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Autore: Dk86    16/12/2010    1 recensioni
"La caduta di Singapore è stata il peggior disastro e la più grande resa della storia britannica" (Winston Churchill)
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve! Sono l’autore.
Prima della storia volevo chiarire una cosa: tutte le mie storie su Hetalia – a meno che non sia espressamente indicato – sono ambientate nello stesso “universo narrativo”. Quindi ciò che accadrà in una storia potrà influenzare ciò che succede in un’altra, le nazioni originali (e ce ne saranno, mi diverto un mondo a inventarle) potrebbero riapparire in più di una storia, e così via. Ovviamente scrivendo farò in modo che ogni storia possa essere letta senza conoscere nessuna delle precedenti; non si tratta di una serie di vicende strettamente collegate, solo di una linea temporale “comune” a tutte le fanfiction. Tutto qua.
Inoltre, piccola precisazione su qualcosa che viene detto nel corso della storia: l’azione “deprecabile” che Giappone avrebbe commesso contro Cina è la tragedia di Nanchino, realmente avvenuta.
E ora, vi lascio alla storia!









FEBBRAIO 1942


“Avevi promesso che mi avresti protetto sempre”.
Nelle parole di Singapore non c’è accusa: solo una quieta rassegnazione, che non fa che renderle ancora più terribili. Se ne sta lì, in piedi sul bordo della scogliera con il tramonto come sfondo; un ragazzo non più bambino e non ancora uomo, con la sua divisa militare alla cinese troppo larga che lo fa sembrare più basso e minuto di quanto già non sia.
Per un orribile, lunghissimo secondo Arthur ha la netta impressione che stia per buttarsi nel mare sottostante.
“Lo so”, risponde. Si rende conto della banalità insita in quelle due sillabe; ma allo stesso modo sa bene che, qualsiasi cosa possa dire, nulla potrà cambiare. Ciò che sta accadendo nel mondo è ormai al di fuori del suo controllo. “Ma era diverso, allora”.
“Diverso?”. Rifki si volta, e fa un passo verso il suo interlocutore. I suoi occhi neri, sotto la visiera del berretto, sono fissi e decisi, tanto che Arthur prova l’impulso di abbassare lo sguardo. “E da cosa?”.
Inghilterra stende le dita: sono pallide e tremano, nonostante la mitezza dell’inverno asiatico. Tutto d’un tratto gli sembrano gli artigli adunchi di un vecchio. “Da ciò che ero in passato. C’è stata un’epoca… sì, un’epoca in cui ero così potente che avrei potuto stendere le mani e abbracciare l’intero globo, se solo lo avessi voluto. Ero forte, e orgoglioso…”. Abbozza un sorriso, mentre le folte sopracciglia gli si inarcano fino quasi a toccare il berretto; ciò che gli riesce di produrre è una smorfia buffa e un po’ triste. “… E giovane e stupido. Ma ora”, la fronte gli si riempie di rughe, e le sopracciglia tornano al loro posto. “Immersi come siamo in questa terribile guerra, il mio impero sta cadendo a pezzi… e non c’è nulla che io possa fare per evitare che accada”.
Singapore gli si avvicina di un altro passo. “E quindi… io sono solo uno di questi pezzi?”. Ancora quel tono tranquillo e distante, come se il fatto di essere conteso non riguardi lui ma qualcuno che non ha mai visto.
Inghilterra è costretto a mordersi un labbro, per evitare di scoppiare in un grido di frustrazione. “Temo di avere fatto una promessa che non ero in grado di mantenere”. Alza gli occhi verso il cielo che va ormai scurendosi per l’imminente crepuscolo. Temo che tutte le promesse che ho fatto in questi ultimi tre secoli… temo non sarò in grado di mantenerle.
“Meglio rientrare, prima che faccia buio”. La voce di Rifki scuote Arthur dai suoi pensieri; il ragazzino gli si è affiancato e lo fissa, lo sguardo scuro ancora immutato. Poi abbozza un minuscolo, timidissimo sorriso, che gli illumina il volto alla luce rossastra del cielo.
Inghilterra annuisce, mentre un leggerissimo tepore gli sboccia per un attimo all’altezza del petto. “Hai ragione. Se qualcosa deve separarci, è meglio che non sia l’oscurità”.


Il motivo per cui tutti chiamano India “principessa” è ovvio anche solo ad osservarla: ovunque sia, qualunque cosa stia facendo e in qualunque situazione sia andata a cacciarsi – e, in effetti, quando lei è nei paraggi c’è veramente da aspettarsi di tutto – non perde mai la sua eleganza. Anche nei momenti di profonda noia, avvolta nel suo sari candido, con pesanti gioielli d’oro che le ornano polsi, caviglie e lobi delle orecchie, la sua grazia appare immutata e intoccabile.
Lo stesso, purtroppo, non si può dire dell’ingombrante animale da compagnia che si porta dietro.
“Ahia!”. Australia si massaggia il fianco colpito, un’espressione rassegnata sul volto abbronzato. “India, non puoi dirgli qualcosa? Il tuo cucciolo è convinto che sono un albero o che so io”. Certo, anche se sopra gli ottanta chili non so se si può ancora chiamarlo “cucciolo”, pensa poi.
La donna distoglie lo sguardo dalla finestra, attraverso cui stava fissando con aria languida la notte stellata, poi solleva una mano e la sventola distratta. “Panjabi, da bravo, vieni qui”. Il massiccio vitello dal manto grigio-bruno sventola un paio di volte la coda, come un cane obbediente che attende di ricevere un biscotto come premio, e si avvicina alla sua padrona, appoggiandole sulle ginocchia il testone incoronato da due mozziconi di corna. Parveen sorride, e abbassa le dita dalle unghie lunghe e ben curate per grattare la zona dietro le orecchie dell’animale.
Thomas J. Cook osserva la donna, un po’ invidioso: a saperlo si sarebbe portato dietro anche lui i suoi due animaletti! Ma a pensarci meglio, questo avrebbe voluto dire esporli al pericolo della guerra. Per fortuna, riflette, ha potuto affidare Jerry e Dood ai suoi fratelli…
E così un’altra fitta lo colpisce all’interno, facendogli aggrottare le imponenti sopracciglia: chissà come se la sta cavando Nuova Zelanda a dover badare a tutti, lei che sembra sempre così dolce e fragile… E Tasmania si starà comportando bene? Ancora una volta Australia maledice la guerra in cuor suo. Chissà quando riuscirò a tornare a casa?
“Sembri pensieroso, Tommy… Qualcosa non va?”.
L’uomo alza gli occhi e scopre che India lo sta fissando con i suoi occhi dolci e neri come due tazze di caffé. Anche Panjabi lo guarda, ma lui sembra molto meno comprensivo e benintenzionato. “Nah. Nulla di che, davvero…”, risponde, tentando di minimizzare.
“Non mi inganni, sai?”, risponde lei, alzandosi in piedi ed avvicinandoglisi; la sua andatura fluida e leggermente ancheggiante fa sbatacchiare e tintinnare gli innumerevoli monili sparsi sul suo corpo, creando un suono simile a quello emesso da un bastone della pioggia. La donna tende un indice color cioccolata e lo poggia proprio al centro della fronte di Australia. “Si capisce tutto dalle sopracciglia”.
Thomas abbozza un sorriso. “Già, dimentico sempre che sei maledettamente brava a leggere le facce degli altri”.
“E quindi, ti va di raccontarmi che cosa c’è?”, domanda Parveen, accomodandosi su una delle sedie attorno allo sgraziato tavolo di legno che troneggia nella stanza.
Australia abbassa gli occhi sul pavimento e borbotta qualcosa di intelligibile. “Oh, dai, smettila di fare l’uomo duro!”. India scoppia a ridere, e Panjabi le si avvicina ballonzolando e facendo gemere le assi del pavimento. “Per una volta puoi anche dire quello che provi, la cosa non ti renderà meno virile”.
Thomas scuote la testa. “Non è per quello. E’ che… sono preoccupato per la mia famiglia, ecco tutto”. L’uomo sente mancargli il respiro, ma non per un nodo alla gola; abbassa lo sguardo e nota con profondo stupore che Panjabi gli ha posato la testa contro il petto e lo sta fissando, quasi come se gli dispiacesse per lui. “E anche per i miei animali”, aggiunge in fretta.
Parveen sorride, ma i suoi occhi neri non fanno altrettanto. “Ti capisco, sai?”, dice, alzandosi in piedi ed avvicinandosi di nuovo alla finestra. Nel cielo sereno splendono le stelle, ma anche sul mare oltre la fortezza in cui sono rinchiusi brillano numerose luci. “Anche io temo per la mia patria. E starcene qui, impotenti, con le navi di Giappone che ci tengono sotto tiro…”. La donna rabbrividisce, e non certo per il freddo.
“E’ inquietante come la guerra cambia le persone, vero?”, le fa eco Australia, accostandosi a lei. Fra i due si frappone Panjabi, come al solito elettosi guardiano protettore della propria padrona. “Io me lo ricordo Giappone, qualche tempo fa; era un ragazzo così tranquillo e a modo… Eppure guarda che cosa ha fatto a Cina”.
“Non credo che si sia ancora ripreso”. La voce di India è incolore, ma è ovvio che anche lei sia scossa dall’argomento. “D’altronde, considerava Giappone come un figlio… Immagino sia difficile per chiunque riuscire a superare l’idea che la propria discendenza compia un’azione tanto tremenda e deprecabile”.
“La sua discendenza, eh?”, ripete Australia con un mezzo sorriso. “Un po’ come noi per Inghilterra, insomma?”.
La donna solleva il mento con aria altezzosa. “Io non sono sua figlia”, dice. “Al massimo la sua schiava”.
“Eppure ti chiamano ‘la perla dell’Impero’, o sbaglio?”.
Parveen incrocia le braccia. “Sarei ben felice di essere la perla di me stessa, tante grazie”.
Qualsiasi possibile risposta di Australia, però, viene interrotta dall’ingresso di Inghilterra nella stanza. L’uomo ha un’aria sfatta, le folte e cespugliose sopracciglia aggrottate sotto l’ampia fronte, e un lembo della camicia che gli esce dai pantaloni. “Sono riuscito a metterlo a letto”, dice con voce flebile, dopo aver atteso per qualche secondo una reazione da parte dei due sottoposti. “Non… non ha voluto lasciarmi la mano fino a che non si è addormentato”, aggiunge poi in un tono ancora più debole, mentre crolla su una sedia. Le sue dita appoggiate al tavolo sono scosse da un tremito intenso, e sembra sul procinto di svenire da un momento all’altro. Dopo un paio di minuti di silenzio, in cui la tensione sembra materializzarsi progressivamente fra i tre come una ragnatela collosa che rende pesanti i movimenti, la schiena di Inghilterra sembra cedere, e il giovane si ingobbisce sul tavolo, il volto fra le mani. “Vi prego, ditemi che sto facendo la cosa giusta…”, mormora con un filo di voce.
India solleva il mento e gli indirizza uno sguardo torrido. “Lo sai? Mi fai davvero schifo”.
Australia sobbalza e si tende verso la donna. “Parveen, non mi sembra il caso di…”.
“No, ho iniziato e adesso voglio finire”, ribatte lei. Inghilterra è ancora nella stessa posizione, ma attraverso le dita socchiuse i suoi occhi lucidi scintillano alla luce delle lampade ad olio. “Ce lo stai chiedendo perché vuoi sentirti meglio, eh? Dopo qualche secolo passato a rovinarci la vita ti sei finalmente accorto di essere stato un idiota e non riesci a vivere con questo peso? E vorresti che noi ti dicessimo che va tutto bene, da bravi schiavetti. Che stai facendo la cosa giusta a proteggere Singapore da Giappone. Beh, lascia che te lo dica…”. La donna prende un profondo respiro, durante il quale nella stanza regna un perfetto silenzio. “E’ vero. Stai facendo la cosa giusta. Perché potrai essere una persona disgustosa e tremendamente arrogante, però… Però non abbandoneresti mai qualcuno che dipende da te”. Panjabi emette uno sbuffo dalle narici dilatate, a sottolineare il pensiero della padrona.
Le mani di Inghilterra, pallide e rigide come ghiaccioli, tornano a posarsi sul tavolo. Il viso del giovane uomo è ancora stanco e provato, ma agli angoli della sua bocca, timidamente, si annida un’ombra di speranza. “Grazie”, dice, in un tono flebile ma più fermo rispetto a pochi minuti prima. “Ne avevo bisogno”.
India incrocia le braccia al petto e sposta lo sguardo verso la finestra. “Di essere insultato? Quando vuoi”.
Australia si schiarisce la voce. “Anche… anche io!”, esclama. Gli altri due – tre con Panjabi – lo fissano con aria un po’ smarrita. “Cioè, insomma… Anche io sono d’accordo. Sul fatto che dobbiamo proteggere Rifki, dico. E anche se India dice di no, secondo me noi siamo davvero come una famiglia. E in una famiglia ci si dà una mano a vicenda. Ecco”.
Sul gruppo scende di nuovo il silenzio. A poco a poco il volto di Inghilterra si distende e le sue palpebre gli si chiudono, come se si fosse appisolato; o così almeno pensano India e Australia, finché il loro padrone non apre di nuovo la bocca. “Ho preso la mia decisione”, dice, e la sua voce, anche se debole, vibra di fermezza. “Ho deciso che non accetterò la richiesta di Giappone e continuerò a difendere Singapore”. Un momento di silenzio. “Ma voi, ecco… Voi siete liberi di fare ciò che volete. Australia ha ragione, noi… Siamo una famiglia, più o meno, e…”.
“Su questo dissento”, ci tiene a precisare India, ma con meno convinzione o astio del solito.
“…e non posso obbligarvi a combattere le mie battaglie. Cioè, in effetti potrei; insomma, siete comunque le mie colonie e so benissimo che non mi pugnalereste alla schiena come ha fatto quell’imbecille di Alfred…” (nel nominare America le sopracciglia di Inghilterra si contorcono in maniera bizzarra, come vittima di un attacco epilettico) “Voglio dire, non siete abbastanza forti per ribellarvi contro di me. Ma anche se decideste di restare in realtà non so neppure di quale aiuto potreste essermi…”.
Australia si concede un discreto colpo di tosse. “Capo, ehm… non vorrei dirtelo, ma stai più o meno rovinando ciò che di buono abbiamo detto negli ultimi cinque minuti”.
“Posso picchiarlo?”, domanda India in tono neutro. “O almeno fargli tirare una testata da Panjabi?”. Il vitello emette una breve nota cupa, come per rendere noto ai presenti che sì, lui una testata la tirerebbe ben volentieri.
“Ehi, mi stavo solo limitando a sottolineare ciò che è ovvio!”, risponde Inghilterra incrociando le braccia, quasi che sia lui in diritto di sentirsi offeso. “Comunque, ripeto, voi fate pure quello che volete”.
Gli altri due si scambiano un’occhiata. “Restiamo, che domande”, ribatte India. “Ma…”.
La donna, intenta ad esaminarsi le unghie curatissime, il labbro superiore arricciato e le lunghe ciglia strette in uno sguardo critico, scaccia la debole protesta come se fosse una falena fastidiosa. “Ah, ma non credere che io lo faccia per te! E’ per Singapore, che ho deciso di rimanere. Non credo riuscirei a dormire sapendo di aver abbandonato quel povero ragazzino nelle mani di uno come te”.
“Io sono d’accordo con lei”, interviene Australia. “Cioè, sulla questione del rimanere, dico. Non tutto il resto”, si affretta poi a precisare.
“E la mia opinione, non la chiedete?”. Le tre persone – per non parlare del vitello – si voltano sorprese verso la porta; Singapore è lì in piedi, l’uniforme verde oliva tutta stropicciata che sembra ora più che mai un improvvisato pigiama.
“Rifki!”, esclama Inghilterra, che si alza di scatto senza preoccuparsi della sedia che striscia sul pavimento in una serie di note stridenti. “Dovresti essere a letto”.
Il ragazzino lo fissa con aria accusatoria e – in effetti – un po’ assonnata. “Non riuscivo a dormire”, dice in tono secco. “E infatti state parlando di me, come pensavo. Senza chiedermi niente”.
Arthur rimane in piedi, insicuro su cosa dire. “In un certo senso ha ragione, sai”, interviene India, che non è disposta a lasciarsi sfuggire un’occasione per punzecchiare il proprio superiore. “In fondo è per lui che tutti noi siamo qui, no?”.
Thomas allunga una mano verso la sedia vuota accanto a lui e ci batte sopra con aria incoraggiante. “Forza, Rifki, vieni a sederti”.
Il ragazzino si accomoda, e dopo qualche secondo anche Inghilterra torna a sedersi, sul volto di nuovo un’espressione sconvolta e sconcertata. “M-ma… mi avevi detto che volevi che ti proteggessi…”.
Singapore scuote leggermente la testa. “E tu hai detto che ci sono delle promesse che non sei più in grado di mantenere”.
“D’accordo, però…”.
“Ci ho pensato, da quando siamo rientrati nel forte”, lo interrompe Rifki, senza una minima variazione del proprio tono quieto. “Siamo in guerra, giusto? Ed è una guerra che riguarda tutto il mondo, non soltanto me. Quindi è vero: alla fine io… sono solo uno dei pezzi. E uno nemmeno tanto grosso, mi sa”.
Inghilterra si gratta una delle sue poderose sopracciglia. “Non dire così, è…”.
“Certo che per essere così piccino sei davvero molto maturo, eh, Rifki?”, stavolta ad intervenire è India, che appoggia una mano sulla testa del ragazzino. “Non come qualche bambinone che si atteggia ad adulto di mia conoscenza…”, e lo sguardo della donna viene indirizzato ovviamente ad Arthur, che aggrotta la fronte sulla difensiva.
“E quindi che stai suggerendo, Parvati? Di cederlo a Giappone senza nemmeno lottare?”.
“No”. Tutti si voltano verso Australia, che risponde allo sguardo dei tre arrossendo un po’. “Cioè, ho capito cosa intende India. Insomma… E’ giusto voler proteggere Singapore, però… Ecco, sarebbe ancora più giusto lasciare decidere lui”. Fissa la donna in cerca di approvazione. “Ho ragione, vero?”.
Lei annuisce. “Quantomeno, credo sia giusto sentire la sua opinione, ora che è qui”.
Singapore attende qualche secondo prima di prendere la parola, come se stesse raccogliendo i propri pensieri. “Io… Io credo sarebbe meglio se mi lasciassi prendere in custodia da Giappone. Aspetta”, si affretta ad aggiungere, vedendo Inghilterra aprir bocca per prendere la parola. “Lasciami finire. Giappone ha detto che se mi arrenderò non mi farà alcun male, giusto?”.
Arthur, stavolta, riesce a sovrapporre la propria voce a quella dell’altro. “Sì, ma guarda che cosa ha fatto a Cina!”.
“Quello è un altro discorso”, risponde Rifki, e il tono è fermo nonostante le mani gli tremino leggermente. “Se c’è una cosa che Giappone non fa, è venire meno a una parola data. E’ sempre stato un individuo d’onore… prima della guerra, almeno”. Il ragazzino sospira, dondolando i piedi dalla sedia. Alle altre tre nazioni non è mai sembrato tanto piccolo come in quel momento. “E comunque questa è una guerra mondiale. Io… Anzi, nessuno di noi è importante quanto la pace di tutto il mondo, giusto? E mentre voi siete qui a proteggere me magari potreste combattere delle battaglie molto più importanti, là fuori…”. E’ evidente che Singapore sta facendo di tutto per trattenersi, ma un paio di lacrime silenziose riescono lo stesso a farsi strada dai suoi occhi giù per le guance. “Non voglio sentirmi responsabile per il mondo. Non voglio che per colpa mia perdiate la guerra”.
Sui presenti cala il silenzio per qualche minuto, interrotto solo dal quieto russare di Panjabi che si è appisolato con la testa sul grembo della sua padrona.
“E’ questa la tua risposta?”, domanda alla fine Inghilterra. “Ne sei sicuro?”.
Rifki solleva i suoi occhi scuri e li fissa in quelli del suo padrone, e per la seconda volta quel giorno Arthur prova il desiderio di distogliere lo sguardo. “Sì. Ne sono sicuro”. E Inghilterra sa che è vero.


Il volto di Giappone è impassibile e la sua divisa immacolata quasi splende al pallido sole di Febbraio. Mentre camminano verso di lui, Singapore stringe la mano di Inghilterra un po’ più forte.
“Certo che ha una faccia seria un casino”, Arthur sente bisbigliare Australia da dietro.
“Sssh! Almeno in un momento del genere tieni a freno la lingua”, lo rimprovera India.
Inghilterra è ormai a pochi metri da Giappone, e si fa avanti lasciando Rifki alle proprie spalle, forse in un ultimo tentativo di proteggerlo. “Dobbiamo proprio, Kiku?”, domanda.
L’asiatico non muove un sopracciglio né cambia posizione. “Mi dispiace, Kirkland-san”, dice in tono marziale. “E’ la guerra”.
Come se questo giustificasse tutto, eh?, “Già. La guerra”. Un momento di silenzio. “Non eravamo così, una volta, vero?”.
“Tu eri anche peggio”, ne approfitta per rimarcare India.
“Chi è che dovrebbe tenere a freno la lingua?”, borbotta Australia.
“Ehi, me l’ha servita su un piatto d’argento!”.
“Già”, risponde Giappone. “Ma prima era diverso”. Per un attimo la sua maschera scivola e le parole gli escono di bocca con una sfumatura più malinconica del previsto, ma l’uomo è lesto a tornare impassibile. “Forza, vediamo di concludere”.
Inghilterra si volta verso Singapore. “Te lo chiedo per l’ultima volta: ne sei sicuro?”.
Il ragazzino annuisce e fa per affiancarsi a Giappone, ma Arthur gli afferra di nuovo una mano. “Aspetta. C’è un’altra cosa. Questo… questo non è per sempre. Anche se ora devi andare con lui, ti prometto che noi continueremo a combattere anche per te. Continueremo a combattere, e vinceremo; e quel giorno, tu tornerai ad essere libero”.
“Se per ‘libero’ intendi sotto di te…”, puntualizza India, e questa volta Australia si sente autorizzato a tirarle una lieve gomitata.
Per un attimo Singapore rimane immobile, poi si volta verso Inghilterra e un leggero sorriso, come quello della sera prima, gli illumina il volto. “E’ una promessa?”, domanda.
Arthur ci pensa un attimo. “Sì. E’ una promessa”.
E questa è una promessa che devo assolutamente fare in modo di mantenere.

  
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