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Autore: ElderClaud    15/12/2010    3 recensioni
Sette pietre, sette one shot per approfondire meglio una storia già iniziata.
Sette spaccati di vita per cinque personaggi in primis, più altre "comparse" che avranno da dire la loro in tutto questo turbine di eventi.
Perchè passare dal tragico al comico, nel grande percorso della vita, è una cosa davvero sottile.
prompt 1: [Nnoitra/Rukia];
prompt 2: [Zaraki Kenpachi centric][Zaraki/OC];
Prompt 3: [Szayel & Ulquiorra][Szayel centric];
prompt 4: [Szayel/Nemu][Szayel centric];
prompt 5: [Ichigo/Tatsuki][Ichigo centric]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Nnoitra Jilga, Szayel Aporro Grantz, Zaraki Kenpachi
Note: AU, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Raining Stones'
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Questo progetto nasce con l'intento di scrivere sette prompt, ricavati dalla community di Syllables of Time
Tutte queste oneshot, appartengono all'universo creativo di Raining stones e quindi tutte bene o male collegate tra loro (nel caso di collegamenti diretti con le altre oneshot le citerò), oppure mostreranno spezzoni di passato dei vari personaggi.
Suddetti personaggi scelti (in cui appariranno in coppia o più profondamente in centric) sono:
Ichigo Kurosaki;
Rukia Kuchiki;
Nnoitra Jilga;
Zaraki Kenpachi;
Szayel Aporro Grantz
Appariranno anche altri personaggi, ma in quel caso farò delle centric dei personaggi sopracitati in modo da non andare troppo contro il regolamento della community.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, e ditemi cosa ne pensate ^^ (la prima oneshot si allaccia a “temperanza”, “vendetta” e a tutte le altre oneshot in cui appaiono Nnoitra e Rukia.)


1° Verrà la notte e avrà i tuoi occhi.


La lancetta della sveglia sul comodino pareva non voler dare tregua.

Era un continuo ticchettio che solerte rimbombava in ogni angolo della camera da letto, costringendo così il proprietario dell'appartamento a rigirarsi di continuo su di un materasso nuovo, che contava si e no qualche mese di vita. Un giaciglio decisamente più comodo rispetto alla vecchia branda che prima occupava solo un misero angolo della stanza. Ma che in quel preciso istante di insonnia quasi andava a rimpiangere.
Seccato, per il ritardo con cui il sonno giungeva nelle sue stanche membra, Nnoitra Jilga si rigirò ancora tra quelle lenzuola umide di sudore dovute ad un caldo incessante, soffocando tra di esse bestemmie impronunciabili.
E pensare che lui quel letto matrimoniale manco lo voleva. Anzi, non voleva che il suo bilocale subisse una strigliata totale in meno di un giorno.
Tutto questo, grazie alla nuova stagista che gli stava appiccicata al culo quanto una piattola su di un cane.
Rukia”
Mugugnando il suo nome quasi senza volerlo, allungando quella “R” iniziale come a sibilare un ringhio, Jilga sospirò esasperato per la troppa afa che regnava nella stanza buia e si decise a scostare violentemente le lenzuola in fondo al letto.
Liberando così nella notte cupa della stanza, appena rischiarita dalla luce dei lampioni che filtravano attraverso le veneziane abbassate della finestra, il corpo sudato di un uomo provato dai drammi di un tenore di vita discutibile, che nonostante tutto si mostrava ancora tonico e in forma.
Quella nanerottola era entrata prepotentemente nella sua vita lavorativa – per volere degli alti dirigenti dato che il suo precedente zerbino era scappato con un'altra collega – e si era presa la libertà di resettargli tutta la sua esistenza.
Quantomeno la sua persona. Difatti, lo stesso giorno in cui si erano presentati, non lo avrebbe mai dimenticato, ecco che miss “sono più superiore di te” gli aveva fatto risistemare casa da zero.
L'adorato tugurio con i muri ingialliti dal troppo fumo e la moquette sporca di troppi alcoolici, si era trasformato in un attico degno di un manager come lo era lui.
Che seppur appariva per alcuni decisamente un individuo squallido, la stessa Rukia doveva riconoscere che sapeva fare bene il suo mestiere. Sennò Aizen Sosuke non lo avrebbe preso nella sua ditta farmaceutica.

Faceva caldo quella sera, talmente tanto che da fuori la finestra non giungeva nessun rumore che non fosse qualche auto lontana e anonima che passava da quelle parti. Neppure i grilli canticchiavano dolcemente, cullando così il sonno di un feroce padrone di casa.
No, nulla da fare. Anche scostando via quelle lenzuola pulite – ora umide di sudore – bastavano a farlo addormentare del tutto.
Per questo, preda di una forte esasperazione, l'allampanato padrone di casa si alzò a sedere a fatica per tentare così di stiracchiarsi i muscoli.
Visto che non riusciva ad addormentarsi per colpa di quell'afa fottuta, pensò saggiamente, si sarebbe concesso una doccia rinfrescante e poi una sigaretta.
Forse la colpa non era semplicemente del caldo anomalo di una estate che non voleva andarsene via, piuttosto di tutto lo stress che aveva accumulato pensando e ripensando a tutto quel che gli era capitato in quei pochi mesi.
Finalmente, una volta ritto in piedi, si diresse sicuro al bagno – senza neanche star li ad accendere le luci – e una volta giunto, entrò direttamente nella vasca e tirò il candido tendone di plastica.
Non si tolse neppure le mutande mentre, finalmente con i muscoli rilassati, accoglieva sulle spalle uno scroscio di acqua fresca e dissetante.
Difatti, più di un mugugno compiaciuto fuoriuscì dalle sue labbra sottili, nell'atto di passarsi le mani tra i lunghi capelli neri.
Persino il bagno era stato risistemato il giorno stesso in cui quella donnetta fu assunta nel suo ruolo di stagista. Tutto a posto in quella casa. Dalle pareti ai mobili.
Una novità che portò Jilga a essere sull'orlo di un collasso una volta ritornato nella sua dimora. Ma quella di tutta risposta, alla sua telefonata aggressiva in cerca di chiarimenti su chi avrebbe pagato tutte quelle spese, la donna rispose spiccia.

Spese? Quali spese? Sono tutti omaggi che le ditte le hanno offerto una volta che ho detto loro chi eravate e per chi, soprattutto, lavoravate”

Da restare sorpresi vero?
Quella piccoletta era una dannatissima stronza che sapeva il fatto suo. E quel piccolo ricordo lo portò stranamente a sorridere mentre alzava il volto verso l'alto per accogliere così l'acqua spruzzata incessantemente dal diffusore.
“Tzè... Dannata stronza. L'esatto contrario di Neliel e... Ah cazzo! Che paragoni del cavolo...”
Il ricordo dell'ex moglie portò via quel suo sorriso simile ad un ghigno, per fare posto ad un veleno che ancora gli scorreva nelle vene nonostante i tanti anni che erano passati.
Da Neliel Tu, lui aveva avuto una bambina – ormai grande per fortuna – ma non per questo si sentiva di rispettarla perchè la madre di sua figlia. Anzi, tutt'altro, la detestava più della nanetta impertinente. O meglio, erano due cose perfettamente diverse per quanto simili nella loro... Saccenza.
Una volta stancatosi di farsi una doccia rinfrescante, che ora pure quella non pareva più consolatrice a causa dei pensieri che gli tormentavano il cervello, se ne uscì bagnato come uno straccio zuppo e, senza neppure avvolgersi in un asciugamano, si diresse seccato alla finestra della camera da letto. Macchiando con pedate e righe d'acqua, un parquet immacolato dal lavoro di una abile domestica pagata da chissà chi.
Infischiandosene di essere bagnato e praticamente nudo – eccetto le mutande zuppe – si accese una sigaretta e accese la radio vicino al comò. Poi, annoiato, si affacciò alla finestra ora libera del velo di alluminio fornito dalle veneziane.
Dalla finestra del suo appartamento vedeva il cortile interno e una parte della strada. Tutto rigorosamente deserto.
A quanto pare, se avesse fatto qualche isolato in linea retta, sarebbe passato esattamente dove abitava Rukia Kuchiki.
Era importante? No, decisamente no.
A lui in quel momento interessava fumare quella benedetta sigaretta e guardare il cielo notturno mentre, con un suono un po' disturbato, dalla radio sopraggiungeva una malinconica canzoncina che lui canticchiava distrattamente.

Troppo era il caldo... E troppi erano i pensieri che quel bastardo gli generava nella testa.
Piano, come se stesse mormorando una preghiera, le labbra di Nnoitra si muovevano sapienti nel pronunciare ogni singola parola cantata dalla vocalist di un gruppo che a malapena conosceva.
A tratti la sigaretta la tirava su come se fosse stata una cannuccia, accendendo violentemente le braci presenti sulla punta, inalando così velenosa nicotina.
Incrociò le braccia sul davanzale, sporgendosi meglio nell'osservare il desolato panorama notturno, tornando così nei suoi pensieri.
Tra Neliel e Rukia vi era un abisso, questo lo aveva capito bene durante quei mesi di servigi della Kuchiki.
Il fattore che lo aveva portato a disprezzare dal profondo la sua ex moglie, stava nella sua caratteristica principale di averlo sempre trattato con sufficienza e di non aver mai rispettato la sua filosofia di vita.
Neliel era sempre stata sicura di quello in cui credeva – cosa nobile questo non poteva negarglielo – trovando i suoi pensieri violenti tutt'altro che giusti. Anzi, disfattisti e degradanti per il genere umano.
Loro due erano come delle allegorie di stili di vita differenti – uno propenso ad un lato umano e l'altro più propenso a quello pratico – destinate a confrontarsi e non vedere mai un prevalersi di una delle due parti.
E se da un lato aveva trovato stuzzicante un tale confronto, presto si stancò di avere un assistente sociale tra i piedi.
Lui non aveva bisogno di protezione, ne di una guida morale e, soprattutto, non aveva bisogno che il suo capoufficio fosse sua moglie. Poi da li a riuscire a cacciarla via con infamia, è tutta un'altra storia che non gli andava di rimembrare.

Per l'ennesima volta sbuffò fumo dalle labbra dischiuse, mormorando ancora le strofe di una canzone quasi del tutto alle battute finali.
E fu proprio nella strofa finale cantata con stupenda bravura da una giovane cantante, che a Nnoitra Jilga gli si spalancò l'unico occhio buono.

... Verrà la notte e avrà i tuoi occhi...”

Quella frase gli fuoriuscì in modo più marcato dalle labbra, appena nella sua testa gli si accese una lucina di comprensione.
Gli occhi di Rukia, erano esattamente come il cielo notturno che stava osservando.
Quella donna, apparentemente simile a Neliel, sembrava sapere il fatto suo imponendosi anche con una certa arroganza.
Proprio come Neliel, mal digeriva il suo stile di vita e si mostrava superiore sia con gli atti che con le parole.
Eppure, la loro somiglianza si fermava solo a quell'effimera apparenza.
Perchè i suoi occhi, erano come il cielo limaccioso che stava guardando in quel momento. Come la frase di quella canzone ormai conclusa e sostituita da un'altra da un deejay in forma nonostante l'ora tarda e il caldo bollente.
Gli occhi di Rukia erano due pozzi blu scuro su cui nessuna stella brillava limpida e vittoriosa.
Erano come offuscati da un qualcosa, esattamente come quello sopra la sua testa coperto da una asfissiante cappa d'afa, che non mostrava nulla se non una specie di nebbiolina umida e appiccicosa.
Un mantello scuro e opaco, ove nessuna stella o mezzaluna splendente osasse fare capolino per rischiarire un po' quelle calde tenebre indesiderate.
Gli occhi di Rukia insomma, a differenza di quelli di Neliel, avevano conosciuto il peso di una dolorosa sconfitta.

Avevano, esattamente come Nnoitra Jilga, conosciuto il dolore di una perdita improvvisa e colpevole. Oppure, peggio ancora, di un fallimento in bilico tra il volontario e l'involontario.
Erano supposizioni fatte a caldo, certo. Nate improvvisamente ascoltando in modo assai distratto una canzone che fuoriusciva da una vecchia radio, ok.
Ma quel ragionamento proprio non riusciva a sminuirlo. Neppure dopo aver finito di fumare la sigaretta, buttando così un mozzicone ardente di sotto e incurante dei pericoli che avrebbe potuto creare se avesse toccato l'erba secca.
“Che mi venga un fottutissimo colpo” borbottò quasi annoiato.
Scostandosi dalla finestra ormai perfettamente asciugato grazie al caldo presente in quella notte senza stelle. Perfettamente asciutto senza che neppure un filo di vento spirasse dentro la finestra, esclusi i capelli che rimanevano umidi e le mutande che invece, a rovescio della medaglia, si erano fatte insopportabili da portare.
Ringhiando sprezzante, se le sfilò via velocemente per poi appallottolarle con rabbia tra le mani fino a ridurle ad un mucchietto fradicio e indistinto.
“Ma vaffanculo!”
Nuovamente irritato per quel contrattempo dettato dalla tarda nottata insolita, si liberò con fastidio di quell'indumento bagnato gettandolo oltre l'abisso nero presente fuori dalla finestra, sempre e comunque incurante che un gesto simile era ai limiti dell'indecenza e del teppismo condominiale.

Non erano le mutande ad interessarlo, ne le facce dei condomini che si sarebbero create alla vista di quelle mutande giganti che insozzavano la bella aiuola vicina al portone di ingresso.
Ad averlo colpito erano il pensiero degli occhi della sua stagista e al fatto che decisamente non sarebbe riuscito a sbarazzarsi di lei con tanta facilità. Ne avrebbe, alla fine dei conti, trovato la forza morale di farlo.

Perchè gli occhi di Rukia, quei due occhi neri come una notte coperta da un'afa insidiosa, più che somigliare a quelli di Neliel in fatto di temperamento “forte” e di grande sicurezza, erano simili a quelli di Nnoitra Jilga.
Solo che, a differenza di lui, Rukia si ostinava a nascondere la propria insicurezza dietro una parete di pseudo sicurezza e arroganza. Un muro forse imposto per sopravvivere a quel buio che aveva spento la speranza fatta di tante stelle, che lui tuttavia trovava decisamente inutile e ai limiti della perdita di tempo.
Sorpreso egli stesso di un ragionamento così azzardato, eppure così possibile nel suo essere ipotetico, il padrone di quel piccolo appartamento spense la radio e si ributtò a letto nudo come un verme con l'arrivo insperato di un sonno tanto atteso.
E di li a breve, chiudere gli occhi e ignorare l'afa che tornava a farsi risentire su di un corpo ancora fresco di una doccia rilassante, fu una cosa breve e meno travagliata.

Forse quella doccia era riuscita a far miracoli. Oppure, con tutta probabilità, era stato di aver rischiarato i propri pensieri ad avergli ridato un sonno tra mille borbottii e mugugni vari.
Magari l'indomani le avrebbe offerto un caffè...

[…]

Inalò l'aria in un profondo respiro, trovando l'atmosfera piacevolmente umida.
Kira Izuru constatò ancora una volta e con ancora tiepido piacere – dopo una nottata bollente spesa a lavorare – che l'aria del primo mattino era pressoché perfetta.
Il sole sul fondo della strada stava iniziando a sorgere, tingendo così parzialmente l'orizzonte di un morbido color rosa. Non una nuvola in cielo, quello che aveva coperto la notte passata era niente meno che l'afa micidiale di una tarda estate.
Non era certo sua intenzione farsi una nottata di straordinari, però era questo ciò che aspettava un semplice avvocato d'ufficio come lo era lui.
Sospirò esausto, posandosi una mano sul volto per massaggiarselo meglio.
I suoi capelli biondi erano spettinati e la cravatta stretta al collo decisamente poco in asse. E per di più, sul suo volto erano ben visibili due occhiaie da far invidia ad un panda.
In quel preciso momento, per quanto l'aria del mattino era lievemente umida e tiepida – e per tal motivo rilassante – nulla avrebbe tolto un buon sonno ristoratore ad uno stanco avvocato.
Si, decisamente buttarsi sul letto e dormire fino a mezzogiorno pareva la cosa più bella del mondo. E ciò lo portò a sorridere lievemente mentre superava il cancello che lo avrebbe portato nel condominio in cui abitava.
“Finalmente a casa” pensò con soddisfazione.
Ma per sua immensa sfortuna, quel timido sorriso apparso sul suo volto solcato da una – presumibilmente – perenne stanchezza, dovette nuovamente piegarsi in una smorfia di dolore alla vista di un qualcosa di osceno.
Davanti al portone di ingresso dello stabile, ove era presente una bella aiuola ben curata piena di candide rose, era presente un qualcosa di totalmente iniquo.
Delle mutande enormi, candide e ancora fradice della lunga nottata afosa, troneggiavano sopra le sue rose con una sfacciataggine inaudita.
“Ohh...”
con un segno tangibile di impotenza, Kira Izuru allargò lievemente le braccia e lasciò scivolare a terra la sua vecchia ventiquattrore.
Sconsolato,si avvicinò al luogo del delitto. Notando – senza però toccarle – che quelle enormi mutande potevano solo appartenere ad una persona a lui ben nota, che spesso e volentieri prendeva la sua aiuola come cestino dei rifiuti.
Sopra l'elastico ancora grigio di mutande originariamente candide, capeggiava la scritta “menos grande” in tutta la sua provocante calligrafia.
E solo un uomo dal nome di Nnoitra Jilga poteva osare permettersi di indossare simile robaccia.
Distrutto per quell'ennesimo affronto, l'avvocato chinò la testa verso il suolo dispiaciuto per quell'ennesimo insulto alla sua adorata aiuola.
Sicuramente un giorno, se avesse mai avuto la forza di andare a bussare a quel gigante iroso con la forza di dieci buoi e un coraggio indifferente per farsi chiedere scusa per i danni ricevuti, il cielo lo avrebbe accolto come un eroe.

Ma fino a quel giorno, se davvero ci teneva alle sue ossa, tutto ciò che poteva fare era di raccogliere quelle mutande con un bastone, e lasciare vicino all'ingresso del vicino che abitava sopra di lui.

   
 
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