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Autore: Jack_Chinaski    06/01/2011    1 recensioni
La fine e l'inizio di qualcosa
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per gran parte della mia vita mi sono sentito solo, escluso, diverso e allo stesso tempo normale, più normale di tutti gli altri.
E’ stata la prima lezione della mia vita: “Quando l’anormalità si diffonde diventa a sua volta normalità ed è quindi la stessa normalità a diventare anormale”
Vomito.
Il cesso si riempe del cibo di due giorni, mentre mi asciugo la bocca con della carta igienica pronuncio sotto voce il mio personale rosario. Mio padre è morto e io faccio ammenda.
“Per piacere, gliel’avevo chiesto per piacere…”
Mi chiamo Jerry Utrecht, con l’ H muta e avevo implorato mio padre di non farlo, non toccare la mia idea di “Dorothy”
Lavoravo con lui da anni, nella sua azienda di giocattoli “ Jojo Toys Srl” e fino ad oggi a parte il suo ridicolizzarmi davanti a tutti, a ricordarmi come campo grazie a lui ecc ecc non avevamo mai avuto grandi problemi o divergenze.
S’era persino portato a letto la mia ex e non avevo battuto ciglio.
Però “Dorothy” era il mio progetto, la mia idea. Una bambola ottocentesca di quelle vestite con abiti di pizzo, da far scoprire sotterrati istinti da maniaci e pedofili anche al più puro degli uomini, troppo curioso di sapere se c’è della biancheria sotto quelle vesti.
Proposi l’idea, le bozze che era un giorno di Marzo.
Gli piacquero molto, mi diede persino una pacca calorosa di stima e affetto sulla spalla. Pensai mi stesse per annunciare un male incurabile da cui stava venendo divorato ma ahimè,le cose belle non arrivano mai tutte insieme.
Lasciai a lui il resto del da farsi, non preoccupandomene affatto. D’altronde io ero l’ “artista”, l’ ideatore e lui l’imprenditore, il rivenditore delle mie fantasie e quindi era compito suo il rimanente.
Passarono secondi, minuti, ore e si, passarono pure i giorni.
Finché un giorno d’ Aprile, trovai sulla mia scrivania un piccolo pacco. Aprendolo ci trovai dentro una versione beta, di prova della mia bambola e una locandina dallo sfondo rosastro, con una grossa scritta in gialliccio “ Dorothy”. Mi sembrava tutto ottimo, pensai e riposai con cura la bambola.
Passano altri secondi, altri minuti, altre ore e si, altri giorni.
Stavolta era un giorno di Maggio, la cosa avveniva non nel mio ufficio bensì alla macchinetta del caffè.
Quando passi gran parte del tua vita a considerarti un anormale lo diventi  eppure di un anormalità insolita, non quella che ti permetterebbe di essere “normale” e finisce con lo stare sempre solo, in silenzio con certa gente.
Alla macchinetta del caffè di questa azienda si fanno i pettegolezzi, come se fosse un romanzo rosa, un film americano da quattro soldi o qualcosa di simile e io odiavo profondamente tutto ciò.
Ma non avevo proprio tempo quel giorno e quindi mi accontentai della macchinetta, dei pettegolezzi, della triste umanità.
Là, mentre giravo quella miscela possidente di qualsiasi colore tranne quello del caffè, ascoltai la conversazione più folgorante degli ultimi.
Qualcuno cianciava sul come mio padre aveva “creato” Dorothy, tutto merito suo compreso la rimodernizzazione.
Un attimo, pensai. La cosa?
Non ebbi il tempo di finire il pensiero, l’uomo formato da parole superflue fece uscire da una cartellina olivastra sotto il braccio un’altra locandina.
Stavolta il titolo era: “Dorothy, la nuova Barbie – Girl” e il suo stile era molto punk, metallaro e tutto quello di cui la moda giovane era provvisto di quei tempi. 
Gli chiesi gentilmente di mostrarmela, dovevo essere pallido poiché mi guardavano straniti e preoccupati.
Osservai velocemente il tutto, ridiedi la locandina al tipo olivastro come la sua cartellina, sorrisi e comincia a correre verso il mio ufficio.
Lì recuperai con furia la mia versione dalla bambola e mentre la stringevo fra le mani, mi diressi alla fabbrica sottostante gli uffici.
Come prima alla macchinetta, dovevo avere una faccia terribile visto il suo accogliermi con timore e referenza.
Subito Raul rispose alle mie proteste e i miei dubbi lavandosi le mani, spiegandomi come le decisioni venissero dall’alto, dai maggiori azionisti e come lui obbedisse come tutti.
Gli mostrai la bambola stretta ora con rabbia, ora con disperazione fra le mani.
“Superflua, inutile, anormale”  uso questi termini per descriverla.
Anormale, visto  la nuova moda, visto il bisogno di creare una moda da troie e puttani la mia bambola ottocentesca stretta fra le dita era diventata anormale.
La mia bambola era come me, la mia bambola doveva arrendersi come me al fatto che questo mondo vuole un tipo di persone, un tipo di bambole e gli altri sono solo anormali, inutili.
No, col cazzo.
Tornai nel mio ufficio con calma, per non attirare ulteriore attenzione e una volta lì aprì il terzo cassetto della mia scrivania, quello chiuso a chiave e ne estrassi la mia arma da fuoco.
Chi fare fuori, chi punire? I consiglieri ingrati? I colleghi invidiosi? Gli azionisti troppo impegnati a vendere per preoccuparsi della forma? No, sarebbero state tutte vittime superflue, tutti burattini a cui avrei spezzato i fili.
Io volevo il burattinaio, volevo lui.
Ci siamo io e lui.
Ci siamo sempre stati solo io e lui, sempre e me ne accorgevo ora più che mai.
Le mie scelte di vita, di lavoro, amorose ecc erano tutte basate sul rapporto fra me e lui e non mi dispiaceva che fosse così, non mi dispiaceva il suo fare incetta ogni tanto della mia dignità e amor proprio o dello spezzare il mio orgoglio facendomi notare come lui avesse fatto tanto e io, praticamente, niente.
Era mio padre, era uno stronzo però lo amavo e facevo tutto per lui, per renderlo fiero e contento di me e non bastava mai, mai.
Entrai nel suo ufficio, l’arma nascosta sotto la camicia e comincia a pregarlo di non cambiare “Dorothy”, di lasciarla al progetto iniziale. Mi rise in faccia, sembrava un cattivo da fumetto in quel momento.
La sua risata era forte, fragorosa,viva eppure mi chiedevo come potesse avere una risata così viva uno che dì lì a poco sarebbe sicuramente morto.
Tutti i maschi prima o poi devono a scendere a patti con l’immagine mitizzata del padre, accettare la sua umanità. Quello per me era stato facile, mio padre era un avido, un ingordo, una merda. Mio padre era uno dei tanti, niente di più altro che mito e mito.
Il vero problema è trovare la forza di ribellarsi, di dire addio alla culla mentale e per molti uomini questa forza proviene da una donna, per altri da un desiderio di libertà, di qualcosa di proprio.
La mia forza si chiamava “ 44 Magnum” ed era un revolver.
Revolver puntata su quel viso dalla solita immutabile espressione quando si trattava di me o di un affare fallito, tanto rappresentavamo la stessa cosa per lui.
Ero il suo più grande fallimento e non ero mai stato così fiero di esserlo in vita mia.
Provava a darsi un tono, ad essere ancora severo, minaccioso e autoritario invitandomi a continuare a tacere,continuare ad essere lo zerbino, la merda, l’inutile consumatore d’ossigeno stato fino ad oggi e consegnargli la pistola.
Gli lasciai capire la mia serietà, le mie intenzioni girando il calcio della pistola e spaccandoglielo sulla mascella.
Andò giù e gli lo ritrassi su per la camicia, camicia dal valore inestimabile a cui teneva più di un figlio.
Il suo sangue gli colava su quelle camicie più importanti della sua progenie e io godevo.
Ripresosi dallo spavento e dalla certezza di non avere più alcun controllo, mi chiese cosa volevo, perché ero lì e cosa pensavo di fare.
Avevo tanto da dire eppure il tappo di acidi gastrici mi chiudeva la gola.
Volevo spiegargli il mio dolore, volevo fargli capire quanto è importante il ruolo di un giocattolaio.
Noi creiamo rappresentazioni umani in miniatura, creiamo compagni e compagne notturne pronte a proteggere dagli incubi e a conservare per sempre confidenze.
Noi creiamo la normalità e l’anormalità, eppure non c’è ne rendiamo conto pensando solo al profitto.
 La mano si sporca del suo sangue che poi è anche il mio e mi esce una sola parola stirata, buttata via: “Vendetta”
Premo il grilletto e lui urla, urla come urlavo io da ragazzino alle sue sculacciate.
Muore.
La pistola era finta, il suo infarto no.
C’è da chiamare tanta gente, penso. L’ ospedale, mia madre, il tizio dello champagne e delle tartine e poi infine uno che mi trovi una fossa settica dove infilarcelo.
Per prima però, chiamo Raul e gli ordino di bloccare immediatamente la produzione delle “Dorothy” e di ricominciare da capo, con le indicazioni iniziali.
Obbedisce, attacco il telefono e sposto il cadavere con un calcio.
Mi siedo alla sua sedia e mi rendo conto della pistola giocattolo ad avermi aiutato a superare mio padre, a diventare uomo.
Già, certi giochi aiutano proprio a dare vita a ciò che è normale.
   
 
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