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Autore: vannagio    14/12/2010    6 recensioni
Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità.
Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto decenni.

(Edward Cullen, Midnight Sun, capitolo uno “A prima vista”)
Sarà vero?
[Il secondo capitolo si è classificato primo al contest "Spazio ai personaggi", indetto da Sevvie]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen, Esme Cullen, Nuovo personaggio | Coppie: Carlisle/Esme
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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"Quando vannagio vaneggia!"



Storie di tre vittime innocenti





Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità.
Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto decenni.

(Edward Cullen, Midnight Sun, capitolo uno “A prima vista”)



Sarà vero?



Capitolo 1
Janet Cooper e Rupert Goodman




Ancor prima di spalancare la porta d’ingresso della piccola abitazione, Carlisle Cullen seppe che qualcosa non andava. Non era stato lo spesso muro di densa oscurità a suggerirglielo - anche perché il vampiro non aveva difficoltà a vedere attraverso di esso - e neanche l’assordante cappa di silenzio che avvolgeva l’intera casa come un’immensa campana di vetro trasparente. No, niente di tutto ciò. Era stato l’odore - quell’odore - a metterlo in allerta. Sangue. Caldo, vivo… invitante. Versato non più di qualche ora prima. Impregnava mobili, pareti, aria. Ogni cosa.
“Edward?”, chiamò con il pensiero. Non ottenne alcuna risposta.
Un’ondata di panico misto a senso di colpa lo travolse con inaspettata violenza, tanto da metterlo fuori gioco per alcuni interminabili secondi. Deglutì a vuoto e strinse i pugni. Si sarebbe arreso all’evidenza dei fatti solo quando li avesse accertati con i suoi occhi. La vana speranza di trovare una spiegazione diversa da quella che i sensi stavano sussurrando alla sua coscienza era l’unico appiglio che gli permetteva di rimanere a galla e gli impediva di annegare nella disperazione. Con riluttanza si avviò lentamente verso le scale. Un passo alla volta, un gradino alla volta.
Carlisle era stato via per tre ore. Tre dannatissime ore! Non aveva avuto altra scelta, benché l’idea di allontanarsi da casa lo turbasse parecchio. Il vampiro stata organizzando l’ennesimo trasferimento della sua non-vita ed era stato costretto a recarsi in città per sbrigare le solite faccende burocratiche.
Arrivato in cima alle scale, si fermò un istante per guardarsi intorno. Apparentemente sembrava tutto in ordine. Nessun segno di lotta. Ma il sangue - ahimè! - lo sentiva ancora. Anzi, l’odore si era fatto così intenso che per un attimo Carlisle ebbe l’impressione di trovarsi in una sala operatoria. Non era un buon segno, decisamente.
Una sottile striscia di luce giallognola si espandeva dalla porta socchiusa della camera di Edward e come la lama di una lunghissima spada, tagliava in diagonale lo stretto corridoio, altrimenti completamente buio. Serrò la mascella e chiuse gli occhi per trovare la forza di avanzare. Non era l’odore del sangue a destabilizzarlo - ormai ne era immune - bensì la consapevolezza di aver commesso un orribile errore di valutazione. Quando riaprì gli occhi, per un attimo, la sorpresa di trovarsi dentro la camera di Edward - si era mosso alla cieca quasi senza rendersene conto - lo distrasse dal macabro spettacolo che gli si parava di fronte.
Due cadaveri - un uomo e una donna - erano riversi scompostamente sul parquet di legno chiaro, l’uno accanto all’altro. L’uomo recava una ferita sul polso destro ed emanava un intenso odore di alcool stantio. A parte la rigidità tipica della morte, nulla lasciava supporre che non si sarebbe rialzato mai più. Giaceva prono e così Carlisle non ebbe modo di vedere l’espressione di terrore che sicuramente gli era rimasta congelata sul viso. Il sollievo per aver ricevuto quella piccola grazia durò solo una frazione di secondo, ossia il tempo necessario affinché il suo sguardo si posasse sulla giovane donna. Due occhi castani - sbarrati e assenti - lo fissavano in una muta richiesta di aiuto. La bocca deformata da un’orrida smorfia di dolore sembrava suggerire che neanche la morte era riuscita ad alleviare la sofferenza della povera sciagurata. E poi c’erano le guancie esangui, lo squarcio sul collo, l’ampia macchia di sangue che imbrattava il merletto del colletto strappato e che si allargava sul corpetto, il braccio piegato in modo innaturale… nessun dubbio in merito: lei era stata la prima a morire, la prima ad andare incontro alla furia devastante di un vampiro assetato.
Carlisle aveva visto tante di quelle atrocità nei suoi lunghi viaggi, da poter riempire di incubi le notti di un’intera esistenza, eppure, tutte le volte che guardava in faccia alla morte, non riusciva a rimanere indifferente. Ogni vita era preziosa per Carlisle, insostituibile. Ogni vita spezzata era una profonda ferita che neanche un medico esperto come lui era in grado di ricucire. Non si sarebbe mai abituato a vedere morire le persone, di questo era assolutamente certo.
Si inginocchiò accanto alla donna e mentre gli occhi aridi pizzicavano dalla voglia di piangere, sussurrò: «Riposa in pace, bambina». Poi, con una leggera carezza, abbassò le palpebre su quei due grandi buchi castani che avevano continuato a fissarlo incessantemente, come a chiedergli il perché di quell’inutile crudeltà. Se lo domandò anche lui, ma purtroppo non seppe trovare una risposta.
«Avrei dovuto pensarci io», sussurrò qualcuno alla sua sinistra.
Carlisle aveva percepito la sua presenza fin dall’inizio, ma nell’udire quella voce - al momento molto simile a un lamentoso fruscio - si accorse di non essere affatto pronto ad affrontare chi, nonostante tutto, considerava come un figlio.


*


Il sole era tramontato già da diverse ore quando Janet Cooper salutò la madre, avviandosi velocemente verso la via maestra. Quel pomeriggio era andata a farle visita com’era sua abitudine ogni venerdì da quando si era sposata. Il cielo era coperto di nuvole che promettevano pioggia e mentre camminava svelta, Janet permise alla sua mente di vagare per fantasie segrete e mai confessate.
Fin dai tempi della sua infanzia, Janet Cooper aveva avuto una passione smodata per la lettura. I suoi libri preferiti erano, senza dubbio alcuno, i romanzi di Jane Austen. Li aveva letti un numero così spropositato di volte da conoscerli ormai a memoria. Si era fatta un’idea piuttosto romantica e ingenua dell’amore. Sicura di sé e paziente come pochi su questa terra, sognava a occhi aperti di incontrare l’uomo della sua vita, colui il quale sarebbe stato in grado di rubarle il cuore. Così il tempo trascorreva, gli anni si susseguivano veloci, lasciando i segni del loro passaggio sul viso ovale di Janet, ma di ‘colui il quale’ non ne aveva avuto alcuna notizia.
Al suo posto, invece, giunse la Spagnola. Il padre di Janet contrasse la malattia e morì, lasciando moglie e figlia sul lastrico. Janet non ebbe altra scelta: accettò un matrimonio combinato e frettoloso con un vecchio e burbero commerciante vedovo, che fu talmente generoso da farsi carico del mantenimento della povera Signora Cooper, ma che purtroppo di romanticismo non ne aveva mai sentito parlare.
Janet era rassegnata alla sua vita piatta e monotona. Ormai aveva capito che nessun ‘colui il quale’ sarebbe mai arrivato per lei e che tutti i suoi sogni di ragazza ingenua - covati e conservati come qualcosa di estremamente prezioso - sarebbero rimasti, per l’appunto, soltanto sogni. Ogni tanto, però, quando era sola e ne aveva occasione, si concedeva il lusso di fantasticare. E allora inventava storie bizzarre ma al contempo romantiche. Tali storie si concludevano quasi sempre con un bellissimo principe dagli occhi blu che rapiva Janet, strappandola alla sua vita vuota e insignificante.
Quella sera Janet era così immersa nelle sue fantasie da vecchia bambina, che non ebbe neanche l’occasione di vederlo arrivare. Janet Cooper venne rapita da un bellissimo principe dagli occhi arancioni.
Non le rubò il cuore, ma la vita, quella sì.


*


Bere non era mai stata un’abitudine per Rupert Goodman. A voler essere onesti, lui, l’alcool, non lo aveva mai retto. Al punto tale che un solo dito di vino rosso lo trasformava in un ridicolo ometto traballante con le guance rosse, rigate dalle lacrime. Perché a lui, l’alcool non metteva allegria, no signore! Solo tristezza e malinconia.
Quella sera Rupert, quando si era recato al pub, era già triste di suo. E poiché era già triste di suo - si era detto - perché non rincarare la dose e scolarsi un goccetto?
Qualche ora più tardi, uscito dal locale, ubriaco come mai lo era stato in vita sua, Rupert capì che la sua non era stata una mossa molto furba. Proprio no! Ma ormai il danno era fatto e in fondo casa sua non era così lontana dal pub. Inciampando ripetutamente sui suoi stessi piedi, reggendosi ora a un palo ora all’inferriata di qualche edificio adiacente alla strada, si incamminò per raggiungere la sua abitazione.
Le lacrime scorrevano copiose e lo rendevano quasi cieco. Più volte rischiò di cadere come una pera cotta e di spaccarsi i denti sbattendo la faccia per terra. Forse se avesse smesso di piangere come una stupida donnicciola, camminare sarebbe stato dieci volte più semplice! Per quanto ci provasse, però, Rupert non riusciva a fermare le lacrime.
La verità era che Rupert soffriva maledettamente. Si sentiva abbandonato, solo al mondo. E innamorato. Odiava ammetterlo a se stesso e di sicuro lo avrebbe negato fino alla morte, se solo qualcuno avesse avuto un sospetto a riguardo. Ma lui era innamorato. Sì, signore. Non c’era cosa peggiore che potesse capitargli. Anzi, no! La cosa peggiore che potesse capitargli era innamorarsi di un uomo.
E indovinate un po’?
Rupert era innamorato di un uomo. Già! Di un uomo che era stato disposto a ricambiare il suo sentimento e sollazzarsi nei piaceri della carne per più di due anni. Le cose, però, erano cambiate assai. La famiglia del suddetto uomo gli aveva combinato un matrimonio molto conveniente con una ricca grassona bionda. E quale pazzo avrebbe rinunciato alla possibilità di vivere di rendita senza muovere un dito? Per cosa, poi? Per qualche notte di passione clandestina?
E così l’uomo si era mostrato per il viscido verme meschino quale era. E aveva scritto una lettera a Rupert. Una lettera piena di parole gentili, infide e false. E adesso Rupert era rimasto solo. Ubriaco fradicio. E senza la minima idea di dove si trovasse.
Si guardò intorno, spaesato e confuso, cercando di individuare qualche dettaglio a lui familiare ma il cervello era ottenebrato dall’alcool, la vista offuscata dal pianto. Esausto e impossibilitato a compiere un altro passo senza inciampare, si lasciò cadere per terra. La sua testa - e tutto il resto del mondo con essa - ondeggiava paurosamente da destra verso sinistra. La afferrò con entrambi le mani come per tenerla ferma e portò le ginocchia al petto. Aveva la nausea e cominciava a sentire freddo - freddo? - e sollievo… qualcosa di freddo sulla sua spalla gli dava sollievo. Ma come diavolo ci era finito in piedi con la schiena contro il muro?
E poi lo vide.
Il giovane più bello che Rupert avesse mai incontrato in vita sua. Perfino più bello di quel viscido verme che adesso odiava più di quanto avesse mai odiato se stesso. Nonostante l’alcool, Rupert notò che il giovane lo stava sostenendo per la spalla sinistra con una mano sola. Era stato lui a farlo alzare da terra?
Il giovane annuì, sogghignando. E per un folle istante Rupert si chiese se il ragazzo fosse capace di leggergli nella mente. Rise, o meglio, provò a ridere di quel pensiero sciocco, ma la sua lingua era così secca e al contempo pastosa che a mala pena riuscì a emettere un rantolo rauco.
Gli occhi neri - o forse rosso scuro? - del giovane erano fissi in quelli di Rupert, il quale non poté fare a meno di avvampare sotto quello sguardo così ardente e... affamato? La voglia di toccarlo, di sfiorare e accarezzare quella pelle candida e perfetta arrivò improvvisa e travolgente. L’alcool lo rendeva avventato e sconsiderato, oltre che triste e malinconico. Così, senza perdere altro tempo, allungò la mano destra e…
La sua guancia era liscia, assurdamente liscia. E ghiacciata. Tanto ghiacciata da far desiderare a Rupert di poggiarci contro la fronte dolorante. Le dite vagarono impunite per quel volto divino fino ad arrivare alle labbra. Dure, fredde, invitanti. Prima ancora che la sua mente potesse formulare su di esse un qualsiasi pensiero peccaminoso, Rupert avvertì un dolore straziante al polso destro. Urlò, ma dalla sua gola fuoriuscì soltanto un debole gracchiare di cornacchia. Si sentì strattonare in avanti… pochi attimi dopo si ritrovò circondato dall’oscurità - un vicolo buio? - e dalle braccia forti del giovane, il quale stava succhiando avidamente dal suo polso.
Rupert non ebbe il tempo di avere paura o di lottare. Le forze lo abbandonarono rapidamente. La vista, già annebbiata dall’alcool, si affievoliva sempre di più, fino a quando non lo lasciò completamente cieco. La pioggia cominciò a cadere inesorabile, bagnandogli i vestiti e la pelle poco più che tiepida. Poi anche l’udito si spense. Negli ultimi istanti di vita, a Rupert non rimase altro da fare che contemplare i ricordi sfocati e inconsistenti di giornate soleggiate, passate in compagnia del suo amato viscido verme meschino.
Rupert Goodman morì così. Tra le braccia di un giovane bellissimo e un sorriso amaro sulle labbra.


*


La pioggia aveva reso il terreno più morbido - costatò Carlisle mentre affondava la pala nel terriccio fangoso, saturo di acqua -, il suo compito sarebbe stato più semplice. Per la seconda volta, in quella notte colma di orrore e sensi di colpa, provò un vago sollievo. Ma di nuovo durò poco. Perché gli occhi cremisi di Edward - di suo figlio - e quel viso pallido imbrattato di sangue altrui lo perseguitavano di continuo senza mai dargli pace. Anche in quel momento, mentre scavava una fossa nel bel mezzo del bosco e la candida pelle delle braccia si tingeva di marrone - macabra imitazione del sangue coagulato e secco -, non poteva non pensare all’accusa intravista sul viso di Edward. «È colpa tua…», gli aveva detto, sibilando come un animale ferito, «…e dello stile di vita che cerchi di impormi a tutti i costi».
Carlisle non riusciva a biasimare Edward per quello che aveva fatto. Nemmeno quando lo sguardo cadeva sui cadaveri di quell’uomo e di quella donna sconosciuti - ciascuno avvolto in un lenzuolo -, i quali erano stati poggiati contro una grande quercia e attendevano di essere sepolti, silenziosi come solo dopo la morte si poteva essere.
La colpa era sua, di Carlisle. Erano trascorsi quattro mesi dalla trasformazione di Edward. Carlisle aveva creduto che il ragazzo fosse capace di mantenere un autocontrollo sufficiente da rimanere solo per qualche ora. Evidentemente, si era sbagliato. Evidentemente, Carlisle aveva ancora molto da imparare come creatore… come padre.
Si fermò un secondo per voltarsi nella direzione in cui sapeva trovarsi la loro casa. Sospirò pesantemente mentre scrutava la barriera di foglie, rami e chiome che gli impediva di scorgere la finestra illuminata della camera di Edward. Che cosa stava facendo adesso? Si sentiva in colpa anche lui? Provava disgusto verso se stesso, proprio come Carlisle nel primo periodo della sua non-esistenza? Forse Edward lo biasimava - lo odiava? - per averlo reso un mostro? Per un lunghissimo istante Carlisle si chiese se suo figlio avesse ragione. Forse doveva lasciarlo libero di decidere della sua vita. Forse doveva smettere di imporgli le sue scelte. Ma era davvero così? Lo stava costringendo? La verità era che Carlisle non era pronto a rinunciare alla compagnia di Edward. Lo amava così profondamente e incondizionatamente, che forse avrebbe potuto accettare qualsiasi cosa pur di tenerlo con sé. Forse…
Forse, forse, forse. Solo dubbi. Nessuna certezza.
Aumentò la stretta sul manico della pala, tanto da sentirlo scricchiolare sotto le sue dita.
Infine decise. Sarebbero andati via - si disse mentre si rimetteva a scavare più velocemente -, il più lontano possibile da qualsiasi essere umano. Avrebbero ricominciato daccapo. E con l’aiuto di Carlisle, Edward ce l’avrebbe fatta.
Sì, ce l’avrebbero fatta entrambi.
Insieme.





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Nota autore:
Questa ‘cosa’ nasce in un giorno di noia. Dovevo studiare ma non ne avevo voglia, così sono andata a rileggere il primo capitolo di Midnight Sun. Arrivata alla fatidica ora di biologia, in cui Edward progetta di uccidere un’intera classe per ciucciarsi Bella Swan, il sedicente vampiro fa una clamorosa rivelazione: “Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità. Non avevo mai ucciso un innocente in più di otto innocenti”. Inutile dire che ne sono rimasta veramente sconvolta. Ma come? Il vampiro vegetariano per antonomasia, che si nutre soltanto di sangue animale e che quando si è nutrito di sangue umano si trattava soltanto di manigoldi incalliti, alla fine confessa di essere scivolato non una, ma ben otto volte? Improvvisamente Edward Cullen mi è apparso sotto una nuove luce. E ha cominciato a esercitare un fascino inaspettato su di me. “Caspita, che potenziale!” mi sono detta.
E allora la mia mente ha cominciato a rimuginare, rimuginare, rimuginare su queste otto vittime innocenti che hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ne è venuta fuori un’idea per una piccola long. Ogni capitolo avrebbe dovuto trattare la storia di una o più di queste otto vittime e le reazioni degli altri Cullen.
E fin qui il ragionamento sembra filare che è una meraviglia, non è vero?
Se non che, mi sono resa conto di avere una versione di Midnight Sun piena di errori. E la frase che aveva scatenato in me questa smaniosa voglia di scrivere era sbagliata! In realtà Edward dice: “Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità. Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto decenni”. Capite? Otto decenni non innocenti! Naturalmente tutto il mio bellissimo progetto è crollato come un castello di carte ed Edward Cullen è tornato a essere un noiosissimo vampiro vegetariano. Che delusione!
Siccome non mi andava si cancellare Janet Cooper e Rupert Godman dal computer - insomma, mica è colpa loro se ho frainteso Eddy, giusto? - ho deciso di pubblicare la loro storia come una sorta di ‘What if?’ in cui Edward, neonato e accecato dalla sete, non riesce a controllarsi e uccide i due poveri disgraziati in questione.
Ci sarà solo un altro capitolo che avevo già cominciato a scrivere e che - anche in questo caso - non riesco a cancellare.
Grazie in anticipo a chi leggerà e commenterà questa ff. Risponderò a chiunque avesse il fegato di recensire questa immane cavolata attraverso la funzione ‘rispondi’.
A presto, vannagio.
   
 
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