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Autore: Miss Demy    03/01/2011    34 recensioni
New York City. La città che non dorme mai. Forse perchè è proprio di notte che si accendono le luci del Moonlight.
Un incontro improvviso, un ritrovarsi in un luogo inaspettato.
In una città, dove l'amore è solo una leggenda metropolitana, vengono meno le certezze del bel Marzio Chiba, crolla il suo Mondo e se ne crea uno nuovo, uno migliore.
Dal cap.2:
- Nessuno parlava, riuscii a sentire il suono della cintura che veniva slacciata. Non poteva essere. Seiya voleva…
Non riuscivo neanche a pensarlo, figuriamoci a dirlo.
Non mi importava delle conseguenze, aprii la porta, o meglio, ci provai.
Purtroppo era chiusa a chiave. Disperazione. Ma perché? Non la conoscevo, non sapevo nulla di lei. Eppure il cuore mi batteva forte se ripensavo al suo sguardo e alla sua dolcezza di quella maledetta-santa mattina.
“Seiya, apri questa porta. Subito. Muoviti!” ripetevo, battendo pugni sulla porta, facendo intendere che avrei continuato finché non mi avesse lasciato entrare.
Il mio respiro si faceva sempre più affannato, la mano iniziava a farmi male. Non mi importava però. Io dovevo proteggerla.

Dal cap.11
-Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Moonlight'
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Cap.1: Chi sei?

 

   

 

Questa che sto per raccontarvi è la mia storia. Credo che abbia dell’incredibile - e non perché sia la mia, ma - per gli eventi che si sono verificati, travolgendomi, cambiandomi del tutto.
Tutto accadde l’anno scorso…

 


13 Novembre.
New York City, Time Square. Ore 9.00.

New York City, la città che non dorme mai, la città mai stanca del caos e della frenesia anche quella mattina dava il meglio di sé.
 
I marciapiedi dell’East Side erano come al solito super affollati da una moltitudine di persone:
Manager intenti a parlare al telefono cellulare senza perdere il ritmo spedito, azionisti che nei loro abiti firmati si dirigevano verso Wall Street in ansia di sapere le ultime sul  Dow Jones, donne che si avviavano verso la Fifth Avenue per una colazione da Tiffany. E poi c’ero io.
 
Io che, sebbene i rumori dei clacson e degli elicotteri che sorvolavano il cielo limpido e sereno provassero a tenermi sveglio, sentivo ancora gli occhi pesanti e le palpebre che a stento riuscivano a rimanere alzate. Ero stanco. Quella mattina la sveglia non era suonata e, appena aperti gli occhi, notando che le lancette segnassero le 07.40, ero dovuto saltare giù dal letto cercando di prepararmi e uscire di casa in meno di dieci minuti.
Nonostante il sole fosse alto nel cielo, nonostante io riuscissi a sentirlo pizzicare e riscaldare piacevolmente il mio viso dal leggero vento che soffiava e spettinava i miei capelli neri, mi sentivo a pezzi.
Sentivo ancora tesi i muscoli delle spalle per il fatto che avevo passato la notte chino sul portatile a scrivere il primo capitolo del mio nuovo libro intitolato ‘Le donne, l’Amore e New York’, andando a dormire soltanto alle 4.00 con gli occhi che ormai quasi lacrimavano.
Quella notte era stata micidiale per me: una delle peggiori in assoluto.
Avevo provato a concentrarmi per trovare l’ispirazione ma proprio non ci ero riuscito.
Il mio problema era che io di donne non ne capivo niente. L’unica donna della mia vita era mia madre, donna di altri tempi, non adatta al genere di domande e risposte che cercavo per la stesura del mio libro: un libro che doveva illustrare la condizione della donna newyorkese, l’emancipazione in persona, in relazione all’amore, sempre se nella City quel sentimento tanto noto esistesse ancora o fosse effettivamente soltanto una leggenda metropolitana.

Non è che io non avessi mai creduto nell’amore, anzi, a volte, in determinate circostanze in cui ero triste, dispiaciuto, sconfortato, mi sarebbe piaciuto avere una donna che mi stesse accanto e che mi capisse, una con cui potermi sfogare e da cui poter trovare conforto.
Così come nei momenti di gioia, quando ero felice, quando volevo condividere quegli attimi di entusiasmo, sarebbe stato bello farlo con una ragazza che mi amasse e gioisse con me. Per me.
Il problema era che quella era NYC, la città dalle mille opzioni e dalle molteplici tentazioni in cui nessuno credeva più all’Amore. Esso non serviva, si poteva benissimo avere tutto ciò che si volesse senza compromessi, senza rinunce, senza litigi e nervosismi che ne sarebbero derivati, senza delusioni in caso di rotture; insomma, senza complicazioni.
 
Sarà stato perché inizialmente, provenendo da un Paese molto differente dal Nuovo Mondo come Tokyo, avevo problemi ad inserirmi, sarà stato che trovare l’Amore a NYC era peggio di trovare un ago in un pagliaio; sta di fatto che, adattatomi ai ritmi della City, a ben venticinque anni mi ero ritrovato a non aver mai avuto una ragazza ma semplicemente molte avventurette;storie di una notte e basta.
 Il fatto che tutte le ragazze mi considerassero di ottima presenza, attratte dai miei occhi blu e arrendevoli ai miei addominali scolpiti, di certo, aveva influito moltissimo sulla mia autostima dando di me persino l’immagine di latin lover, cosa che in realtà non condividevo.
Avevo sempre creduto nei valori e nei buoni sentimenti ma le persone con cui avevo sempre avuto a che fare fino a quel momento, evidentemente, no, tanto da indurmi a non fidarmi del prossimo; meno che meno delle donne.
 
Quando avevo dieci anni, fui costretto a lasciare Tokyo a causa del lavoro di mio padre che, noto chirurgo di fama internazionale, aveva trovato un’opportunità unica nella Grande Mela.
New York, una Città, La Città che non era mai stata mia fino in fondo, che non lo sarebbe mai stata probabilmente, ma a cui sentivo di appartenere da sempre.
 


Avevo da poco lasciato la RoseEdition, una se non la più famosa casa editrice newyorkese per cui lavoravo da ormai un anno, situata all’interno di un maestoso grattacielo dell’Upper East Side, e le parole del mio editore risuonavano ancora nella mia mente:
“Voglio il libro pronto il prima possibile, Marzio Chiba, siamo intesi? Non farmi pentire di averti concesso un grosso anticipo! E ricorda, sull’argomento non si discute!”

Un periodo indefinito ma che si preannunciava infernale, un arco di tempo in fin dei conti non troppo lungo per trovare e mettere nero su bianco informazioni, notizie, risposte; per scrivere un libro che conteneva quello che per me era un argomento enigmatico: l’Amore.
Non potevo oppormi, dato che il lavoro era coperto dall’opzione sul secondo libro. Mister Taiki mi considerava un bravo autore già da parecchio tempo; quando presentai tempo addietro il mio manoscritto ‘Odore di ciliegi in fiore’, ne era rimasto così colpito e così entusiasta, non solo da pubblicarlo ma da concedermi l’opzione per la scrittura di un secondo libro.

E così, pensando e ripensando al mio – appena concluso - incontro col boss, mi avviavo a passo svelto con la valigetta di cuoio contenente il mio notebook Apple,  al Crown, la caffetteria del mio amico Moran, dove mi fermavo spesso per scrivere, dove riuscivo a trovare sempre l’ispirazione.
Il Crown non era un semplice locale in cui bere caffè americano o mangiare ciambelle glassate; il Crown era il luogo in cui molti letterati, scrittori e giornalisti si fermavano per trovare la concentrazione per il proprio lavoro.
Un luogo molto accogliente, dall’arredamento moderno, confortevole e rilassante.
 
A Moran mi lega un’amicizia che dura ormai da quattordici anni. Fu il mio primo vicino di casa quando arrivai negli USA; ai tempi non conoscevo nessuno e lui mi è sempre stato accanto. Quando ero triste e mi sentivo escluso, solo, senza rapporti sociali, fu lui che mi presentò le sue amiche e amici, facendomi sentire parte del gruppo.
Quando per non gravare sui miei genitori, compiuti diciotto anni, decisi di prendere un appartamentino tutto mio, fu lui che, proprietario del Crown, mi diede un impiego per far quadrare i conti fino a quando i sacrifici della mia laurea in giornalismo non diedero i loro frutti. Solo qualche anno dopo si trasferì al piano superiore del locale. Non dista molto dal mio appartamento ma il nostro tempo libero, per gli impegni lavorativi, si è ridotto e così ne approfitto per scrivere nel suo locale; è un modo per trovare concentrazione e rivedere anche un caro amico.

Svoltato l’angolo, mi ero ritrovato davanti al suo locale, sotto l’insegna ovale arancione sulla quale in blu era impresso il nome della caffetteria. Scorgendo alla mia destra, dalla vetrata, lo intravidi mentre si affrettava a servire un vassoio con dei muffin a due signori in giacca e cravatta seduti su uno dei tanti divanetti in pelle beige. Quando alzò gli occhi, dal tavolo su cui aveva appena posato i due piattini, mi notò e distese la fronte in segno di gioia. Un sorriso si palesò sul suo viso. Gli feci cenno con la mano e ricambiò il mio saluto con un occhiolino.

Ero ancora distratto dal mio amico biondo quando improvvisamente sentii un peso al busto, una pressione così intensa che mi costrinse a voltarmi fino a farmi accorgere che qualcuno mi era venuto addosso, urtandomi.
Abbassai lo sguardo e lì, sul marciapiede di Time Square, notai una ragazza dai lunghi capelli color dell’oro raccolti in due lunghissimi codini, tanto da sfiorare persino il pavimento su cui era caduta.
Continuava a tenere la testa bassa; alcuni oggetti erano fuoriusciti dalla sua borsa di pelle grigia ma non se ne curava, continuava a strofinare le mani diafane sulle ginocchia coperte da un paio di jeans.
Per un attimo temetti che si fosse fatta male, mi sentii in colpa.
“Scusami, ero sovrappensiero, spero non ti sia fatta nulla.”
Con fare gentile mi chinai per porgerle una mano. Le ginocchia dovevano farle male e quindi posai a terra la mia valigetta e mi piegai ancora di più per sorreggerle la schiena con la mano libera.
“ Non importa, sto bene, ero distratta anch’io” rispose con un sussurro talmente dolce da sembrare simile ad una melodia che per pochi istanti mi rapì, mentre i suoi occhi azzurri si specchiavano nei miei.
Solo in quel momento, potendola guardare in viso, mi accorsi di quanto fosse incredibilmente particolare la sua bellezza…
I suoi lunghi codini, morbidi e lucenti sotto i raggi di sole, erano simili a due onde d’oro colato che le incorniciavano il viso quasi etereo e le scendevano sul cappotto rosa.
Non avevo mai visto una ragazza che riuscisse a ipnotizzarmi con un semplice sguardo: uno sguardo tenero ma allo stesso tempo triste; i suoi occhi dello stesso colore del cielo di una giornata di primavera erano malinconici, persi nel vuoto, sebbene mi stesse ancora guardando.
La strinsi a me sollevandola da terra e aiutandola a rialzarsi senza fare sforzi sulle ginocchia.
Quel contatto durò pochi secondi. Attimi abbastanza lunghi e intensi per poterla tenere vicina a me, sentire il contatto del suo corpo col mio, percepire il suo caldo respiro a tratti irregolare sul mio collo e inebriarmi del profumo di petali di rosa impregnato nei suoi soffici capelli.

Cos'era quel piacevole calore che provavo nel cuore?
Non l’avevo mai provato prima. Ero stato con alcune ragazze, amiche di Moran che sbavavano per me, ne avevo approfittato, in fondo erano molto belle e seducenti, ma non avevo mai provato una sensazione del genere soltanto guardando una ragazza negli occhi e tenendola stretta a me per così poco tempo.
 In realtà non credevo potesse esistere qualche sensazione così forte da far riscaldare il cuore, eppure, in quel momento, qualcosa dentro di me era nato.
Non l’avevo mai vista prima eppure mi sembrava di conoscerla da sempre, di averla già tenuta fra le mie braccia, di aver incontrato quegli occhi così luminosi e infelici; chissà, magari in un’altra vita, in un universo parallelo, i nostri destini si erano già incrociati.
Rimanemmo uniti qualche secondo. Lei tra le mie braccia, le nostre mani unite, i nostri sguardi attratti e desiderosi di non lasciarsi più; solo dopo, lei prese un respiro profondo e, in imbarazzo per quella situazione in cui il tempo sembrava essersi fermato proprio nella Piazza del Tempo, abbassò lo sguardo.
“Grazie, sei gentile, scusami.”
La sua voce, il tono con cui aveva pronunciato quelle poche parole, confermava le mie impressioni: quella ragazza era davvero triste, forse persino preoccupata.
Lentamente fece scivolare la sua mano calda dalla mia e si allontanò dalla mia stretta. Piano, come se in fondo non lo volesse veramente. Vidi le sue guance colorarsi di rosso mentre aumentava la distanza fra noi.
Si chinò per raccogliere la sua borsa e mettervi dentro il suo cellulare, un’agendina e un mazzo di chiavi, che erano ancora sparsi sul marciapiede.
Fece tutto in fretta, poi si rialzò tenendo la borsa tra le mani e dicendo con un leggero dispiacere:
“Adesso è meglio che vada, scusami ancora.”

Ma perché si scusava ancora? In una città dove le donne sono note come mangia uomini, dove ogni pretesto è buono per attaccare bottone, chi era quella ragazza timida e triste dallo sguardo angelico?
E io, sempre pronto ad approfittare delle ragazze disponibili e carine ma mai a fare il primo passo, perché ero curioso di conoscerla? Di sapere chi fosse? Qual era il motivo della sua tristezza? Io che ero abituato ad avere tutte quelle che volevo, anzi, ad approfittare di tutte quelle che volevano me, perché in quel momento volevo solo continuare a perdermi nel suo sguardo profondo? Perché volevo ancora sentire quella sensazione piacevole di calore al cuore che si diffondeva in tutto il corpo e che soltanto Lei era riuscita in venticinque anni a farmi provare?

“Buona giornata!” disse, con voce quasi da ragazzina timida, mentre si voltava accompagnata dal fluire dei suoi lunghi capelli e lasciando una scia di profumo di rose fresche, proprio come lo era Lei.
Quelle parole, tanto garbate, mi riportarono alla realtà. Una realtà in cui la ragazza dai lunghi codini biondi, dagli occhi azzurri, dal viso dolce e triste, dal corpo snello e tonico, stava andando via da me.
Non mi diede il tempo di risponderle; ancora ipnotizzato da quell’immagine, la vidi allontanarsi sempre di più fino a quando si confuse con la molteplicità di persone che affollavano il marciapiede di Time Square.
Chi era? Non sapevo nulla di lei. Il suo nome qual era?
In una città così grande, sapevo che non l’avrei più rivista. Tale consapevolezza mi strinse il cuore. Era assurdo. Io non ero un quattordicenne, né avevo bisogno di corteggiare le ragazze.
Non ero mai stato un tipo presuntuoso, erano le ragazze a darmi quella sicurezza in me stesso, eppure continuavo ad avvertire un vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.

Abbassai lo sguardo, rassegnato, e mi diressi all’entrata del Crown.
“Una nuova fiamma?” Moran mi salutò con quella domanda, mantenendo in viso quel sorriso malizioso e allo stesso tempo pieno di curiosità non appena mi avvicinai al bancone.
Cercai di sorridere, tutti mi ritenevano un playboy e, sebbene non lo fossi, io glielo facevo credere.
“La conosci?” riuscii a dire, sperando che l’altro playboy, vero però, potesse togliermi quella stretta al cuore che ancora mi possedeva.
Scosse la testa, dispiaciuto, stropicciando le labbra. E così anche la mia ultima speranza andò in fumo.
“Mi dispiace, non l’ho mai vista, però devo ammettere che era davvero fenomenale!” rispose con una mano sotto al mento continuando a fissare fuori dalla vetrata.
Io e Moran usavamo spesso quei termini che si leggono fra le rime, ma anche quelli più espliciti. Non so il perché ma, in quell'occasione, quel commento mi diede fastidio.
Che cosa stava succedendo? Perché sapere che possibilmente nella sua mente aveva avuto certi pensieri su quella ragazza, mi innervosiva?
“ Come fai a dirlo? Aveva un paio di jeans e un cappotto” risposi, non volevo continuare i commenti, non quella volta.
“ Si vedeva che sotto i vestiti era fenomenale.”
Feci finta di niente e, senza dire nulla, andai a sedermi sul mio solito divanetto in fondo al locale, cercando di non pensarci più, dedicandomi al mio libro.

Iniziai a scrivere per più di mezz’ora, fin quando Moran mi si avvicinò e, poggiando le mani sul tavolino ai lati del mio notebook, propose:
“Stasera al Moonlight?”
La sua, più che una domanda, sembrava un’affermazione.
Spostai gli occhi dallo schermo del monitor guardando il mio amico negli occhi color nocciola diventati maliziosi, mentre il suo classico sorrisetto furbo era ancora palese sul suo viso sbarbato.
Come non essere maliziosi se si parlava del Moonlight?

Esso non era un semplice locale ma luogo frequentato da uomini, dove era possibile guardare le ragazze più belle e desiderate della City ballare in costumi adatti solo a quel genere di night club.
Non era un luogo volgare; le ballerine provavano tutta la giornata, per loro quelle esibizioni erano una vera e propria arte. Arte del sedurre.
Venivano accuratamente selezionate dalla proprietaria del locale, Lady Amy, e vivevano tutte assieme all’interno del Moonlight.
Vi erano regole ben precise. Le ragazze ad esempio non potevano innamorarsi, dovevano lavorare e lasciare una percentuale dello stipendio per coprire i costi sostenuti per il vitto, alloggio e costumi.
Ero andato alcune volte, insieme a Moran, a guardare lo show del luogo che rappresenta un simbolo di NYC, come il Moulin Rouge lo era per Parigi.
Sebbene quel giorno non ne fossi del tutto entusiasta, annuii, riportando lo sguardo sul monitor per riprendere il mio lavoro in quell’attimo di ispirazione.
Moran si allontanò dicendo con tono ironico:
“Alle 23.45, all’ingresso!” e io non potei fare a meno di lasciare uscire un sorriso divertito per la sua euforia.

Continuando a scrivere non mi resi conto che fosse già ora di pranzo, e così, rimasi al Crown a mangiare un cheeseburger; solo dopo lasciai il locale dirigendomi al mio appartamento per recuperare un po’ del sonno perso la notte precedente.
Una volta chiusa la porta d’ingresso alle mie spalle, il salone era al buio completo, le serrande ben abbassate non lasciavano filtrare nessuno spiraglio di luce. Non accesi la lampada posta accanto all’ingresso; in fondo, il grigiore che rivestiva l’intera casa era rilassante per i miei occhi stanchi.
Mi sedetti sul letto, lasciandomi cadere all’indietro fino a sprofondare la testa sul fresco cuscino in piuma d’oca.
Nel silenzio della mia solitudine, ceraci di chiudere gli occhi e riposare un po’.
Fu, però, proprio la solitudine che si avvertiva che mi fece tornare in mente quello sguardo malinconico incorniciato dai capelli dorati e fluenti.
“Chi sei? Qual è il tuo nome? Dove posso trovarti, angelo mio?”, erano le uniche parole che continuavo a ripetere dentro la mia mente, sempre più cariche di disperazione.
Pensavo al suo sorriso forzato, pronto a celare la tristezza che le leggevo negli occhi grandi, azzurri e cristallini.
Occhi che parlavano al posto della bocca.
Una bocca con delle labbra carnose e rosee tutte da baciare. Non con violenza, però, con dolcezza, come un conforto, per donarle quella serenità di cui ero convinto avesse bisogno.   
“Ma cosa mi sta succedendo?” pensai, notando che era la prima volta che una ragazza riuscisse a entrare inconsciamente nei miei pensieri, e per di più, senza malizia, senza suscitare in me voglia di possederla ma soltanto di starle accanto e sentirmi di nuovo in pace con me stesso.
 
Con quell’immagine di Lei, mi addormentai. Ricordo ancora che non appena arrivato nel mondo dei sogni, la rividi.
Sembrava simile ad un’essenza. La Suprema Essenza. I suoi occhi erano ancora tristi ma luminosi mentre mi guardava; veniva verso di me con fare seducente, indossando soltanto la biancheria intima che valorizzava le sue curve mozzafiato. Mi sorrideva mentre colmava sempre di più la distanza fra noi, sempre più desiderabile, con un dito proprio sulle labbra carnose e morbide.
Mi svegliai dopo un arco di tempo non definito, con un senso di amarezza e delusione per il fatto che il mio fosse stato solo un semplice sogno. Se il caro Sigmund Freud fosse stato lì con me, mi avrebbe detto che era la soddisfazione di un desiderio inaccettabile all’Io, un desiderio che io stesso non accettavo. Aveva forse ragione? Non lo sapevo. Sapevo soltanto che quel sogno aveva appena fatto nascere in me una nuova visione di quella ragazza che probabilmente avrei rivisto soltanto a occhi chiusi. Aveva appena svegliato una parte di me e la voglia di farla mia.
Assecondai me stesso e il mio bisogno di Lei, pensando a quella ragazza che era riuscita, in pochi secondi, a scuotere tutte le mie abitudini e a farmi provare sensazioni nuove, inaspettate.
La pensai mia, immaginando di giocare con Lei a tutto ciò che l’avrebbe potuta rendere soddisfatta, arrendevole al piacere.


Ore 23.50 East Side - Moonlight.

Le luci gialle attorno all’insegna rettangolare blu erano già accese e, al centro, l’immagine della ragazza di profilo al chiaro di luna sembrava risplendere.
Proprio sotto di essa, le persone in fila erano come al solito numerose. Guardai attentamente finché non riuscii a scorgere una mano che si agitava a mezz’aria per attirare l’attenzione. Con le mani nel mio cappotto nero, sorrisi e feci cenno con la testa al mio amico, cercando di fargli  capire che lo avevo notato. Facendomi spazio tra la gente lo raggiunsi, accorgendomi che non era solo.
“Ti presento Seiya, è un cliente del Crown, l’ho invitato ad unirsi a noi.”
 Sorrisi gentilmente al ragazzo dai lunghi capelli corvini raccolti in un codino e gli porsi la mia mano. Moran riprese, col suo fare euforico mentre strofinava le mani per riscaldarsi dal freddo pungente: “Dice che stasera ci sarà una nuova ballerina, troppo bona!”
“Piacere, sono Marzio” mi presentai e, dentro di me, sperai che la nuova ballerina potesse riportarmi a essere me stesso.

Finalmente, quando arrivò il nostro turno, entrammo, venendo riscaldati dal calore del locale. Le luci erano soffuse, nella penombra era comunque facile notare l’enorme palco sulla sinistra ancora coperto da tende rosse; alla nostra destra alcuni rumori attirarono la nostra attenzione: una bargirl dai capelli a caschetto rossi, vestita soltanto da un vestito bianco completamente trasparente, shakerava alcuni cocktail. La musica in sottofondo intratteneva i clienti in attesa dello show.
Venimmo accolti da due hostess; una era bionda coi capelli lunghi fino al fondoschiena raccolti a mezza coda da un nastro rosso, Marta era il suo nome, e una mora coi capelli sempre lunghi ma neri. Erano molto belle e sensuali nei loro corpetti e nelle loro coulotte che risaltavano le loro forme prorompenti. Ci presero sotto braccio e ci fecero accomodare su delle poltrone di pelle beige in prima fila sotto il palco.
Non c’era che dire, chiunque avrebbe desiderato un’accoglienza di quel genere!
Finalmente mi stavo distraendo, ero tornato me stesso.
Quella sensazione di peso nel cuore era scomparsa grazie alle sccollature vertiginose delle due ragazze.
Ci sedemmo. In attesa che lo show iniziasse, Seiya mi raccontò di essere un assiduo frequentatore di quel luogo. Ci disse che anche lui, come noi, alcune volte aveva approfittato dei servizi del locale: le ragazze, oltre a ballare, infatti, intrattenevano i clienti. Non tutte, però, solo le veterane o quelle che, seppure alle prime armi, riscuotevano maggiore successo sui clienti del locale.
Finalmente lo spettacolo iniziò.

Lady Amy, come al solito, salì sul palco e, davanti alle tende rosse ancora chiuse, salutò e diede il benvenuto ai presenti.
Era una bella ragazza di ventisei anni, con gli occhi blu e i capelli tinti di blu.
Aveva ereditato il locale dopo la morte del padre, gestendolo ormai da quattro anni in modo sublime.
“Stasera ho il piacere di presentarvi una new entry.
È bella, sexy e sa fare impazzire gli uomini per il suo modo di ballare” spiegò con un sorriso carico di soddisfazione, consapevole che anche i clienti avrebbero amato la nuova ballerina,  “signori, vi presento Bunny!”
Il palco divenne buio, giusto il tempo per permettere a Lady Amy di scendere.

Quando le tende si aprirono, nella penombra fu possibile scorgere una sagoma e, quando la musica della canzone Cant’t fight the Moonlight di Lee Ann Rimes partì, le luci si accesero, mostrando una ragazza di spalle con le gambe tenute all’altezza delle spalle.
Iniziò a muovere, a ritmo di musica, i fianchi a destra e a sinistra, attirando l’attenzione sui suoi glutei rotondi e sodi velati solo da un gonnellino blu trasparente.
 
Sotto il cielo degli amanti, io starò con te e nessuno ci starà intorno
Si voltò verso il pubblico già euforico, avanzando sensualmente, con una gamba davanti all’altra e allungando un braccio verso di loro per poi portare la mano chiusa a pugno all’altezza del cuore.
 
Il mio cuore mancò un battito per poi riprendere a scalpitare dentro al mio petto; una sensazione di stupore associata ad una di estrema pace nell’anima mi riscaldò dentro. Immobile. Con gli occhi puntati su di Lei.
“Te lo dicevo che era proprio fenomenale!” Moran con una gomitata sul mio braccio cercò di distogliermi da quel sogno ad occhi aperti.
Non era più un sogno. Era la realtà. Sigmund avrebbe potuto avvisarmi dei così detti sogni premunitori.
 

 Se pensi che non ti innamorerai allora aspetta soltanto che il sole vada giù...

Roteò la testa energicamente facendo sì che i suoi lunghi codini fluissero nell’aria sparpagliandosi in mille fili d’oro per poi riunirsi e ricomporsi mentre Lei, lentamente e in maniera provocante, scendeva sempre più giù sulle ginocchia fino quasi a toccare terra.
 
Deglutii a fatica mentre, sensualmente aprì le gambe per poi richiuderle subito dopo, avvertendo di nuovo quell’irrefrenabile voglia di Lei sotto di me. Mia, soltanto mia per un gioco tutto nostro.
 

Sotto la luce delle stelle c'è una sensazione magica e così giusta che ti ruberà il cuore, stanotte...

Pian piano ritornò in piedi accarezzandosi sensualmente i fianchi per poi far risalire le sue mani sul reggiseno bianco su cui era legato - da un fiocco fucsia - un colletto blu alla marinara.
 
E mentre gli uomini erano sempre più pazzi di Lei, mentre la musica si confondeva coi commenti sempre più volgari dei clienti, io riprovai quella strana sensazione di volerla proteggere da tutti quegli occhi bramosi di Lei. La volevo solo per me.
 

Puoi provare a resistere a nasconderti dai miei baci, ma sai, ma sai che non puoi sconfiggere il ‘chiaro di luna’ (Moonlight).

Distese le gambe e poi le riunì per una piroetta su se stessa che finì con una spaccata. Riportò le gambe unite al petto e distese le braccia fino a toccare coi palmi il pavimento di legno mentre la testa rimaneva all’indietro.
 

Perso nel buio, il tuo cuore si arrenderà; non sai, non sai che tu non puoi sconfiggere il chiaro di luna...
Ti colpirà al cuore!

Si alzò di nuovo, portando un braccio disteso verso il pubblico, poi anche l’altro fin quando unì le mani intrecciando le dita fra loro e lasciando distesi soltanto gli indici; come se volesse veramente colpirli tutti al cuore.
 
Era bella. Maledettamente sensuale ma in una maniera diversa da tutte le altre Moonlight dancers: Lei era ingenua.
Il suo sguardo, i suoi occhi continuavano ad essere malinconici e i suoi movimenti mostravano il suo essere incredibilmente brava a mixare erotismo alla sua dolcezza naturale, rendendola irresistibile.
 

Non importa cosa pensi. Non passerà molto tempo prima che tu venga nelle mie braccia.

Avanzando con le gambe che si incrociavano fra loro tra un passo e l’altro, ondeggiava le braccia ai lati delle spalle, per poi stringerle incrociate al petto.
 
Mi misi comodo, poggiando il gomito sul tavolino alla mia destra e portando la mano destra a sostenermi il mento.
Sperai che si voltasse a guardarmi.
Finalmente mi notò. I nostri occhi si incontrarono per la seconda volta quel giorno.
I battiti del mio cuore ripresero ad accelerare mentre mi accorsi che il suo sguardo era stupito; forse neanche Lei si aspettava di rincontrarmi sotto il magico potere del chiaro di Luna. Non credeva mi avrebbe rivisto al Moonlight.
Non credevo neppure io che il Moonlight avesse potuto sortire in me l’effetto magico di colpirmi al cuore. Eppure era appena successo.
Dato che l’avevo conosciuta, dato che l’avevo rivista, non me la sarei fatta sfuggire. Non volevo sconfiggere il chiaro di Luna, volevo arrendermi a Lei. Volevo conoscerla, sapere chi fosse, perché era triste, come avrei potuto rasserenarla.
Sembravo vittima di un incantesimo d’amore eppure sapevo che era stata soltanto la sua espressione piena di mille parole silenziose a farmi battere il cuore per la prima volta.
Se quella mattina avevo considerato quella ragazza senza malizia, in quel momento rivalutai la mia opinione. La volevo. Solo per me, tutta per me.
La desideravo… e più guardavo le sue curve muoversi sensualmente a ritmo di musica, più la mia voglia di Lei cresceva.
Si voltò nella mia direzione, incontrando i miei occhi.
Arrossì, e sapevo che non era l’effetto delle luci.
Non era abituata a ciò, essendo il suo primo giorno al Moonlight, e poi ero convinto che non fosse neanche abituata ad essere guardata negli occhi. Abbassò lo sguardo, facendo finta di niente, mentre io continuavo a tenere per qualche altro secondo il mio sul suo viso dolce e ingenuo.

Rimasi attratto dai suoi movimenti fin quando la musica finì e le luci si abbassarono fino a rendere buio il palco. Le tende si richiusero velocemente e gli applausi ripresero, insieme a qualche fischio e qualche commento.
E in quel momento? Sentivo che il mio cuore riprovava quella stretta, come quella mattina mentre la avevo vista andare via. Avrei voluto guardarla per ore e ore senza mai stancarmi, avrei voluto prenderla e portarla via con me per trascorrere tutta la notte assieme, forse anche tutta la vita.
Non potevo fingere più con me stesso ripetendomi che fosse una ragazza, una ballerina come le altre; Lei no. Era diversa. Ne ero sempre più convinto.
Sorrisi e, con una stretta al cuore sempre più leggera, pensai:
“Non so ancora chi tu sia, ma almeno adesso so dove trovarti.”
 


Il punto dell'autrice

Seconda revisione del 21/09/'11:
Ho sistemato questo primo capitolo per la terza volta, sperando che ora vada meglio. Spero di poter revisonare anche i sucessivi il prima possibile, ne ha estremamente bisogno, e toglierò i colori a fine capitolo che oramai mi sembra stonino col testo.


Demy

   
 
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