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Autore: princess_sparklefists    28/12/2010    3 recensioni
Prendete un ragazzo che si ritrova chiuso in una stanza, senza avere la più pallida idea di come possa esserci arrivato, anzi, a dir la verità, senza avere la minima idea di chi lui sia. Aggiungeteci una nanerottola che sembra essere assolutamente mentalmente spostata e, all'incirca, avrete ottenuto le premesse per il mio ultimo delirio.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con questo mio scritto mi propongo di raccontare quella che penso di poter definire senza troppe esitazioni come l'esperienza più bizzarra della mia vita, sebbene immediatamente prima dei fatti che mi appresto a narrare, io debba evidentemente essere stato vittima di un’amnesia, che mi ha privato di tutti i ricordi antecedenti all’inizio della mia narrazione.
 

***
Mi svegliai dolorante, cosciente soltanto del pulsante intorpidimento che mi invadeva il braccio sinistro. Dov’ero? Come ci ero arrivato? Chi ero? Uno sciame di domande sperdute bussò implorante alla mia mente.
Aprii gli occhi. Mi trovavo in una stanza con pareti, soffitto e pavimento dipinti di un grigio uniforme. Non ricordavo di esserci arrivato, quindi era piuttosto verosimile che mi ci avessero portato mentre ero privo di sensi. Una luce diffusa permeava l’ambiente, ma non riuscii a capire da dove provenisse. Faceva un caldo soffocante e l’odore di chiuso era insopportabile. Non si vedevano finestre, porte, botole o aperture di sorta, ma dovevano esserci; a meno che il malato di mente che mi aveva chiuso lì dentro non avesse sigillato la stanza dopo avermi lasciato lì. Osservai la camera: era totalmente spoglia, fatta eccezione per un mucchio di stracci a qualche metro da me, un orologio fermo e un grosso quadro, decisamente dozzinale.

La mia ricerca di una via di fuga venne interrotta dal brusco fuoriuscire di un paio di gambe da quello che avevo classificato come “mucchio di stracci”: e che, a quanto pareva era invece il mio compagno di prigionia. Mi avvicinai e scostai delicatamente le due coperte patchwork che lo nascondevano. Era una ragazzetta esile e pallida, dai tratti molto delicati, a cui non avrei dato più di sedici anni. Era impalandrata in qualcosa che passava sotto il nome di “felpa” semplicemente perché il solo pensiero di un vestito di pile era qualcosa di troppo grottesco. Sulla gamba destra delle ferite rimarginate da poco componevano i caratteri “#10010: Jodie”.
Sovrappensiero allungai una mano per ravviarle i capelli. Così lo vidi, il mio marchio, che pulsava sul braccio sinistro: “#10011: Joyce”. Non ero stato fortunato come la mia misteriosa compagna: i tagli erano purulenti, alcuni non si erano nemmeno rimarginati del tutto. Cacciai un urlo stridulo, che la svegliò. Spalancò gli occhi, terrorizzata. Non so perché, ma con i folti capelli biondi che si ritrovava mi ero immaginato avesse gli occhi chiari, e restai piuttosto contrariato nel vedere che li aveva di un castano melmoso, in modo del tutto irragionevole.

–Reee, ti sei svegliato- biascicò stiracchiandosi –Piacere, il mio nome è Jodie-. –Sai dove siamo?- le chiesi trepidante. –Non ne ho idea! Mi sono trovata qui, e se devo dire non ricordo neanche come ci sono arrivata. Re! Prima degli strani tizi ti hanno trascinato dentro, ma erano incappucciati e ho pensato fosse meglio fare finta di dormire-. –Da dove mi hanno trascinato dentro?-. –Dalla finestra, re?-. –Quale finestra?-. Dall’informe mostro felposo spuntò una manina pallida, tesa a indicare il dipinto. –Quello è un quadro- dichiarai, iniziando a dubitare della sanità mentale di quella ragazzina logorroica. –No, è una finestra. Guarda- squittì lei, alzandosi. Rischiai seriamente l’infarto quando la vidi piegarsi verso la tela, sparire gradualmente e ricomparire nell’acquarello, per poi fuoriuscirne indenne e con un ciuffo d’erba stretto trionfalmente nella mano. Incuriosito avvicinai anche io le dita al quadro. Niente, sotto i polpastrelli solo il colore rappreso e la ruvida tela.
Sentii un conato di vomito risalire lungo il mio essere, di pari passo con l’ondata di panico che mi invadeva la mente.. Sembrava che io e Jodie fossimo in stanze diverse, eppure nella stessa. –Re, Joyce, che diavolo c’è? Ti senti male?-. –Come sarebbe a dire “che diavolo c’è?”- sbottai isterico – Questo…questo “coso” non può essere una finestra e un quadro allo stesso tempo!-. –Certo che può, come è vero che Schrödinger aveva un gatto, che era vivo e stecchito come un ratto-. Restai a fissarla sgomento, cercando di trovare un qualche senso alla sua affermazione. –E non chiamarmi Joyce- commentai acidamente alla fine, giusto per non stare zitto –Non mi fiderei più di tanto di come mi chiama qualcuno che incide strani codici sui corpi altrui!-. Ma lei non mi stava più ascoltando, era persa nel cercare la base ideale per una canzoncina che faceva pressappoco:
“Schrödinger era un matto
E aveva un bel gatto.
Ma anche il gatto
era matto.
Schrödinger aveva un gatto,
che era vivo e stecchito come un ratto!
Re re rerre re re rer”



_________
Note dell'atroce autrice
Eccomi con la mia ennesima storia che nessuno si cagherà. Questa partecipa alla challenge di
cameraoscura. E al Festival del Nonsenso indetto da NonnaPapera! sul forum di EFP. Buona lettura!

   
 
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