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Autore: Trick    01/01/2011    16 recensioni
"«Hai sempre una risposta per ogni cosa?».
«È il mio mestiere»
".
Arianna è ancora disorientata dall'incredibile esperienza dell'innesto, quando Arthur la raggiunge al tavolino del bar al quale si è fermata per assicurarsi che vada tutto bene.
Dopotutto, controllare e pianificare è il suo mestiere.
|Arthur/Arianna|
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Valeva la pena tentare
Fandom: Inception
Personaggi: Arthur/Arianna
Rating: Verde
Conteggio parole: 2118
Disclaimer: I personaggi e i luoghi di questa storia appartengono a Christopher Nolan.
Note dell'autrice: Questa è definitivamente la prima fan fiction che scrivo su Inception – sono diventata un'incontrollabile maniaca della coppia Arthur/Arianna non appena li ho visti insieme nella stessa scena – quindi vogliate perdonarmi se non sono riuscita a rendere i personaggi IC come avrei dovuto. Migliorerò nelle prossime – sì, sto diventando così maniaca che sicuramente ne scriverò altre. Molte altre. Davvero molte, molte altre.
(Nel caso in cui qualcuno non lo sappia, Halifax e Los Angeles sono rispettivamente ed effettivamente i luoghi di nascita di Ellen Page e Joseph Gordon-Levitt – aka Arianna e Arthur).
La citazione qui sotto è ovviamente presa dal film. 

:)



***


«Presto, dammi un bacio».
[Arianna lo bacia]
«Ci stanno ancora guardando».
«Valeva la pena tentare».”

Arianna non si era sentita tanto disorientata nemmeno quando aveva messo piede per la prima volta a Parigi. E dire che era sempre stata convinta che sarebbe stato per sempre il periodo più allucinante della sua intera vita.
Senz'altra esperienza in materia di vita che quella fatta nella piccola cittadina di Rishwoth, a quaranta chilometri da Halifax, Arianna si era sentita catapultare in un mondo in cui non c'era abbastanza spazio per una come lei. Se solo non avesse avuto la ferrea convinzione che a casa sarebbe stata ancora più stretta, la frenesia parigina l'avrebbe probabilmente divorata.
Seduta ad un tavolino promozionale della Coca-Cola in uno dei bar dell'aeroporto di Los Angeles, Arianna avvertiva lo stesso stato confusionale di quei suoi primi giorni di soggiorno a Parigi. Aveva acquistato un gigantesco bicchiere di caffè, ma erano bastati pochi sorsi a nausearla.
Tutto ciò che la circondava, in realtà, sembrava nausearla; di certo le sarebbe presto scoppiata una terribile emicrania.
Si passò una mano fra i lunghi capelli mori e appoggiò i gomiti al tavolino, sorreggendosi la testa fra le mani. Per quanto si stesse sforzando con tutta se stessa, e ben più di quanto non avesse mai fatto, non riusciva a tranquillizzarsi. Il suo cervello continuava febbrilmente a mescolare sogno e realtà in un contorto labirinto di idee senza capo né fine.
"Come la scala di Penrose: la scala infinita".
La scala di Penrose. Era stato Arthur a mostrargliela per la prima volta nella sua paradossale concretezza – o nella sua inesistente realtà, magari.
L'incredibile esperienza che aveva appena vissuto (e che non era nemmeno certa di avere vissuto) si era insinuata nella sua mente come un insistente e maledetto parassita.
"Qual'è il parassita più resistente?".
Le mani sudate le tremavano. Arianna chiuse gli occhi e inspirò nervosamente più volte.
"Un'idea".
«E se stessi ancora sognando?» soffiò appena a se stessa.
Estrasse con incontrollabile agitazione l'alfiere dorato che aveva personalmente costruito e lo serrò saldamente nel pugno sinistro. Se lo rigirò fra le dita, ne controllò il peso e le dimensioni e se lo appoggiò alle labbra con sacralità.
«Arianna?».
Spaventata, Arianna sobbalzò ed emise un grido a mezza voce. Strinse l'alfiere all'altezza del petto e sollevò gli occhi verso Arthur, immobile davanti a lei. Aveva un'espressione indecifrabile sul viso, ma sembrava esaminarla con lieve preoccupazione. Arianna chinò istintivamente il capo.
«Posso sedermi?».
Lei annuì fugacemente. Con elegante delicatezza, Arthur appoggiò il proprio bagaglio a mano sulla sedia vuota alla sua sinistra, prima di prendere posto in quella di fronte a lei. Intrecciò fra loro le lunghe dita e le rivolse uno sguardo pesantemente serio.
«Non stiamo sognando» dichiarò con implacabile schiettezza. «Lo sai, vero?».
«Sì» mormorò Arianna, aprendo il palmo e mostrandogli il pezzo degli scacchi.
Arthur assentì con estrema professionalità.
«Molto bene».
Rimasero in silenzio qualche istante. Arianna sentiva il peso dello sguardo di Arthur su di sé, ma non trovava la forza di alzare gli occhi verso di lui.
Si sentiva dilaniata da una valanga di tumultuose emozioni contrastanti delle quali sarebbe difficilmente riuscita a parlare. Si sentiva sicura, con il proprio totem ferocemente stretto nella mano, eppure tutto ciò che la circondava, tutte le sue certezze e i suoi punti fermi erano improvvisamente diventati imprecisi e distanti, come se fossero stati d'un tratto avvolti da una fumosa colte di nebbia. Ed era altrettanto tranquilla sapendolo lì, vicino a lei, ma il suo nervosismo si era triplicato, da quando lui si era seduto. Non credeva nemmeno che tutto quello si potesse provare contemporaneamente.
«Sto impazzendo?» gli domandò d'impulso. «Sto impazzendo, Arthur, non è così? È questo che succede quando ti risvegli e inizi a...».
Per quanto stesse tentando, non riusciva a trovare la parola giusta. Mosse vagamente una mano a mezz'aria.
«...pensarci?» completò lui.
Arianna annuì di nuovo, stupendosi di come sembrasse molto più semplice, ora che Arthur l'aveva pronunciata.
«Sì» le rispose dopo qualche secondo di riflessione. «Sì, sembra davvero di impazzire. Ci si sente incapaci di valutare la realtà con gli stessi parametri di prima, come se questi avessero perso efficacia una volta risvegliati dal sogno o come se il sogno stesso, inverosimilmente, si fosse portato con sé parte della nostra realtà. Ciò che confonde è soltanto l'apparente scambio fra la tangibile natura di ciò che sappiamo essere reale e fra la persistente consapevolezza di ciò che crediamo essere reale. Una sorta di embrionale sindrome di Capgras, se preferisci vederla in questo modo».
Lentamente e stringendo ancora di più l'alfiere, Arianna sollevò il capo verso di lui e si lasciò andare ad un fiacco sorriso.
«Non ne sei capace, vero?».
«Di fare cosa?».
Arianna inclinò divertita il capo.
«Di trasformare le emozioni umane in qualcosa di diverso da una definizione da enciclopedia».
Arthur parve sorprendersi per quella risposta inaspettata e rimase immobile. Appoggiò pigramente il mento alla mano destra e si coprì le labbra con le dita in maniera casuale. Arianna, tuttavia, riuscì a scorgervi una smorfia dignitosa.
«Non puoi spiegare ogni risultato con un'emozione».
«Non saprei, Arthur» ribatté beffardamente lei, avvicinando a sé la tazza di caffè. «Ma di certo non puoi spiegare tutte le emozioni con un risultato».
Arthur la scrutò pensieroso per un attimo, poi abbassò lievemente la testa e scoppiò in una fragorosa risata.
Arianna rimase a fissarlo completamente stupefatta. Nelle ultime settimane in cui avevano lavorato insieme al progetto dell'innesto a Fisher Jr. non lo aveva mai sentito ridere. Sapeva perfettamente che lui ne era in grado – tutti ridono, dopotutto – ma si era convinta che si contenesse per chissà quale qualche inspiegabile abitudine. Mentre ascoltava il suono della sua risata, Arianna si ritrovò a pensare a quanto ora sembrasse un adolescente spensierato. La sua incurvabile espressione di efficiente serietà era svanita; non gli era mai sembrato tanto vulnerabile. Si domandò se non fosse proprio questo, in realtà, il motivo per il quale si frenava così rigidamente. Non se ne sarebbe affatto stupita. Arthur odiava non avere tutto sotto controllo: era questo che faceva di lui uno dei migliori Manovratori in circolazione.
«Non ne sei capace, vero?» s'interruppe improvvisamente lui, scrutandola con una luce di estremo divertimento negli occhi scuri.
«Di fare cosa?».
«Di terminare una conversazione senza impossessarti necessariamente dell'ultima parola».
Lei scosse il capo, ridacchiando.
«Credo di no».
Arthur si appoggiò compostamente allo scomodo schienale di plastica e posò le mani in grembo. Il suo sguardo era nuovamente impenetrabile, ma Arianna ebbe l'impressione che lui stesse scegliendo con accuratezza le parole da dirle.
«Puoi garantirmi di non credere che tutto questo sia un sogno?» le domandò con improvvisa schiettezza. «Devo saperlo, Arianna. Devo essere sicuro che sia realmente andato tutto bene. Sai di essere sveglia?».
«Questo non è un sogno, Arthur» recitò con convinzione. «Direi che puoi smetterla di farti venire l'emicrania cercando di pianificare e manipolare tutto quello che ti circonda».
«Io non manipolo» si lamentò con veemenza Arthur, alzando gli occhi al cielo. «Io manovro».
«Non vedo alcuna differenza».
«Non vedi--?» ripeté indignato. «Arianna, mi pare che la differenza sia più che evidente. Il termine “manipolatore” include nel proprio significato qualcosa di subdolo, di viscido e di equivoco. Al contrario, io sono il Manovratore. Predispongo i più piccoli dettagli in modo che combacino perfettamente gli uni con gli altri. Ciò che faccio è un'arte raffinata e sottile – ben lontana da qualche ridicolo sotterfugio da prestigiatore».
«È questo il motivo per cui tu e Eames non riuscite ad andare d'accordo? Perché entrambi credete di essere migliori dell'altro?».
«Al contrario, è proprio il motivo per il quale riusciamo a sopportarci».
Quella frase le fece tornare in mente un quesito che si era posta più volte, nelle settimane precedenti.
«Come avete fatto a conoscervi? Tu e Eames, intendo».
Arthur fece una strana smorfia e si grattò distrattamente la tempia sinistra, scrutandola in tralice.
«È una storia piuttosto lunga, Arianna».
«Beh, spero che tu non abbia nessun volo da prendere, allora» affermò lei con un sorriso lievemente intimidatorio. «Non ti alzerai da questo orribile tavolino prima di avermelo detto».
«L'ho conosciuto mentre studiavo Scienze Fisiche a Cambridge» sospirò lui.
«Cambridge?» ripeté allibita Arianna. «Tu hai studiato a Cambridge? Mi avevi detto di essere cresciuto qui, a Los Angeles».
Arthur le rivolse un placido sorriso.
«Tu non sei cresciuta da qualche parte vicino a Halifax?».
«A Rishwoth».
«E perché ora studi Architettura a Parigi?».
«Touché, monsieur» disse. «Continua».
«L'ho conosciuto una decina di anni fa. Il mio docente di Statistica, il professor Brice, svolgeva... beh, ciò che potremmo definire due differenti attività».
«Lavorava con i sogni? È questo che intendi?».
«Aveva lavorato nei sogni, questo è sicuro. All'epoca, tuttavia, aveva smesso da tempo e si limitava a insegnare».
«Non si è limitato a insegnarti solo le regole della statistica, vero?» domandò Arianna con un mezzo sorriso d'intesa.
Un guizzo brillante attraversò gli occhi di Arthur.
«Diceva di non aver mai avuto uno studente tanto ossessionato dai dettagli» ridacchiò. «Non avevo ancora compiuto vent'anni quando mi presentò a Cobb. Gli serviva un Manovratore e il professor Brice gli aveva suggerito di fare un tentativo con me. Cobb non era molto convinto della scelta: il lavoro del Manovratore è molto delicato e io ero davvero troppo giovane e inesperto».
«Cosa avreste dovuto fare?».
«Assicurare ad un potente esponente del Ministero tedesco che il suo Sottosegretario non stava complottando nessun rovesciamento del governo».
«Ci riusciste?».
«Sì, ma fummo completamente costretti ad improvvisare. Immagino ti sia già resa conto che nel nostro lavoro esistono solo due casi in cui si è costretti a improvvisare: o sopraggiunge un imprevisto o il tuo Manovratore è stato fregato».
«Chi ti aveva fregato?».
«Cosa ti fa pensare che non fosse semplicemente un imprevisto?».
«Lo era?».
Arthur fece un mezzo sogghigno sghembo.
«No. Eames era stato assunto dall'uomo al quale avremmo dovuto estrarre l'informazione e i suoi maledetti giochi di prestigio mi fecero completamente impazzire».
Lei rise.
«Sebbene Eames non fosse riuscito ad evitare che Mal estraesse l'informazione dalla mente del nostro bersaglio, le sue abilità come Falsario impressionarono moltissimo Cobb, così finimmo per lavorare insieme» continuò Arthur.
«È assurdo pensare che tu e Eames possiate lavorare insieme per un periodo così lungo senza cercare di uccidervi a vicenda».
«Sì, lo è» rispose Arthur con uno sbuffo divertito. «Ma è stato piuttosto utile, in realtà. Collaborare con un bastardo così fastidiosamente imprevedibile è un ottimo allenamento per un Manovratore».
Arianna gli sorrise, posando il capo al dorso della mano.
«Hai sempre una risposta per ogni cosa?».
«È il mio mestiere».
«Ottimo. Avevo giusto una domanda tecnica per te, Arthur» gli disse con tono sibillino. «In un sogno, come posso evitare che il subconscio del mio bersaglio si accorga della mia presenza?».
«Non puoi evitarlo» chiarì lui con aria estremamente competente.
«Davvero?» riprese lei innocentemente. «Non si può... che ne so, distrarlo, magari?».
«Assolutamente no. È probabilmente una delle prime cose che imparerai».
Una strana espressione furbesca si dipinse sul volto di Arianna.
«Perché nel sogno mi hai baciato, allora?».
Arthur parve realmente spiazzato. Chinò lesto la testa, tentando di nascondere un sorriso di vago imbarazzo.
«Ne valeva la pena».
Lei lo guardò esasperata.
«Valeva la pena tentare, intendi?».
«No» negò lui fermamente, alzando nuovamente lo sguardo e rivolgendole un sorriso malizioso. «Ne valeva semplicemente la pena, Arianna».

   
 
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