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Autore: miseichan    10/12/2010    8 recensioni
Una storia nella storia.
Rebecca non si aspettava l'arrivo di Giorgia in lacrime, Gianni non era preparato all'irruzione di Vincenzo.
Si ritroveranno tutti riuniti, in un piccolo soggiorno, alle tre di notte...
Incantati e trasportati dalla storia di Muschio.
La storia di un bacio. Un bacio che è tutto.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lacrime di cristallo'
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Muschio

 

Nel silenzio, il rumore di un bacio.

 

 

“ Non siamo fatti l’uno per l’altra”

Quella frase continuava ad echeggiarmi nella mente, ancora e ancora.

Con la coda dell’occhio osservai le cifre luminose dell’orologio digitale: le tre. Le tre di notte. O di mattina, dipende dai punti di vista. Sorrisi, adagiandomi meglio sul divano. Com’era quella frase? Nella notte nera… no, nella notte buia. Sì, era buia. Nella notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino. Ah, quant’è vero. Sospirai, sfregandomi gli occhi stanchi.

- Rebecca, mi stai ascoltando? -

Alzai la testa di scatto, incontrando gli occhi umidi e arrossati di Giorgia. Annuii, improvvisamente seria.

- Certo che sì! Vuoi ancora un po’ di tè? – chiesi, porgendole la teiera.

Lei negò con il capo, soffiandosi il naso con l’ennesimo clinex.

- Non voglio il tè, voglio Antonio – bisbigliò lei, il pianto nella voce. Sospirai, pensando che in trenta minuti era più o meno la centesima volta che lo diceva. Voleva Antonio.

Antonio però l’aveva lasciata, porca miseria!

L’aveva lasciata, con un messaggio nella segreteria telefonica e lei si era precipitata a casa mia. Di notte. Alle tre. Aveva bussato alla porta, disperata, con l’espressione di una che non ha più ragioni per vivere. E io avevo preparato il tè, l’avevo ascoltata, e poi ascoltata ancora. Era come un disco rotto.

Giorgia tirò su con il naso, prendendo un bel respiro. E ora avrebbe ricominciato, di nuovo.

- Capisci che razza di bastardo è? Ha detto: “ Non siamo fatti l’uno per l’altra” ! E che altro? Ah, sì: “ Non abbiamo punti in comune, siamo troppo diversi” ! Ti rendi conto? -

Piangeva, parlava e piangeva. Indignata, disperata, risentita. Avrei voluto abbracciarla, confortarla, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Non era la prima volta che Giorgia veniva da me in lacrime. Era la quarta anzi, se non la quinta. Ed ogni volta era sempre la stessa storia. Così mi limitai ad annuire.

- E io adesso come faccio, Becca? – sospirò, mordendosi il labbro inferiore. – Come faccio senza di lui? -

- Senza chi? –

Ci voltammo entrambe verso la voce assonnata e confusa che proveniva dal corridoio.

Sorrisi, vedendo Gianni che si avvicinava. A piedi nudi, i pantaloni del pigiama smollati e la maglia del college. Sbadigliò, cercando inutilmente di pettinarsi i capelli.

Ci mise un po’ ad inquadrare la situazione e, non appena lo ebbe fatto si bloccò, l’espressione persa.

- Disturbo? – chiese, sfregandosi un occhio e sorridendomi comprensivo.

Tentai di dire qualcosa ma Giorgia mi precedette, la voce alterata dall’ imbarazzo: - No, che non disturbi!- Mi guardò, scuotendo la testa rammaricata. Continuò, sempre più mortificata.

- Sono io a disturbare! Io che mi presento qui in piena notte, che sveglio te e poi anche tuo marito… mi dispiace tantissimo, Becca. Solo, non sapevo dove altro andare – sussurrò, tormentandosi il labbro.

Con un movimento fulmineo mi alzai, avvicinandomi a lei. Le presi la mano, sedendomi accanto a lei sulla poltrona ed abbracciandola. La strinsi forte, avvicinando le labbra al suo orecchio:

- Sai benissimo che non è vero. Non disturbi mai – dissi, senza lasciarla.

Giorgia ebbe un singulto. Ricambiò l’abbraccio, piangendomi sulla spalla. – Ma domani dovete lavorare –

Sorrisi, scostandomi di poco: - Credi mi importi più del lavoro che di te? – chiesi, fingendomi offesa.

Lei finalmente sorrise, guardandomi riconoscente. Si asciugò gli occhi, cercando Gianni.

- Dov’è finito? – mi chiese, l’aria stanca. Non aveva nemmeno finito di chiederlo che lo vidi uscire dalla cucina portando un piatto con latte e biscotti. Si avvicinò piano, studiandoci con sospetto.

Poggiò il piatto sul tavolino ai nostri piedi e ci allungò un plaid colorato. Quindi prese posto sul divano davanti a noi, sorridendo con fare protettivo. Aspettò che ci servissimo, avvolte nella coperta, per parlare:

- Posso restare o sono questioni di donne? – chiese, un sottofondo di sarcasmo nella voce.

Lo guardai, lui, quei suoi enormi occhi neri e quella sua enorme sfacciataggine. Sapevamo tutti che non se ne sarebbe andato per nulla al mondo: una volta sveglio, riportarlo a letto era sempre un’impresa.

Lanciai un’occhiata a Giorgia che, bicchiere di latte stretto fra le mani, gli faceva segno di restare. Gianni si illuminò, felice come un bambino che ha appena ottenuto un regalo inaspettato. Si accomodò meglio sul divano, le gambe piegate sotto di sé e gli occhi sgranati dalla curiosità:

- Chi ti ha lasciato questa volta, Giogiò? – chiese, con aria innocente.

Io sobbalzai, fulminandolo con lo sguardo. Come gli era saltato in mente di… Mi voltai verso Giorgia, aspettandomi di vedere che le dighe si erano riaperte, ma mi sbagliavo. Lei sorrideva appena, gli occhi socchiusi. Si inumidì le labbra, annuendo con fare colpevole.

- Antonio – mormorò, timorosa anche solo nel pronunciarne il nome.

Gianni annuì, con l’espressione di uno psicologo vantante anni di decorosa professione. Alzai gli occhi al cielo, aspettandomi di vedergli comparire in mano un quadernino per gli appunti.

- Lo sapevo. Te lo dicevo che mi era sempre sembrato un poco di buono – sentenziò, lo sguardo grave.

Ci volle uno sforzo di volontà non indifferente per impedirmi di scoppiare a ridergli in faccia. Giorgia cambiava ragazzo all’incirca ogni due mesi e Gianni non si era mai nemmeno preso la briga di impararne i nomi. Di conseguenza non aveva la più pallida idea di chi fosse Antonio, né di che faccia avesse.

Giorgia però sembrava non averlo realizzato e pendeva letteralmente dalle sue labbra.

Gli lanciai un’occhiata in tralice, chiedendogli silenziosamente di smetterla di fare il buffone.

Lui mi sorrise appena in risposta, inclinando la testa verso il corridoio. Chiunque, anche qualcuno che non fosse la moglie da più di dieci anni, avrebbe capito il messaggio implicito: stava cercando di rimetterla in sesto il bastevole per cacciarla di casa e tornare in camera con me. Lurido truffatore.

Ascoltai ancora per un po’ le parole dolci che pronunciava con semplicità, neanche fosse un discorso preparato che aveva anche già provato. Mi strinsi di più a Giorgia, per solidarietà e senso di colpa. All’ennesimo “ E’ lui che non sa cosa ha perso” mi spazientii, ormai pronta ad intervenire e bloccarlo, ma ci pensò il campanello a farlo per me. Suonò, più volte, interrompendo la filippica di Gianni.

Fu proprio lui ad alzarsi, l’espressione sorpresa e le labbra corrucciate. A passo indolente si avvicinò al citofono pronto a bistrattare chiunque fosse la causa del nuovo disturbo. Fece per rispondere, quando bussarono alla porta: tre colpi netti e forti. Gianni si voltò verso di me, convinto che fossi a conoscenza dell’identità dell’ospite accanito. Io mi strinsi nelle spalle, incitandolo ad aprire.

Sbuffando, Gianni aprì la porta lo stretto necessario ad individuare il viso nuovo, pochi istanti dopo la stava spalancando completamente, arretrando per lasciar entrare un giovane a testa bassa. Lo riconobbi solo quando, raggiunto il salotto, ebbe alzato il viso.

- Vincenzo! – esclamai, mentre lui, ridendo istericamente, si lasciava cadere sul divano prima occupato da Gianni. Gli occhi lucidi, le gote infiammate, continuava a ridere, interrompendosi solo per brevi singulti.

- Mi ha lasciato – sibilò, a denti stretti, stringendosi le gambe al petto.

Gianni prese posto accanto a lui, guardandolo serio in volto:

- Cosa? – gli chiese, lanciandomi un’occhiata oltremodo incredula.

- Mi ha lasciato – sillabò Vincenzo, reclinando la testa all’indietro. Rideva ancora, a tratti. – Eleonora, che vipera. Eleonora la vipera, ecco come l’avrebbero dovuta chiamare all’anagrafe

Trattenni il respiro, riuscendo a stento a crederci. Incredibile! Guardai Vincenzo, affranto ed adirato, cercare una consolazione nell’amico. Sentii un movimento accanto a me, e vidi Giorgia che si allungava verso il nuovo venuto, l’espressione contrita e solidale.

Iniziarono così, senza conoscersi né presentarsi. Un incontro casuale di occhi che stavano vivendo le stesse emozioni bastò. Fu come se Gianni ed io non ci fossimo più: insulti, consigli, scambi di opinioni. Cose già dette, che sembravano andar sempre bene. Cercai furtiva lo sguardo di Gianni, incitandolo a seguirmi. Ci ritrovammo in cucina, la porta appena socchiusa, entrambi presi in contropiede dall’inaspettata situazione.

- Come facciamo? – mi chiese, poggiandosi al piano da cucina con uno sbuffo indispettito.

- A fare cosa? – risposi, sciacquandomi le mani nel lavandino.

- A liberarci di loro – ribattè lui, con ovvietà. Girò attorno al tavolo, raggiungendomi ed abbracciandomi da dietro. Mi sorrise, baciandomi sul collo e sussurrando piano: - Manca mezz’ora alle quattro, Becky. Non li voglio qui. Voglio tornare a letto con te e dormire almeno tre ore prima della sveglia

Lo lasciai fare, godendo di quella stretta forte e confortevole.

- Mancano quasi quattro ore alla sveglia, Gianni – risposi, decisa a contrastarlo.

- Non ho detto che raggiunto il letto ho subito intenzione di addormentarmi – bisbigliò, malizioso.

Sentii il solito rossore che mi infiammava le guancie e lo accolsi quasi con sollievo.

- Li facciamo sloggiare allora? – chiese, convinto di aver vinto la partita. Io negai con il capo, scostandomi per asciugarmi le mani con uno strofinaccio.

- Non essere egoista – lo ripresi, il rimprovero nella voce.

- Non sono egoista – rispose lui, mettendo su il broncio – Sono loro che rompono i… -

Lo bloccai, girandomi e poggiandogli un dito sulle labbra. Sorridendo, scossi la testa per richiamarlo.

- Non alzare la voce – sussurrai, - E non dire cose del genere. Sono nostri amici, è nostro dovere -

Lui sospirò, alzando gli occhi al cielo.

- Fa tanto: “ Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” – disse, citando come al solito un film.

- E’ così – risposi, prendendolo per mano – E ora torniamo di là, dove farai il bravo –

Gianni mi solleticò un fianco, facendo una linguaccia irriverente. Me lo tirai dietro, trascinandolo fino al salotto e spingendolo sul divano accanto a Vincenzo. Non fu difficile reinserirci nella conversazione, per niente diversa da quella che ormai temevo avrei sentito anche in sogno. Presi posto accanto a Giorgia, avvolgendomi le ginocchia con le braccia e, con un sospiro, mi accomodai, sprofondando nei cuscini.

Non ascoltavo, riscuotendomi dallo stato di apatia in cui mi nascondevo solo lo stretto necessario a non addormentarmi. Guardavo alternativamente le due vittime affrante e mio marito, lo sguardo vitreo e spento.

- Basta così -

Sobbalzai, spalancando di colpo gli occhi ormai quasi completamente chiusi. Fissai Gianni, le mani fra i capelli, che sorrideva in modo preoccupante. Gli lanciai un’occhiata ammonitrice, del tutto ignorata.

- Così non andiamo avanti, ragazzi – disse, serio e sarcastico al tempo stesso.

Sperai inutilmente che si fermasse, ma lui continuò, pronto a prendere in mano la situazione.

- E’ inutile piangervi addosso ve lo assicuro – sentenziò, mentre io lo imploravo con gli occhi di fermarsi.

Osservai le reazioni di Vincenzo e Giorgia come al rallentatore: sembrarono stupirsi e poi incuriosirsi, pronti ad ascoltare cosa avesse da dire per potergli quindi saltare al collo. Cercavano solo il pretesto per sfogare la rabbia repressa e io lo sapevo, ma quell’idiota di Gianni ne era al corrente?

- Sapete cos’è che invece dovreste fare? Dovreste… -

Mi sfuggì un gemito, suono indefinito che ebbe il potere di attirare la sua attenzione. Mi fissò, capendo miracolosamente dalla mia espressione il pericolo a cui si stava avvicinando. Tentennando continuò:

- Dovreste… ascoltare una storia – disse alla fine, il fiato mozzo.

Le sopracciglia di tutti, comprese le mie, schizzarono verso l’alto. Sconsolata, chiusi gli occhi. E ora?

Li riaprii piano ed un poco alla volta, pronta a vedere la figura di Gianni che rapida, scompariva dietro l’angolo. Invece era ancora lì, seduto sul divano, lo sguardo stranamente calmo e deciso.

- Pronti? – chiese, il sorriso nella voce.

Strinsi gli occhi, chiedendogli in silenzio una spiegazione. Vidi la sua mano accennare un piccolo gesto di rassicurazione, del tipo “ So quel che faccio, tranquilla”… eppure proprio non riuscivo a rilassarmi.

Rigida, tentai di trovare una posizione più comoda, imitando i nostri due ospiti già pronti ad ascoltare. Sorpresi da quella rapida inversione di marcia, non avevano contestato la decisione di Gianni.

Incontrai i suoi occhi divertiti e sorrisi, sentendomi come una bambina. Voleva raccontare una storia?

Ben venga, l’avremmo ascoltato.

- E’ la storia di Muschio quella che voglio raccontarvi – iniziò, ottenendo subito il silenzio più assoluto.

Merito forse dell’ora assurda, o della stanchezza collettiva, sembrava quasi che non respirassimo neanche.

- E’ una storia vecchia, risalente alla mia infanzia. Potevo avere… sette, otto anni al massimo. Non riguarda me, però. Io sono stato solo uno spettatore -

Afferrai il cuscino alla mia sinistra, stringendolo al petto. Inventava o era serio? Non riuscivo a capirlo.

- Iniziò tutto grazie a mia madre: ogni pomeriggio, mentre in televisione davano i suoi programmi preferiti, lei sorridendo mi cacciava dalla stanza. “ Vai a giocare, Gianni” . Così diceva, lasciandomi via libera. Dopo i primi giorni però, non sapevo più cosa fare e iniziai a sedermi sul balconcino esterno. Eravamo appena al primo piano, all’altezza quindi di chi passava per la strada, così guardavo tutti, curioso di ogni cosa -

Sentivo ormai lo sguardo appannato, ma non era per il sonno: era un effetto della voce di Gianni. Calda, avvolgente… sembrava ipnotizzare. Quasi volesse trasportarci nel racconto.

- Era una strada piccola, stretta, di quelle vecchio modello, diciamo così. Larga appena qualche metro, non lasciava passare nemmeno le macchine più piccole. C’era però un passeggiare continuo, sempre diverso. Anche in tutta quella diversità tuttavia, riuscii a trovare dei movimenti fissi. Una routine nascosta, visibile solo all’occhio di un attento osservatore. La vecchia signora che tornava con la nipotina, il lattaio che si fermava a leggere i giornali in vetrina, il fruttivendolo che dava da mangiare al cucciolo di gatto. Dopo i primi giorni conoscevo di vista tutti quelli che abitavano o lavoravano nella nostra stradina. Dopo poco più di una settimana ne conoscevo anche tutte le abitudini. Una volta preso coraggio poi, cominciai anche a salutarli, lasciando che il mio sorriso facesse il resto. In meno di un mese infatti, chiunque passasse affianco al mio balconcino, si fermava per scambiare due chiacchiere -

Sorrideva Gianni, lo sguardo perso. E, come sotto incantesino, non potevamo fare a meno di sorridere anche noi. Si era fermato per riprendere fiato, incitato subito a continuare da attenti ascoltatori.

- Fra tutti però, una persona in particolare era entrata nelle mie grazie. Un ragazzo veramente, ventenne forse. Alto, con un enorme casco di capelli biondi e due piccoli occhi azzurri. Passava ogni giorno per la stradina, mi salutava con la mano e si sedeva al bar proprio dall’altro lato della strada. Esattamente di fronte al mio balconcino. Un minuscolo bar, con soli due tavoli all’esterno. E lui prendeva posto sempre allo stesso tavolo: si sedeva, apriva lo zaino nero e ne estraeva i libri. Passava le ore a leggere. Prima con i libri di scuola, poi con il libro della settimana. Un caffè ed un cornetto. Era il mio preferito. Lui era Muschio -

Gianni represse uno sbadiglio, nascondendo dietro la mano quello che ero certa fosse un sorriso divertito.

- Non sapevo in realtà quale fosse il nome, non me lo aveva mai detto. Era silenzioso, il ragazzo. Dalla prima all’ultima volta in cui lo vidi, non aveva mai detto una parola. Non una sola. Per questo lo soprannominai Muschio. Somigliava proprio al muschio, nella mia mente di bambino. I suoi passi lenti ed ovattati, i suoi gesti pacati, le sue labbra serrate… mi ricordavano quei cuscinetti verdi che avevo visto nel giardino della nonna: cuscinetti che attutivano ogni rumore, proprio come faceva lui. Muschio. E devo dire che piaceva proprio a tutti, il giovane. Alle ragazze in particolar modo. C’era sempre la fila per lui. Loro, le ochette urlanti, non lo chiamavano Muschio: ascoltandone i discorsi le sentivo definirlo come il “bello e dannato”. A quel tempo continuavo a non capirne il motivo, eppure era semplice: il fatto che stesse sempre per conto suo, che non aprisse mai bocca, se a me appariva strano ed insensato, ai loro occhi era qualcosa di assolutamente irresistibile. Assurdo, vero? -

Non so se si aspettasse davvero una risposta. Ad ogni modo non la ottenne e sorridente, continuò:

- Per i primi due mesi rimase tutto uguale, nessun cambiamento, nessuna novità. Fu con la prima ventata di novembre che arrivò. Lei, la nipote del fruttivendolo. Cinzia, come appresi pochi giorni dopo il suo arrivo. Una ragazza simpaticissima, sempre allegra. Un sorriso perpetuo sulle labbra mai ferme. Proprio non riusciva a stare zitta. Ispirava fiducia a naso e divenne immediatamente la beniamina di tutti. Ogni pomeriggio, dopo aver aiutato lo zio con il negozio, se ne andava a passeggio. Passava affianco a me e mi salutava, sempre con una parolina dolce. Ne rimasi incantato. Al punto da farle dividere il primo posto con il silenzioso Muschio. Un’altra cosa che avevo notato e non riuscivo a spiegarmi era lo sguardo sfuggente che si lanciavano i due ogni pomeriggio. Uno sguardo, piccolo quasi invisibile. Eppure c’era -

Si fermò di nuovo, soltanto per assicurarsi che lo ascoltassimo ancora. Era così e ne andò fiero.

- Nonostante Cinzia fosse così estroversa e spontanea, ci mise una buona settimana per trovare il coraggio necessario a sedersi al tavolo con Muschio. Prese posto con naturalezza, un enorme sorriso in volto. Lo salutò, presentandosi con scioltezza e stringendogli la mano. Sembrò non far nemmeno caso al fatto che lui non si fosse a sua volta presentato. Cinzia, innocente ed affascinante, con i corti capelli rossi, lucenti come non mai… fissò gli occhioni verdi in quelli di lui e cominciò a parlare. Non riuscivo a sentire ogni parola, ma quasi tutte sì. Era come un fiume in piena, continuo, inarrestabile. Parlava. Di tutto e di niente, semplicemente parlava. Riempiva il silenzio che Muschio formava. Il silenzio che faceva parte di Muschio.

Dopo la prima volta divenne un’abitudine: ogni pomeriggio, dalle sei alle otto, Cinzia si sedeva con lui. E parlava, come sempre. Gli raccontava tutto: quello che era successo la mattina, quello che pensava, quello che avrebbe fatto la sera. Gli confidava ogni cosa, tutti i sentimenti, le emozioni, tutto quello che le passava per la testa. Una cosa però non gliela diceva e io me ne accorgevo

Sorrise ancora, sprofondando con soddisfazione nel divano, un luccichio sospetto negli occhi.

- Perché io dalla mia postazione lo vedevo, quel rossore che le invadeva le gote. Un rosso acceso, quasi quanto quello dei capelli lisci. Un rosso che sorgeva solo con Muschio. E per quello che potevo capire a quel tempo, sapevo che c’era un motivo se Cinzia sopportava il silenzio del ragazzo. Non era, come dicevano le altre ragazze, una relazione platonica fra svitati. Non era vero che Cinzia si fermava a chiacchierare con lui perché era come andare da uno strizzacervelli. E non era vero che lui l’ascoltasse solo per educazione. No, erano tutte insinuazioni nate in seno all’invidia… La verità era che Cinzia provava qualcosa per quel ragazzo: un qualcosa che andava oltre la semplice simpatia, anche oltre l’affetto -

- E Muschio? – chiese, sottovoce, Giorgia.

Ci voltammo tutti verso di lei, incontrandone lo sguardo confuso e sollevato. In imbarazzo continuò:

- Scusate, non so come mi è uscito – sussurrò, soffocata dal disagio.

Gianni sorrise, gratificato da quella domanda involontaria come da una premiazione inattesa. Attese qualche secondo, lasciandoci cuocere a fuoco lento, prima di riprendere il racconto:

- Muschio… Non lo avevo mai visto così felice. Fin dal primo momento in cui Cinzia aveva preso posto accanto a lui, Muschio sembrava aver cambiato completamente faccia. Un sorriso, anche se appena accennato, era sempre presente. Gli occhi, luminosi come non lo erano mai stati, sembravano riflettere una felicità che gli nasceva direttamente nel cuore. Ma era il viso in generale, ogni tratto, ad essere più rilassato. Come se Cinzia fosse una cura ricostituente. Da pallido com’era, iniziò pian piano a riprendere colore. E poi, sembrava vivere per le parole della ragazza. Lo vedevo ogni giorno, aspettarla con ansia, consumato dall’attesa. Quando la vedeva arrivare si alzava, scostandole la sedia per farla sedere. Quindi l’ascoltava. Solo quello. Stava lì, a fissarla, a studiare i movimenti delle sue labbra. Come se vivesse per quelle parole. Sorrideva, annuiva, negava. Niente di più. Sembrava essere perfetto per loro. Sembrava che tutto il loro benessere dipendesse da quelle poche ore che passavano assieme… Poi, come tutto era cominciato, finì -

Questa volta, quando si fermò, Gianni non sorrideva.

Noi trattenevamo il fiato, senza nemmeno rendercene conto. Non potevo fare a meno di pensare che lo avesse fatto apposta, a fermarsi a quel punto del racconto. Non c’erano altre spiegazioni plausibili. Solo era sadico, e tanto. Si divertiva a vederci patire.

Fu Vincenzo a decidersi a parlare, finalmente, rompendo il silenzio troppo pesante.

- Perché? – chiese, semplicemente.

La sua espressione, come il tono, erano neutri. Lo capimmo tutti però che era davvero interessato alla storia. Lo capì anche Gianni che, appagato, si decise a continuare.

- Devo ammettere che la colpa probabilmente fu mia. Dovete essere indulgenti, mi raccomando, pensate che non avevo nemmeno dieci anni… semplicemente mi scappò… Parlando con Cinzia, una volta, il discorso improvvisamente si spostò su Muschio. Mi chiese come mai lo chiamassi a quel modo e glielo spiegai. Le descrissi i cuscinetti verdi che tanto gli assomigliavano e lei rise. Allora, ridendo, mi domandò se sapessi il suo vero nome. Io risposi di no, che glielo avevo chiesto ma lui non mi aveva risposto. Cinzia smise di sorridere, di colpo seria. Meravigliata mi chiedeva perché non me la fossi presa con il ragazzo: era stato scortese, mi diceva, tormentandosi le mani. Io la fermai, negando tutto con vivacità. No, le dicevo. No, si sbagliava. Non era mai stato maleducato, mi salutava sempre. E per il nome, pazienza. Era pur sempre muto il ragazzo, non potevo pretendere certo la luna -

Trasalii, in contemporanea con gli altri. Un mormorio sorpreso si sollevò, una sola parola che aleggiava irremovibile nell’aria: muto?

- Cinzia rimase sconvolta esattamente come voi. Mi fissò, lo sguardo vitreo, le labbra dischiuse. Scuoteva la testa, cercando di negare quella che era una verità per lei improponibile. Non era stupida la ragazza, eppure non lo aveva mai creduto possibile. Continuava a pensare, o meglio a sperare con tutta se stessa, che quella di Muschio fosse una brutta forma di timidezza. Con il tempo credeva sarebbe passata… Cercò più volte di dire qualcosa, senza riuscirci. Solo al quinto tentativo la sentii domandarmi, la voce tremante, perché dicevo una cosa del genere. Io mi strinsi nelle spalle, spiegandole che quando gli avevo chiesto il suo nome, lui mi aveva sorriso, poi si era indicato la gola e aveva fatto segno di non poter parlare. Avevo sgranato gli occhi, chiedendogli se gli faceva male la gola, ma lui negò, allargando le braccia. E capii: non poteva parlare, mai -

Giorgia si copriva la bocca con entrambe le mani e io mi mordevo il labbro inferiore, solo Vincenzo riusciva a nascondere ancora quello che la storia, ero sicura, stava facendo provare a tutti.

- Quella sera Cinzia non andò a sedersi con Muschio. Non ne capii il motivo allora, non potevo capire. Cinzia stava cercando di assimilare l’informazione che le avevo dato, cercava, anche lei, di capire. Come fosse possibile che per tre settimane avesse parlato con un sordomuto senza rendersene conto. Come fosse possibile che non avesse compreso il motivo per cui lui le fissava sempre e solo le labbra. Come fosse possibile che non dicesse mai una parola. Come fosse possibile e basta. Muschio quella sera la aspettò fino alle dieci, per poi andarsene a testa bassa, colpito nel più profondo. Il giorno dopo invece Cinzia andò da lui, lo sguardo che lanciava saette… non si sedette, non sorrise. Lo aggredì. Coprendolo di improperi, offesa dal suo comportamento. Perché? Perché si era comportato in quel modo? Come aveva potuto? Muschio ascoltava, come al solito, un’espressione di sofferenza sul volto. Cercava di fermarla, di avvicinarla, ma lei non gli permetteva niente, nessun movimento. Così com’era arrivata, se ne andò. Lasciandolo lì, fuori il bar, ancora in piedi. La testa bassa, gli occhi spenti. Quando se ne andò, non so nemmeno quanto tempo dopo, fu la prima e unica volta in cui non mi salutò -

Il silenzio che regnava sovrano venne spodestato senza problemi.

Da che faticavamo anche solo a respirare, dopo quelle ultime parole a stento ci trattenevamo dall’urlare.

- Cosa? Ma è pazza! – esclamò, fuori di sé, Vincenzo.

Giorgia, sgranò gli occhi, fissandolo incredula.

- Ma che dici? – gli chiese, guardandolo minacciosa, improvvisamente combattiva.

- Dico che è completamente suonata, questa Cinzia! – proruppe lui, ripresosi di colpo – Non solo scema al punto da non rendersi conto che il ragazzo è sordomuto, ma poi, dico io… come poteva pretendere che glielo dicesse se, sottolineo di nuovo la cosa, è muto?!

Giorgia respirava velocemente, pronta a ribattere e cantargliene quattro.

- Punto primo: poteva dirglielo. Non solo poteva anzi, doveva! Come ha fatto con il bambino e che diavolo! Che ci voleva? -

- E come poteva se lei non stava un secondo zitta? – la interruppe, Vincenzo, protendendosi verso Giorgia.

- Lei non stava zitta perché lui non si degnava di parlare! – esclamò lei, contrita.

- Ma lui era muto! – replicò Vincenzo sdegnato.

Dopo averli ascoltati per un po’, lo sguardo mi cadde casualmente sull’orologio a muro. Sobbalzai vedendo le cifre ricordarmi che ormai alla sveglia mancavano meno di due ore. Allarmata lanciai un’occhiata a Gianni che, annuendo, li interruppe con diplomazia:

- Volete sapere come va a finire la storia o no? – chiese, retorico.

I due si zittirono all’istante, tornando ai loro posti originari, gli occhi ancora in fiamme.

- Continua – mormorarono, scuri in volto.

- Posso anche smetterla e cacciarvi di casa, eh? A voi la scelta – scherzò lui, allargando le braccia.

Ricevette in risposta soltanto occhiate di fuoco. Sorridendo perciò, l’espressione di un bambino che ha in mente una marachella, continuò da dove si era interrotto:

- Passarono nove giorni. Nove giorni in cui Muschio non si presentò più al bar. Cinzia c’era sempre: passeggiava, salutandomi senza il solito sorriso. Un sorriso scomparso che sembrava non sarebbe più tornato. Nove giorni in cui la stradina non sembrava più la stessa. Più buia, ecco com’era. Coperta da un manto di tristezza, nascosta da una nebbia di sofferenza… successe tutto il decimo giorno. Il pomeriggio del decimo giorno, per la precisione. Pioveva, quasi il cielo avesse capito il dolore che ci avvolgeva e avesse deciso di piangere con noi. Pioveva, tanto. Muschio arrivò, a passo felpato come suo solito, il capo coperto dal cappuccio. Si fermò sotto il mio balconcino, estraendo un album bianco dalla tasca interna della giacca. Con un pennarello si affrettò a scriverci qualcosa e a mostrarmelo: “Ciao” , aveva scritto. Io sgranai gli occhi, sorridendogli e salutandolo a mia volta. Lui mi sorrise appena, raggiungendo il bar in pochi passi. Si fermò sotto la piccola tettoia, in piedi, a mala pena riparato dalla pioggia. Sapevo chi aspettava. La aspettai con lui. Arrivò una ventina di minuti dopo, coperta da un enorme ombrello rosso. Si fermò poco distante da me, lo sguardo fisso sul ragazzo. Rimasero così, immobili, gli sguardi incatenati, per un tempo indefinito. Poi lui le mostrò il foglio che aveva fatto vedere anche a me. Ciao. Lei non reagì, ancora pietrificata. Muschio allora cambiò foglio scrivendo qualcos’altro. Io lo lessi assieme a Cinzia. Scusa. A quella parola Cinzia si irrigidì ancor di più, le nocche bianche tanto stringevano il manico dell’ombrello. Muschio smise di sorridere, lo sguardo basso, e scrisse qualcos’altro. La pioggia era diminuita un po’, lasciando così che il silenzio cominciasse la sua lotta con il rumore dell’acqua che cadeva attorno a noi. Lessi di nuovo il foglio, trattenendo il respiro. Perdonami, ti prego. Anche questa volta Cinzia non reagì, o almeno non lo fece subito. Muschio aveva già preso a scrivere su di un nuovo foglio quando lei lasciò andare di colpo l’ombrello. Volò via, l’ombrello, mentre lei volava verso il ragazzo. Lo raggiunse, prendendolo di sorpresa. Muschio lasciò cadere l’album, guardandola con occhi di nuovo vivi. Rimasero così, a pochi millimetri di distanza, le labbra che si sfioravano, i respiri che si confondevano… i secondi sembravano diventare eterni, solo per loro. La pioggia smise, pian piano e un pallido raggio di sole bucò le nuvole. Fu quasi in contemporanea con l’apparire della luce che si baciarono… Un bacio che era tutto -

Nessuno questa volta si sognò di aprire bocca.

Rimanemmo quieti, gli occhi socchiusi, quel bacio nella mente. Pensavamo a loro: a Muschio e a Cinzia.

- Avete capito il senso della storia? – chiese Gianni, riportandoci brutalmente alla realtà.

La domanda era rivolta agli ospiti, gli stessi che negarono con il capo, gli occhi lucidi.

Gianni sospirò, scuotendo la testa.

- Muschio e Cinzia sono diversi – disse, con ovvietà – Sono come il nord e il sud, il giorno e la notte. Uno chiuso e schivo, l’altre spontanea ed estroversa. Lui cupo e mogio, lei solare e vulcanica. Lei instancabile chiacchierona, lui sordomuto -

Ancora una volta, pendevamo dalle sue labbra. Lui alzò gli occhi al cielo, stanco di non essere capito.

- Il vostro “ Non siamo fatti l’uno per l’altra” sarebbe stato perfetto per loro, no? Loro per davvero non avevano niente in comune, o sbaglio? Eppure… eppure ci sono riusciti, a superare tutto, a pensare solo a loro stessi, a seguire una volta tanto quello che diceva il cuore. Ci sono riusciti, a trovare un punto in comune, un qualcosa che li unisse. Cosa? -

Vincenzo e Giorgia si guardarono, lasciando che Gianni continuasse senza interromperlo.

- Un bacio, ragazzi. Un bacio – sospirò, - Da un bacio può partire tutto. E’ un punto di inizio, un qualcosa a cui appoggiarsi, un qualcosa che unisce. Una cosa che appartiene solo a due persone. Per quante cose diverse si possano avere, quel bacio aggiusta tutto. Anche se momentaneamente… un bacio è sempre un bacio. Se due persone come loro, due così diversi, ce l’hanno fatta… voi credete di essere da meno? -

Il silenzio si rimpossessò della stanza, avvolgendo tutti come un morbido velo.

Per dieci minuti nessuno disse niente, gli sguardi bassi, occhi che non si incontravano. Allo scoccare delle cinque si alzarono in contemporanea, Vincenzo e Giorgia. Si alzarono, le espressioni imbarazzate.

Spostando il peso da un piede all’altro ci salutarono, scusandosi per il disturbo, cercando di accomiatarsi nel modo più appropriato. Si incamminarono verso la porta, scusandosi ancora, e si chiusero la porta alle spalle, ancora con una parola di scuse. Io cercai gli occhi di Gianni, trovandoli stanchi e divertiti.

Si alzò anche lui, porgendomi una mano.

La afferrai di slancio, lasciando che mi tirasse in piedi. Lo seguii in cucina, i pensieri che si rincorrevano senza riuscire a prendersi. Mi prese per mano, scostando piano la tenda dalla finestra. Imitandolo mi sporsi, guardando al di là del vetro, verso il basso, verso il parcheggio.

C’erano due persone, un uomo e una donna, abbracciati contro una macchina. Si baciavano, incuranti del resto. Sembrava non sentissero il freddo, né qualunque altra cosa. Come se esistessero solo loro. E un bacio.

- La passione della disperazione? – mi chiese Gianni, lasciando ricadere la tenda e restituendo loro un po’ d’intimità. A passi silenziosi si avviò verso la camera da letto, il sorriso sulle labbra.

- Secondo me lo desideravano da quando hai cominciato a parlare del bacio – dissi, ricordando le loro espressioni e gli sguardi focosi ed elettrizzati che si erano lanciati i nostri ospiti notturni.

Gianni ridacchiò, sdraiandosi sul letto:

- Potevano dirlo – mormorò, - Gli avremmo offerto la camera degli ospiti -

Gli sorrisi, inclinando la testa ed appoggiandomi allo stipite.

- Muschio… - sussurrai – Esiste o lo hai inventato? -

- Vuoi davvero saperlo? – ribattè lui, invitandomi a raggiungerlo sul letto. Io tentennai, ripensando al racconto, a quel ragazzo e al suo album, a Cinzia e alla sua parlantina.

 Al loro bacio.

E poi guardai le labbra di Gianni, atteggiate in un timido sorriso. Labbra che avevo sempre baciato, che conoscevo meglio di me stessa. Labbra che in quel momento desideravo più di ogni altra cosa.

Scossi la testa, gettandomi fra le sue braccia ed affondando il viso nell’incavo del suo collo. Respirai il suo profumo e scossi la testa. No, non volevo davvero saperlo.

Non mi interessava.

Mi aveva appena raccontato la mia nuova favola preferita.

Quella di Muschio.

La storia di un bacio.

 

*





So che non è granché.
So che è banale, sciatta anche.... ma devo anche ammettere che è la mia favola personale **

Fatemi sapere se ha lasciato qualcosa anche a voi ^^

Sara

   
 
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