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Autore: treefood    08/01/2011    4 recensioni
Venne dal mare, con le ciglia bianche di salsedine e i piedi feriti dagli scogli, simile a uno spaventapasseri ferito.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Venne dal mare, con le ciglia bianche di salsedine e i piedi lacerati dagli scogli, taglienti e neri come le sue iridi.
La trovai sulla spiaggia una mattina, barcollava come uno spaventapasseri ferito, ma sorrideva a me, solo per me, mostrando i suoi denti marci.
Le strinsi le braccia attorno al corpo gelido senza esitazione, lasciando che le sue dita troppo lunghe sprofondassero nei miei capelli, sporcandoli di melma.
La portai a casa contando strada facendo quanti cadaveri di molluschi fossero impigliati nelle sue ciocche secche d'acqua marina, ridendo.
Le candide lenzuola del mio letto si insudiciavano toccate dal suo corpo d'un misto di fango e sabbia, mentre le sue labbra spaccate dal sale erano più dolci del miele quand'ella dormiva.
Restai tutta la notte a contare i suoi respiri fetidi, ammaliato dalle pulci d'acqua che le passeggiavano sul seno.
La mattima fummo i più teneri degli amanti, non mangianno e non bevemmo altro che le nostre parole e i nostri sospiri, mentre la salata patina d'acqua marina che le incrostava la pelle diventava per me la più dolce delle ricompense.
Lei mi sorrideva come uno squalo, denti appuntiti e marci che mi pizzicavano il corpo. 
Passammo una settimana insieme, rotolandoci nell'erba e accarezzandoci sul pavimento, le sue unghie erano ormai firme indelebili sulla mia schiena ed io conoscevo ogni increspatura della sua chioma incrostata d'alghe.
Non mangiavo, non bevevo, amavo e basta.
Amavo i tagli sui suoi piedi, amavo le meduse secche nascoste nelle pieghe del suo abito, amavo la sabbia incastrata sotto le sue unghie.
Ma come il parassita, come il figlio illegittimo della sposa, come il tarlo nello splendido mobile un risentimento iniziava a infettarmi l'anima coi suoi denti fatti di vetri rotti e ferri arrugginiti.
Cominciai lentamente ad odiare questa schiavitù a cui mi aveva costretto la mia splendida padrona.
Il mio corpo avvizziva sotto le fredde sferzate dei suoi occhi, la mia mente vacillava contro le sue mani morbide come frustate.
L'amavo più della mia stessa anima ed questa languiva gelosa, lentamente divorata dalla bocca salata della mia amante.
La portai sulla spiaggia in silenzio una mattina, stringendo forte quelle sue mani gelide e viscide come il ventro d'un pesce.
La osservai per poco, giusto il tempo di adorare per l'ultima volta quegli occhi neri e lucidissimi, poi la respinsi in mare.
Lo feci con le lacrime che mi bagnavano le gance, spingendo con forza quelle gracili spalle che poco prima avevo stretto con amore.
Lei cadda dalla scogliera con un urlo rabbioso e tremendo, un grido che fece scuotere ogni osso che avevo in corpo, tanto da costringermi in ginocchio.
Oh, quanto male avevo fatto i miei conti.
Piangevo tanto da sentirmi seccare, accasciato sull'erba, i miei occhi vomitavano lacrime salate quanto l'acqua che l'aveva accolta alla fine dello strapiombo.
Una tremante ombra, ecco cos'ero, un guscio vuoto che si contorceva in preda ad un dolore ormai persino fisico, essedosi privato lui stesso del mollusco che lo abitava, mentre gli occhi, prosciugate le lacrime, iniziavano a versare sangue.
Morii così, fra rantoli e pozze vermiglie, incapace di vivere privo di ciò che mi stava distruggendo.

Grazie a Le luci della centrale elettrica per il titolo e l'ispirazione, scusatemi inoltre eventuali errori, è quasi l'una e i miei occhi minacciano di esplodere se rileggo ancora. 

  
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