. Non ne ho la minima idea- risponderò io XD. Ci lavoro su da Domenica e non ne sono ancora soddisfatta. Eppure ogni volta che cercavo di limarla qua e là, anche cambiare tempi verbali, aggiungere virgole doverosamente necessarie, mi sembrava di rovinarla in modo impercettibile.
So bene che non sia perfetta, lungi da me ritenere o anche il solo pensare qualcosa del genere, semplicemente mi ci sono affezionata così com’è. Piena zuppa delle imprecisioni che la rendono tanto cara nella sua imperfezione ai miei occhi. Fatta questa piccola precisazione su eventuali approssimazioni nel testo relative a grammatica, stile e quant’altro passo a fornire chiarimenti inerenti all’argomento della storia.
Se non si è compreso e non me ne stupirei più del dovuto, la narrazione vera e propria, quella che coincide col presente da cui parte la vicenda, inizia dall’asterisco ù__ù.
Tutto ciò che lo precede sono per l’appunto le memorie di cui si parla nel titolo. Ricordi e primi incontri ad esser pignoli, alcuni in corsivo perché diversi dagli altri in quanto vere e proprie rivisitazioni rispetto ad impressioni e pensieri e riflessioni. Ora il punto che duole maggiormente e mi incute un terrore schiacciante e divorante: la caratterizzazione dei personaggi. Qui son batoste dolorose davvero. Ero così angosciata tra un cambiamento di prospettiva e l’altro che non so, pensavo d’aver creato solo un guazzabuglio. Se è così non me ne vogliate. Solo che una volta cominciato a scrivere le parole fluivano e i collegamenti scivolavano così semplicemente che me ne sono lasciata trasportare. Inoltre mi scuso per la totale assenza di Crowley, ma quando me ne sono accorta, beh… anche questo ho preferito lasciarlo così com’era. 
Meglio che infilarlo a forza e in modo palesemente marginale, no?
Cielo, mi sembrava di avere così tanto da spiegare e adesso invece non mi viene in mente nulla, possibile? Beh ad ogni qual modo, se aveste domande fatevi pure avanti, sarò lieta di chiarire e fugare ogi du
bbio qualora ci sia un passaggio poco comprensibile.
Per il resto, mi auguro di avervi strappato un sorriso o un’emozione, un saluto caloroso a tutti
:)   

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > D.Gray Man / Vai alla pagina dell'autore: E u r eka