Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: Kuri    27/12/2010    3 recensioni
«Stanno per terminare i quattrocentonovantanove anni della tua attesa, Yūko.» la voce di Haruka era gentile, ma ferma «Lui deve morire, il kaimyo è già stato scritto.» Yūko fissò la tavoletta di legno nascosta. Una raffica più forte di vento staccò un lembo del fazzoletto che la copriva.
«Sei pronta?» le chiese Haruka, rivolgendole un’espressione di infinita e malinconica dolcezza «È ora di andare. Il suo destino e il tuo devono compiersi. Nuovamente.»
«No.»
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Haruka Doumeki, Kimihiro Watanuki , Yūko Ichihara
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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WARNING: (mancava tra le opzioni, quindi lo metto qui) tutte le parole che seguiranno, sono DELIRIO allo stato puro. Fine a sé stesso, le follie di una povera fangirl stagionata che è stata completamente rapita dalla magia di Holic.
Questa storia inizia molto tempo fa, all’altezza del numero 12, più precisamente della sua fine. Sfido chiunque a non aver udito il proprio cuore fare "crack" per la dolorosità di quelle ultime scene. Poi il tempo è trascorso, i numeri sono andati avanti e c’è stata la fine di Tsubasa e la scomparsa di Yūko e quell'insistente domanda: come potrà mai andare a finire Holic? T.T
Questa storia non è uno spoiler. Ma sono assolutamente convinta che tutta la vicenda di Holic finirà così, adesso ne ho la certezza, e questo mi manda assolutamente in paranoia.
È definitivo: le Clamp vogliono vedere i loro fan soffrire atrocemente (X docet).
Enjoy!






Al nostro crocevia ci sono fantasmi





L'aria sembrava invasa da una sottile bava di fumo che si ripiegava nel buio della notte in curve infinite e contorte, quasi fosse un bozzolo che imprigionava tutta la città addormentata. Ogni cosa appariva sprofondata tra le pieghe morbide del riposo. Dai palazzi e dalle case non proveniva alcuna luce, tranne il flebile scintillio delle lucine per i bimbi, accese per scacciare i brutti sogni, e il lampeggiare sonnacchioso delle spie degli elettrodomestici.
Ogni creatura dormiva, abbandonata al flebile profumo trasportato dalla bava di fumo. Portava con sé un sentore di buono, di vecchi ricordi ritrovati, di secche giornate di sole e di neve che impregnava morbidi abiti di lana.
La bava di fumo si insinuava tra le fronde degli alberi, accarezzandone le foglie. Scivolava lungo gli steccati, intrecciandosi alle venature del legno e solleticandosi contro la superficie ruvida della calce dei muretti.
In alcuni punti sembrava disperdersi incerta, per poi proseguire più decisa nei propri ricami carezzevoli. Nel suo percorso tracciava un'infinità di disegni fantastici, figure che si animavano per descrivere qualcosa che accadeva da sempre tra i risvolti della realtà. Epici scontri, leggende lontane, destini inevitabili.
Giunta agli scalini di pietra che portavano al cortile del tempio, la bava di fumo sembrò tentennare, come se risalire quei pochi gradini costasse una fatica immane alla sua fatua leggerezza. Tuttavia, come richiamata, si srotolò con più forza, fino ad attraversare tutto il cortile deserto ed addormentato. Petali di fiori di ciliegio formavano un tappeto morbido e profumato e, seppure nel buio, splendevano di un rosa delicato. La bava di fumo indugiò su quella distesa frusciante come una vecchia signora vanitosa di fronte ad una vetrina.
Ma il richiamo, che prima era sembrato solo un sussurro in mezzo a milioni di altre voci, si gonfiò come l'ululato del vento sul mare d'inverno, e strappò la bava di fumo a quelle pigre volute e la trascinò verso l'edificio debolmente illuminato al centro del cortile. Qui, sul piccolo porticato, una figura stava in piedi immobile, in attesa. La bava di fumo sfiorò la consistenza lucida e cangiante della seta, si avvolse ai ninnoli lucenti e accarezzò capelli più neri di quella notte immersa nel sonno. Infine con un pigro stiracchiamento si insinuò nella sottile fessura tra il tatami e la porta scorrevole, lasciando che la propria fragranza riempisse l'aria.
Yūko fece scorrere la porta della stanza del tempio con un gesto della mano e sorrise, seppure le sue labbra, nel piegarsi, non sembrassero sincere.
«Buonasera, Haruka-san.» disse entrando nell'ampia stanza.
L'uomo le sorrise di rimando, inclinando appena la testa. Sembrava che la stesse aspettando. Reggeva in una mano una sigaretta da cui si levava una sottile bava di fumo ed indossava uno yukata rigoroso, da cerimonia funebre. Era seduto a terra su un cuscino, alla sinistra di un grande tronco di ciliegio che sembrava immergere le proprie radici direttamente nelle fibre del tatami, ma non pareva turbato per la presenza dell'albero al centro della stanza. Al contrario, piegò la mano libera in un gesto elegante e gentile, indicandole un secondo cuscino dalla raffinata fodera dorata di fronte alla pianta. Yūko vi si accomodò con attenzione, facendo in modo che l'enorme fiocco dell'obi ricadesse senza spiegazzarsi.
Adagiato al tronco dell'albero, trattenuto da sottili strisce di stoffa che cadevano dall'alto, si trovava un piccolo altare commemorativo su cui era appoggiata un ciotola di riso con le bacchette conficcate verticalmente e una foto incorniciata. Yūko non riuscì a scorgere il volto della persona del ritratto. Un riflesso luminoso, abbagliante come il sole di mezzogiorno in piena estate, le impediva di vederne i tratti sopra la divisa scolastica ben stirata.
Sapeva che, in qualsiasi punto della stanza si fosse trovata, quel riflesso non le avrebbe consentito di scorgere il viso ritratto nella foto, sebbene sapesse esattamente a chi apparteneva.
Quattro candele bruciavano agli angoli della stanza, disegnando sul viso di Yūko profonde ombre nere, che ritagliavano il profilo delle sue guance pallide come una maschera.
«Buonasera a te, Yūko-san.»
Le parve che il saluto del giovane uomo giungesse a lei da un tempo lontanissimo, alle soglie del termine del mondo.
Si inginocchiò sul cuscino e guardò l’altare spoglio di fronte a sé. Poi sfilò un lungo bastoncino d’incenso da una scatola di legno laccato, accompagnando con la mano libera il fluido svolazzare della manica del kimono. Quando lo avvicinò alla fiamma della candela posata sull’altarino, questo parve sprigionare un vago odore zuccherato, come di torta soffice ricoperta da una croccante glassa rosa. A Yūko sembrò di sentire la grana sottile dello zucchero scivolarle tra i denti.
Con un altro movimento elegante delle braccia posizionò l’incenso nella bacinella ricolma di sabbia chiara che si trovava di fronte all’altare. Al momento di ritrarre la mano, un petalo di ciliegio le sfiorò il dorso con una carezza leggera. Il suo sguardo rossastro si soffermò sulle lunghe dita bianche, pensieroso.
«Il muso lungo non ti si addice, Yūko.» la voce di Haruka scivolò tra di loro sincera e asciutta come il fumo della sua sigaretta.
Yūko gettò lo sguardo su quell'anima saggia in tempo per vedere che le porgeva un piccolo bicchiere di ceramica da cui arrivava l'odore aspro del sakè.
«Hai perfettamente ragione. Lui lo detesterebbe.» e dopo aver sollevato lievemente il bicchiere di fronte al proprio volto ne ingollò un sorso caldo e pungente.
Yūko sollevò lo sguardo verso la chioma frondosa del ciliegio. I petali rosati, così come il soffitto della stanza, sembrava essere stato ingoiato da una voragine nera. Ma la strega sapeva bene che era solo una delle tante regole dei sogni e non provò angoscia per il buio profondo che li sovrastava.
«Non sei preoccupata di essere qui?» la domanda che Haruka le rivolse era intrisa di tenerezza.
Lei scosse leggermente la testa.
«Sarebbe ridicolo che io fossi preoccupata, non trovi? E poi non gioverebbe al mio appeal.»
Haruka sogghignò appena con felicità sincera, coprendosi la bocca con la mano che stringeva la sigaretta e la guardò con complicità.
«Hai ragione. Sarebbe a dir poco disdicevole.»
Lo spirito si sporse verso l'altare e prese un bastoncino d'incenso. Le maniche dello yukata si mossero come in una danza. Appena avvicinò l'incenso alla fiamma della candela, da questo si sprigionò una fragranza piena e avvolgente, come un gomitolo di lana caldo che, ritorto su sé stesso con pazienza, prende nuove forme.
Il secondo bastoncino d'incenso prese posto accanto al primo, di fronte all'altare.
Yūko lasciò che il proprio sguardo scivolasse lungo le pareti di carta della stanza. Aldilà dei pannelli color crema si avvertiva un intenso movimento e il suono di molti campanelli, come se una lunga, lenta processione si stesse snodando nel cortile fino a poco prima coperto. Poteva quasi sentire il delicato brusio di parole pronunciate sottovoce e dei passi tristi che si avvicinavano.
«Oggi siamo al crocevia dei legami che lui è riuscito a costruire. So che avverti benissimo il loro potere. È straordinario come sia riuscito a farlo, pur essendo un semplice ragazzo.»
Yūko voltò nuovamente la testa per incrociare lo sguardo intenso e allo stesso tempo sereno di Haruka. Annuì brevemente, in silenzio.
«E solamente con le proprie forze, malgrado la magia di cui è in grado. L'umanità che ha compreso di possedere non gli potrà essere strappata così facilmente, e credo che questo l'abbia finalmente compreso» proseguì Haruka.
Yūko allungò nuovamente il braccio verso l'altarino e sfilò un terzo bastoncino d'incenso.
Appena sfiorò la fiamma della candela, l'aria si riempì dell'odore ricco di oden appena fatto, del calore soffuso di bancarelle ambulanti. Una delle fronde più basse dell'albero si mosse, accarezzata dal sottile filo di fumo dell'incenso.
Stettero in silenzio per molto tempo, immobili sui propri cuscini, con i visi pensierosi rivolti verso l’altare. Solo Haruka di tanto in tanto si portava alla bocca la sigaretta che non si consumava mai, ed espirava con calma, lasciando che l’aria defluisse dalle labbra sottili.
Poi, il suono di campanelli fuori dalla stanza del tempio si fece più forte, come se una violenta raffica di vento avesse frustato quello spazio nero ed infinito in cui era adagiato il sogno.
Haruka voltò pigramente il viso verso la porta della stanza.
«Sta arrivando.»
Il vento aumentò ancora, filtrando attraverso la cornice della porta con un sibilo acuto. Le sottili pareti di carta iniziarono a vibrare e le fronde del ciliegio erano scosse da tremiti potenti.
«È qui.»
Yūko non si voltò e chiuse le palpebre dalle lunghe ciglia scure.
Poteva udire piccoli passi timorosi avvicinarsi alla porta alle sue spalle, quasi avessero paura di sfaldare, con il loro peso, la soffice consistenza del sogno.
Il gemito del vento aumentò e con esso il rumore assordante e furioso di una moltitudine di campanelli.
«Eccola.»
Quando la porta si aprì, ogni suono cessò. Anche il fumo che saliva dai bastoncini d’incenso immersi nel braciere tacque.
Yūko voltò il capo sopra la spalla. Una bambina era in piedi sulla soglia e stringeva tra di loro le piccole mani guantate con una compostezza un po’ rigida.
«Buonasera Kohane-chan.» l'esclamazione di Haruka aveva un tono amichevole mentre le indicava, con un gesto della mano, un cuscino vuoto alla destra dell’albero «Sono felice che tu sia riuscita a trovare la strada, ti stavamo aspettando.»
«Buonasera.»
Yūko sentì il fruscio degli abiti che indossava la bambina mentre questa le passava accanto per prendere posto. Si accomodò e posò i suoi grandi occhi scuri sulla strega.
«Grazie per essere venuta.» le disse facendo un cenno con il capo.
Kohane le rispose con un pallido sorriso. Sembrava profondamente addolorata, schiacciata dalla pesante sensazione di lutto presente nella stanza.
Yūko allungò verso di lei la scatola degli incensi, affinché potesse prendere un bastoncino e rendere omaggio. La notte di veglia era ancora molto lunga.
Appena questo fu appoggiato sopra la fiamma, si sprigionò un aroma fresco e avvolgente, come quello delle giornate torride di sole trascorse al mare, tra gli spruzzi salati dell’acqua e il riverbero incandescente della luce.
Il viso piccolo e delicato di Kohane si contrasse in una smorfia dolorosa, come se il cuscino su cui si era accomodata fosse stato ricoperto di spine.
«Non piangere, Kohane-chan.» le disse Haruka con un sorriso gentile «Non gli piacerebbe vederti così. Lui ti ha voluto molto bene e, anche se non sembra, te ne vuole ancora adesso. Semplicemente, tutto quello che è accaduto era inevitabile.»
Kohane strinse i pugni sulle ginocchia, stropicciando la stoffa della giacchetta tra le dita nervose.
«Lo so. Ma anche se io capisco, qui…» si portò una delle mani al centro del petto e chiuse gli occhi, come se avesse potuto avvertire il grido di dolore che saliva da lì.
Yūko distolse lo sguardo dalla ragazzina e lo puntò di fronte a sé, sull’altarino ai piedi del ciliegio.
Avrebbe voluto tanto vedere quella foto. Lei, che aveva tessuto le trame dei sogni e delle volontà, lo desiderava disperatamente. Voleva trattenere tra le mani, per il poco tempo che lo scorrere del fato le avrebbe ancora concesso, il frammento di purezza che era il ricordo di lui.
Cercò di alzare una mano per portarsela al viso, ma non ci riuscì. Una leggera pressione la costringeva a tenerla ferma, appoggiata alla gamba. Abbassò lo sguardo. Un lungo nastro bianco le stringeva il polso. Non serviva che guardasse da dove arrivava la sottile striscia di stoffa, perché i suoi occhi si sarebbero persi nel vuoto.
«Lui aveva capito quello che stava accadendo in te, Kohane-chan.» Haruka riprese a parlare, tra una boccata di fumo e l’altra «Ed è anche per questo che ha deciso di isolarsi. Non poteva tollerare l’idea di provocarti tanto dolore.»
«Tuttavia…»
Yūko chiuse gli occhi appena sentì il singhiozzare fragile di Kohane. Comprendeva bene lo strazio di quelle lacrime. Avrebbe desiderato abbandonarvisi anche lei, ma il trascorrere del tempo l’aveva privata di quello che serviva per piangere.
Sentì una nuova pressione sul proprio avambraccio e riaprì gli occhi. Una striscia nera le avvolgeva la manica del kimono, immobilizzandola.
«È per questo motivo che sei venuta qui con le tue sembianze da bambina, vero?» le domande di Haruka costrinsero Kohane a sollevare il capo «Perché ti ricorda un tempo in cui eravate insieme, ma senza soffrire.»
Lei annuì debolmente.
«Non avresti potuto fare nulla, Kohane-chan. Però so che lui ti è sempre stato molto grato per il tuo amore, me lo diceva sempre, durante i sogni. Si sentiva molto crudele ed egoista a trattenere quel sentimento per sé e non lasciarti libera, ma sosteneva che era l’unica cosa in grado di non farlo impazzire nell’attesa.»
Kohane scosse la testa.
«Lui non è mai stato crudele. È stata crudele l’attesa in cui è stato costretto a vivere in tutti questi anni.»
Le dita di Yūko tremarono impercettibilmente. Non aveva il diritto di giustificarsi per quelle parole. Avrebbe continuato a pagare attraverso ogni frammento della sua esistenza, com’era giusto che fosse.
«Quella è stata una scelta che loro hanno fatto consapevolmente.» disse Haruka. I suoi occhi scivolarono su Yūko, come anche lo sguardo di Kohane.
Yūko abbassò le palpebre. Più il tempo passava, più avvertiva la pressione di un numero sempre crescente di mizuhiki contro il proprio corpo.
E avevano sempre fatto consapevolmente la scelta sbagliata, nonostante il loro grande potere e la sconfinata lungimiranza. Avevano fatto soffrire moltissime persone e sebbene si fossero fatti carico di parte di quel prezzo, la ruota del destino che avevano messo in moto sembrava destinata a non doversi mai arrestare.
Un forte vento si levò improvvisamente nella stanza.
Yūko riaprì gli occhi. I capelli scuri le danzavano di fronte al viso come mille braccia urlanti.
La sua attenzione fu catturata da quella che sembrava una forma solida nascosta da un fazzoletto candido alla base dell’altare. La stoffa si muoveva furiosamente, frustata dall’aria che ruggiva tra le fronde invisibili del ciliegio.
«Stanno per terminare i quattrocentonovantanove anni della tua attesa, Yūko.» la voce di Haruka era gentile, ma ferma «Lui deve morire, il kaimyo è già stato scritto.» Yūko fissò la tavoletta di legno nascosta. Una raffica più forte di vento staccò un lembo del fazzoletto che la copriva.
«Sei pronta?» le chiese Haruka, rivolgendole un’espressione di infinita e malinconica dolcezza «È ora di andare. Il suo destino e il tuo devono compiersi. Nuovamente.»
«No.»
Il monosillabo uscì dalle sue labbra sottili con infinita calma. Il vento sembrò aumentare d’intensità a quella risposta. Kohane premette i palmi delle mani contro le orecchie, singhiozzando sommessamente.
L’altare tremò e il fazzoletto bianco venne strappato via, risucchiato nel buio senza fondo che li sovrastava.
Quando vide il nome scritto con inchiostro scuro al centro della tavoletta, Yūko sentì il cuore dolerle al centro del petto in un affanno senza parole. Clow Reed.
Poi, la cornice si inclinò. Yūko strinse le mani chiuse nella morsa dei mizuhiki. Watanuki le sorrideva compito e serioso dalla fotografia, eppure sembrava davvero felice. Indossava la sua divisa scolastica scura, perfettamente stirata. [1]
«Questa volta non lascerò che tutto ricominci da capo. Ho fatto la mia scelta.»


***


Yūko aprì le palpebre lentamente. Tutto intorno a lei era silenzio e quiete.
Avvertiva sulla pelle un tepore gentile e l’aria trasportava l’odore della primavera.
Non aveva bisogno di sapere che giorno fosse, perché quel singolo giorno, indipendentemente dalla dimensione in cui si trovava, era immutabile ed eterno.
Era il giorno del loro destino, sigillato per sempre nel suo nome affinché si ripetesse attraverso le pieghe del tempo.
Sorrise. Si era risvegliata nella stanza dei tesori, circondata dalle cose che per secoli erano giunte lì da ogni dimensione, vestita del suo kimono preferito, quello con l’obi a farfalla.
Dall’esterno, la raggiunsero delle grida e un indistinto scalpicciare affannoso, diretto verso la stanza in cui si trovava.
Sentì il suo cuore fremere dall’emozione. E per la prima volta dopo tantissimo tempo, sebbene avesse vissuto quella scena un'infinità di volte, non sapeva cosa aspettarsi. Sarebbero stati tristi, o felici? E lui avrebbe capito e accettato la sua scelta?
Era quella l’unica cosa che le interessasse davvero, l’unico motivo per cui, sulla soglia del mondo degli spiriti, si era voltata e tornata indietro.
Per millenni avevano permesso al loro destino di ripetersi, insieme a quello di tutte le persone coinvolte inconsapevolmente in quella trama di dolore. Secolo dopo secolo, Yūko aveva incontrato Clow in un lontano passato, se ne era innamorata, era morta tra le sue braccia mentre lui pronunciava il suo sacrilego desiderio e, bloccata tra le dimensioni, era rimasta ad attenderlo quando lui era scomparso improvvisamente, senza neppure confortarla con un ultimo sguardo d’addio. Poi, se l’era visto comparire di fronte mille volte in una giornata di sole, in quello stesso spazio che lui aveva creato per custodirla, ma di cui ne era ignaro, perché non era altro che un ragazzino allampanato delle superiori senza passato e ricordi, creato dal desiderio di un altro ragazzo. Lo aveva cresciuto come uomo e come mago, era morta di nuovo e lui, dopo essersi liberato del vincolo del negozio per averla rivista, era tornato indietro illudendosi di poterla salvare, sicuro del proprio immenso potere.
Quante volte si erano ripetuti quei giorni strazianti?
Ogni volta non era riuscita ad ignorare quel ragazzo, o ad allontanare quell’uomo, a volgere il suo sguardo altrove.
Tutto quel dolore era preferibile all’assenza del suo amore.
Eppure.
Forse, era cambiato qualcosa anche dentro di lei.
La porta si spalancò di colpo. L’aria era satura del profumo dei fiori di ciliegio.
Maru e Moro stavano sulla porta ansimanti, con i piccoli visi rigati di lacrime, distorti in smorfie di pianto disperato. La guardarono, tremanti, incredule di poterla vedere ancora lì, tangibile e sorridente, uguale a come era sempre stata.
Yūko si chinò a terra e spalancò le braccia. Le bambine si staccarono dalla cornice della porta e si gettarono nel suo abbraccio, aggrappandosi alla stoffa del kimono, sincerandosi che fosse lei, vera, reale.
Poi udì i passi di lui sul tatami. Anche se aveva il viso affondato nelle spalle di Maru e Moro, sapeva che era lui e il suo corpo tremò.
«Bentornata.»
Sollevò la testa.
Nulla di lui era cambiato, eppure, nei suoi occhi, nel suo sorriso dolce e appena trattenuto con eleganza, c'erano già i tratti di Clow. Ogni volta che si era trovata a quel punto della loro storia, quando tutto era destinato a ripetersi di nuovo, aveva sempre provato il medesimo desiderio di allungare le proprie mani verso le sue, afferrarle, come una sé stessa più giovane avrebbe potuto fare di lì a poco in un passato lontano.
Era proprio per quel desiderio che tutto era ricominciato in eterno. I loro corpi e le loro anime erano stretti dai vincoli atroci dei mikuhiki e sembravano incapaci di liberarsene.
Lui avanzò di un passo.
Yūko sentì il respiro bloccarsi nella gola, con la dolorosa consistenza di un boccone amaro.
Una volta, le aveva chiesto qual'era il suo desiderio. Aveva preteso una risposta con la foga e l'irrazionalità che lo avevano contraddistinto quando era ancora poco più di un bambino, ma lei, per quello che era sembrato quasi un dispetto, non gli aveva risposto. Perché il suo desiderio era lì, in quel momento.
Voleva essere abbracciata da lui ancora una volta, come era accaduto in quel sogno, ma essere viva, essere fatta di carne e calore per poterselo ricordare per sempre.
Lui allungò una mano affusolata e gentile. Yūko distolse lo sguardo da quelle dita che la invitavano ad andare da lui e lo fissò con determinazione negli occhi, mentre le sue braccia stringevano ancora i corpicini di Maru e Moro a sé, come uno scudo.
«Sono stata via molto tempo.»
Lui sorrise gentile, come si era soliti fare con i bambini.
«Troppo tempo. Ma ho aspettato, vedi. Ho mantenuto fede alla mia promessa.»
«Non ne avevo dubbio. Mi sono sempre fidata di te.»
«Già.»
Si fermò e rimase ad osservarla. Yūko notò la delicata cura con cui il vestito di taglio cinese gli ricadeva lungo il corpo. Adorava quella sua eleganza, la stessa che aveva insegnato a lei, e che poi lei aveva trasmesso a lui. Le ricordava le giornate passate ad osservare i kimono che si asciugavano al sole, oppure quando lui le pettinava i capelli. Continuava ad aggrapparsi a quei cocci di ricordi che non smettevano per un istante di ferirla e di riaprire vecchie cicatrici.
«Però, in tutto questo tempo ho potuto ricordare una cosa, qualcosa che era stato tanto accuratamente sigillato nei miei ricordi che persino io, quando l'ho ritrovato, ho pensato che non mi appartenesse.»
Lui continuò a guardarla. Ascoltava tutte le sue parole con attenzione, come a poter colmare tutti quegli anni di solitudine solo sentendo il suono lento della sua voce.
«Però poi ho capito. Non è stato semplice, ma ho compreso a cosa servisse quel ricordo, anche se è stato terrificante capire quali sarebbero state le sue conseguenze, e quale prezzo avrei dovuto pagare.»
Lui si chinò, per poterla guardare meglio. Era così vicino che Yūko poteva sentire un leggero sentore di crema provenire dal suo corpo. Probabilmente, quando era arrivata, stava preparando una torta per le bambine.
«Sei stato tu a chiuderlo nei recessi della mia anima, lo sai?» la sua voce era dolorosa, ma non aveva più lacrime «Non è ancora accaduto, ma lo farai, nel passato.»
«Non ti capisco, come sempre, ma non importa.» le rispose sorridendole «Sarai sempre un istante avanti a me, Yūko. Ma io ho promesso di seguirti, per sempre, perciò la cosa non mi preoccupa.»
Lei scosse la testa con mestizia. Il peso di tutti i passati, e il vuoto immenso del futuro, le grava già sul cuore.
Eppure, la scelta era stata fatta e sarebbe stato ridicolo che proprio lei inducesse la propria codardia a farla tentennare.
«Tu hai sigillato il mio vero nome, affinchè io non lo potessi usare per porre fine a tutto questo.»
Strinse più forte a sé le bambine, che la guardavano con gli occhioni spalancati e colmi di terrore.
Lui invece chiuse le palpebre e scosse piano la testa. Anche se non era ancora divenuto il Clow che aveva dato il via a quell'intrecciarsi di desideri e di speranze già morte, il suo potere gli aveva consentito di capire.
«Ti prego, no. Non adesso che ti ho ritrovata. Non adesso.»
«Mi dispiace, ma devo farlo.» il respiro le scivolò fuori dalle labbra con un moto di sofferenza, anche se era solo l'anelito di uno spirito «Però... grazie. Anche se abbiamo condannato alla sofferenza tutti i mondi per puro egoismo, sono felice di averti incontrato.»
«Yūko...» lui si protese lentamente, allungando le braccia sottili verso di lei, in un abbraccio che l'avrebbe inglobata, insieme a Maru e Moro, nell'unico piccolo universo d'amore che aveva mai conosciuto e per cui era vissuta e morta.
Ma lei scosse la testa, mentre le labbra le si piegavano nell'ultimo sorriso che poteva donargli.
«No, mi dispiace, il mio nome è...» lo guardò per l'ultima volta e in quel semplice sguardo riversò tutto l'amore e il rimpianto che provava per lui «Tsubasa
«No!»
Lei sentì il proprio corpo sfaldarsi appena quella parola uscì dalle proprie labbra. Le braccia di Maru e Moro attraversarono quell'improvvisa inconsistenza e si intrecciarono tra di loro, mentre le bambine esalavano un respiro di orrore e quello che rimaneva dello spirito di Yūko si infrangeva in mille schegge multicolori che si dispersero nell’aria, come farfalle.


***


Il sole inondava la strada con un biancore abbacinante, sfumando i dettagli delle cose.
Lui camminava con passi lunghi e lenti, lasciando che il calore dell’aria lo avvolgesse e i suoni che provenivano dalle case ai lati della stradina stretta lo raggiungessero con l’eco dolce di un richiamo.
Conosceva bene quel percorso solitario e tranquillo, l’aveva fatto migliaia di volte. Eppure, nel ripetere quell’azione che aveva assunto il conforto ripetitivo della quotidianità, ogni volta il suo sguardo coglieva un nuovo particolare. Una crepa su un muretto, una bicicletta parcheggiata accanto un cancello dipinto di verde, un nuovo bocciolo sul ramo di un albero che si allungava sopra la strada.
Si riavviò con una mano i capelli corvini raccolti in un codino.
Lei continuava a ripetergli con dolcezza che lo facevano sembrare molto più vecchio della sua effettiva età e terribilmente serio, ma lui eludeva ogni volta il discorso con un sorriso e dopo averla raccolta tra le braccia la faceva ballare sul ritmo di una musica immaginaria. Allora, le risate di lei riempivano l’aria e lui avvertiva una stretta al cuore sottile e infida, come se questo fosse stato avvolto da un filo arroventato.
Appena voltò l’angolo, gli parve di sentire la voce di lei provenire da oltre il muro candido che circondava la casa. Stava cantando una canzoncina senza senso, una buffa filastrocca da bambini, in cui le parole si inseguivano velocemente lungo il fluire delle note.
Quando arrivò al cancello spalancato, lasciò che il suo sguardo percorresse il giardino con discrezione. Adorava coglierla di sorpresa, imprimere nella propria mente i piccoli gesti che faceva quando non sapeva di essere osservata. Gli sembrava così piccola e fragile, in quei momenti, che non riusciva a capire come, in un passato che ora gli appariva lontano, le persone avessero potuto sentirsi intimorite dalla sua presenza e dal suo potere.
Lei era seduta sui gradini del portico della casa e canticchiava semplicemente con le braccia strette al grembo e gli occhi puntati contro il cielo, godendo della luce del sole e dell’esplosione della primavera.
Kohane era così diversa da… .
Watanuki chiuse appena gli occhi. Non era il ricordo ad essere doloroso, quanto la dimenticanza. Certo, non avrebbe mai potuto perdere memoria della donna che aveva allacciato il proprio destino con il suo lungo tutte le volute che il tempo aveva creato e che loro stessi avevano determinato con i loro desideri. Eppure, a volte, quando si trovava in compagnia di Kohane o di Doumeki, o quando rivedeva Himawari, si scopriva a non pensare a lei. E in quell’istante lo assaliva un cocente senso di colpa, un sentimento così umano e fragile che si fermava a fissarlo quasi con orrore, come se non lo riconoscesse.
Erano passati quasi due anni da quando il tempo aveva ripreso a scorrere.
Non indossava più gli abiti di Yūko e il negozio era semplicemente scomparso, insieme a Maru e Moro. La sua magia e Mokona però erano rimaste e il suo potere si era accresciuto sempre di più. Tuttavia, non sapeva cosa farsene perché, se non poteva più raggiungere Yūko nel tempo, la magia non serviva a nulla.
Era allora che si era sforzato di usare i suoi occhi per osservare la realtà. E quello che aveva visto l’aveva riempito di una strana curiosità, di gioia, e di infinita malinconia. Perché malgrado tutto, se avesse potuto veder esaurito un solo, piccolo desiderio, Watanuki avrebbe voluto vedere ancora le pieghe del kimono di Yūko, o la luce delle lanterne riflettersi sul nero dei suoi capelli, con gli stessi occhi di quando aveva diciassette anni, per potersi illudere che non un singolo istante fosse trascorso da allora e che il dolore fosse solamente un brutto sogno da cui svegliarsi.
Kohane abbassò gli occhi e appena lo vide la sua voce si spense, mentre le sue labbra si distendevano in un sorriso.
Ogni volta che lei lo salutava in quel modo, Watanuki si sentiva un essere infimo, perché approfittava di quel sorriso sincero e malinconico per sentirsi a casa. A volte gli sembrava di scorgere anche negli occhioni scuri di Kohane quella stessa consapevolezza, ma non ne parlavano, e ciò era sufficiente per negare l’esistenza di quella sensazione.
Kohane si alzò e le corse incontro, fermandosi davanti a lui con sguardo colmo d’amore.
«Hiro.»
Lui sollevò la mano e le spinse una ciocca dei lunghi capelli dietro l’orecchio, mentre lei arrossiva lievemente. Poi le raccolse le mani tra le sue e se le portò alla bocca, posando un bacio sulle nocche pallide delle sue dita. La sentì trattenere il fiato e pensò di non aver mai conosciuto qualcuno di più innocente e puro di lei, tranne forse la Zashiki-warashi. E si sentì fortunato, perché la medicina che il destino aveva avuto in serbo per lui, per lenire il dolore costante e implacabile che sentiva nelle viscere, era tanto dolce e piacevole da prendere.
«Ho bisogno del tuo aiuto, Kohane-chan.» lei sollevò lo sguardo, accigliandosi appena e lo fissò attentamente negli occhi «Ho bisogno che mi tagli i capelli. Sono arrivato al punto di non riuscire a vedere neppure le pagine dei libri che sto sfogliando, e temo che prima o poi camminando calpesterò Mokona perchè non l’avrò notata...»
Kohane rise. Non riusciva a capire perchè, ma quella piccola, semplice richiesta l’aveva riempita di una gioia infinita.
«Vieni. Ti sta aspettando anche la nonnina. Ci dirà se oggi è un giorno propizio per tagliarsi i capelli.»
Watanuki le strinse la mano mentre si lasciava trascinare all’interno della frescura profumata della casa.
«Sono certo di sì.»














[1] Ho cercato di inserire in modo bene o male coerente molti dei rituali che fanno parte dei funerali buddisti. Diciamo che il mio “bene o male” non è legato tanto al fatto di non essermi documentata per quanto mi è possibile, quanto al fatto che volevo che ogni elemento fosse pregno di significato all’interno del sogno, e suggestivo nel suo insieme. Comunque non credo di aver scritto delle castronerie orripilanti e prego chi ne sa più di me di correggermi.
Spiego solo tre cose:
kaimyo: è la tavoletta su cui il sacerdote scrive il “vero” nome del defunto, quello che lo accompagnerà nel mondo degli spiriti
mizuhiki: sono i nastri con cui si chiudono le buste per le offerte
quattrocentonovantanove anni: la tradizione dice che le anime attendono sulla terra per quarantanove giorni prima di lasciarla per sempre... considerata la veneranda età di Yūko, mi sembrava giusto farla aspettare un po’ di più XD

   
 
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