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Autore: hotaru    14/01/2011    4 recensioni
Spin-off de “Die Uhr- L'orologio”
«Ad Al ronzavano le orecchie, e il cuore gli martellava in gola; non riusciva più a pensare ad altro se non che accanto a lui c'era sua madre.
Sua madre che in realtà era morta. Sua madre che avevano cercato di riportare in vita con una trasmutazione umana. Sua madre di cui un homunculus non era stato che la pallida ombra. Sua madre che era lì, al suo fianco, e dimostrava sì e no quindici anni.»
[Pairing a sorpresa]
Prima classificata al contest "Vedo, sento, scrivo- immagini, musica, storie" di elos.gordon e SaliceMcMay
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Altro personaggio, Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Al di là del Portale'
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1- Al cielo di Berlino e alle nuvole gonfie I versi citati appartengono alla canzone "In un giorno di pioggia" dei Modena City Ramblers. Tutta questa storia ne trae ispirazione


Regentage– Giorni di pioggia


Regentage

"Noi non giocavamo.

Volevamo solo...
 vedere il sorriso di nostra madre ancora una volta."

(Alphonse Elric, episodio 2)


Al cielo di Berlino e alle nuvole gonfie


Quella sera ad Al fu concesso di terminare il lavoro un po' prima, vista l'aria di festa che c'era in giro. Fece gli auguri al padrone della farmacia, sentendosi un po' in colpa per i grammi di medicina che ogni tanto regalava a Wilhelm, e uscì nella Berlino innevata.
Si era ormai al 31 dicembre 1923. Malgrado la povertà e la forte crisi, le luci lungo le strade annunciavano che la gente voleva festeggiare il nuovo anno come si deve, sperando in un miglioramento delle cose.
Le neve era ghiacciata in diversi punti, e bisognava prestare una certa attenzione a dove si camminava.
Sorridendo in una nuvola di vapore, Al si diresse verso casa. Era ormai da qualche settimana che lui e Ed abitavano presso una famiglia alla quale li aveva indirizzati Noa; erano rimasti non poco sorpresi quando avevano visto che i vari membri avevano le facce di Winry, del colonnello Mustang e del tenente Hawkeye. Tuttavia, nonostante lo spaesamento iniziale- sembrava quasi assurdo abitare con delle persone che già conoscevano, mentre costoro li reputavano dei perfetti estranei- si erano ambientati presto. In un certo senso, era un po' come essere a casa.
Non poté fare a meno di sorridere- di nuovo- mentre osservava il cielo scuro sopra di sé.
E, a volte, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa. Perché malgrado lui e Ed si fossero lasciati il loro mondo alle spalle, malgrado fosse probabile che nel giro di un decennio sarebbe scoppiata un'altra guerra, era felice.
Era felice di svegliarsi ogni mattina al caldo delle coperte, con la punta del naso ghiacciata per la temperatura che c'era fuori dalla tana del suo letto.
Era felice di alzarsi senza udire alcun clangore metallico; al massimo gli scrocchiavano le giunture, ma per quello bastava un po' di ginnastica.
Era felice di vedere la propria faccia riflessa nello specchio, piena di goccioline deliziosamente gelate mentre se la lavava. Era felice di rivedere le sue orecchie.
Per parecchio tempo, aveva perfino rischiato di mettersi a piangere dalla gioia ogni volta che per qualche motivo si feriva e gli usciva del sangue.
Sangue. Dopo averne visto a litri, nel corso delle loro avventure, finalmente poteva guardare il suo. Percepirne il calore; sentirne in bocca il gusto ferroso e leggermente acidulo. Non era mai stato così contento di farsi male.
E adesso, finalmente, era di nuovo con suo fratello. L'unico brandello di famiglia che gli fosse rimasto.
Si sentiva terribilmente egoista, perché il mondo attorno a loro stava rotolando giù per una discesa senza fine, verso un burrone di cui non si scorgeva il fondo.
Ma non poteva fare a meno di sentirsi anche terribilmente felice.     
- Salve! - una voce ormai familiare lo riportò alla realtà.
- Ciao. Come sta tua madre? -.
- Meglio, anche perché sono riuscito a comprare un po' di carbone e nella soffitta c'è meno freddo -.
La persona che l'aveva salutato era Wilhelm, un ragazzino berlinese che in quel mondo aveva la stessa faccia di Wrath. E, come Wrath, teneva moltissimo a sua madre.
- Ne sono felice -.
- Senti, Al – ormai aveva preso parecchia confidenza; poteva quasi dire di averci fatto amicizia – Sei mai stato nella Herzstraße? -.  (¹)
- “Herzstraße”? No, veramente non l'ho mai sentita nominare -.
- In realtà non è il suo vero nome – si corresse Wilhelm, pensieroso – Ma tutti la chiamano così... quindi non ci sei mai stato? -.
- No – veramente c'erano un sacco di posti in cui non era ancora andato.
- Allora ti ci porterò, ma non adesso: c'è troppo buio – decise lui.
- Cosa c'è di tanto speciale? Una chiesa? -.
- Eh? - Wilhelm quasi si mise a ridere – No, certo che no! Ogni tanto ci fanno un piccolo mercato, ma non è questo il bello. Comunque vedrai -.
Si voltò e corse via, in quella maniera improvvisa a cui Al aveva ormai fatto l'abitudine.
- Ehi, Will! - lo chiamò, anche se lui era quasi arrivato in fondo alla strada – Buon anno! -.
Forse il ragazzino lo sentì, perché alzò un braccio verso di lui, per poi ricominciare a correre. Pazzesco che non rischiasse mai di scivolare su una lastra di ghiaccio.
- Herzstraße... - mormorò Al, assaporando il suono duro di quella parola – Chissà cos'avrà di tanto speciale... -.


In realtà gli ci volle qualche settimana per scoprirlo. Verso l'inizio di febbraio la morsa del gelo si attenuò un poco: una perturbazione proveniente da ovest alzò la temperatura, facendo sì che invece della neve dal cielo cadesse la pioggia.
Tutta quell'acqua riempì le strade di un pantano incredibile: parte della neve si sciolse, mescolandosi a terra e polvere in una fanghiglia scivolosa che a volte era peggio del ghiaccio.
Fu in una di queste mattine che Wilhelm intercettò Al, mentre usciva dalla farmacia allo scoccare della pausa pranzo.
- Hai tempo? - gli chiese il ragazzino, arrivato di corsa dalla falegnameria in cui lavorava.
- Certo -.
- Allora andiamo! -.
Al si sentì quasi lusingato da tutta quella premura: di solito durante il pranzo Wilhelm correva dalla madre, invece quella volta era venuto da lui.
Si incamminarono, mentre il maltempo dava loro un po' di tregua. Il cielo sembrava incombere sulla terra, tanto era pieno di nubi scure, ma al momento nessun rovescio si era ancora abbattuto sulla città.
Stando dietro al ragazzino, Al perse ben presto l'orientamento: aveva smesso di cercare di memorizzare il percorso molti vicoli prima, mentre Wilhelm filava come un gatto, senza alcuna esitazione.
In realtà non dovettero metterci molto, perché presto il ragazzino esclamò:
- Eccola qui -.
Al guardò, e vide semplicemente una via berlinese. Piuttosto stretta, senza auto.
- Ah, sì? - domandò, cercando di capire perché fosse stato condotto lì.
- Non fare quella faccia! Il bello è più avanti – e Wilhelm si incamminò lungo il marciapiede, seguito da Al.
Al che, man mano che avanzavano, non poté fare a meno di lasciarsi andare al più genuino stupore.
- Ma... questo... che cos'é? - domandò infine, stupefatto.
- La Herzstraße. Il cuore di Berlino – dichiarò Wilhelm, pienamente soddisfatto della reazione di Al – Fanno tutti la stessa faccia, quando la vedono la prima volta -.
Al era ancora a bocca aperta, intento a bere ogni singolo particolare di quel... di quella meraviglia.
- È... bellissimo – non trovò altre parole, ma quella non era neanche lontanamente sufficiente.
- Già – Wilhelm annuì, mettendosi ad ammirarlo a sua volta.
Quello che stavano guardando era una specie di museo a cielo aperto. Lungo una parete sotto un portico erano appesi quadri di ogni sorta, qualche specchio e quadretti con immagini per bambini.
A terra, in una rientranza del muro, stavano pentole in rame, un mantice, un parafuoco e perfino degli alari per camino.
Dopo averlo osservato a lungo, Al si voltò verso Wilhelm. Doveva avere un'espressione piuttosto interrogativa, perché il ragazzino rispose subito:
- Da quel che so, ha cominciato un vecchio signore che aveva perso la moglie e la casa durante un bombardamento. Si era salvato solo un quadro, e l'ha appeso qui. Due giorni dopo qualcuno ha fatto lo stesso. E così via -.
- Quindi... tutte queste cose si sono salvate da case bombardate durante la guerra? -.
- Non solo. All'inizio era così, ma poi hanno iniziato a portare qualcosa anche quelli che erano riusciti a salvare tutto. E chi poi ha cominciato ad andarsene, verso l'America, prima di partire ha portato qui un piatto o un'immagine religiosa. Neanche fosse una chiesa – scherzò infine.
No, non era una chiesa, ma Al poteva capire. Quelle cose ricordavano alla gente la propria casa e tutto ciò che era loro caro. Anche se abitazioni e famiglie erano ancora intere, era stato importante portarci qualcosa di significativo. Perché, se i cuori della gente erano stanchi e le loro pance vuote, lì sopravviveva Berlino.
- È o non è il cuore della città? - chiese orgoglioso Wilhelm – Ancora adesso, ogni tanto qualcuno porta qualcosa -.
- E tu? - domandò Al – Che cosa ci hai messo? -.
Il ragazzino sorrise, avvicinandosi al muro.
- Questo – indicò una specie di piatto rotondo, con l'immagine di un bambino accovacciato davanti a dei topi, forse ripresa da una fiaba – Avrei potuto portarlo nella soffitta in cui viviamo adesso, ma mi piaceva di più l'idea di averlo qui. Tanto nessuno ha mai rubato niente -.
- Ma scusa... e quanto piove o nevica come fate? Non rischiano di rovinarsi? -.
Wilhelm scosse la testa.
- Se ne occupano gli abitanti di questa via. Al primo accenno di maltempo sistemano un grosso telo che copre il porticato, così non entra niente ma la gente può continuare comunque a vedere il muro. Ci tengono molto, sai? Attira un sacco di persone -.
- Ah, lo immagino -.
Al sorrise, tornando ad ammirarlo. Era splendido, quasi un rito di devozione laica. Anche se si era ancora nel pieno dell'inverno, all'aperto, in un certo senso quello era il punto più caldo di tutta Berlino.


Ma la tregua durò poco. I vecchi dicevano che non si era mai vista tanta acqua, tuttavia una settimana più tardi Al non resistette più: durante la pausa pranzo, sotto la pioggia battente e un vento quasi dispettoso, si incamminò alla volta della Herzstraße.
Durante il ritorno, la volta precedente, erano andati più lentamente perché Wilhelm potesse spiegargli la strada vicolo per vicolo, e adesso era sicuro di saperla ritrovare.
Ombrello in mano, incurante della pioggia che gli inzuppava i pantaloni, riuscì ad arrivarci in un tempo relativamente breve.
Wilhelm aveva ragione: ora davanti al muro era stato accuratamente sistemato un grande telone che lo riparava dalle intemperie. Vi si infilò sotto, notando che un lampioncino sul soffitto del porticato illuminava quella porzione di spazio in modo quasi intimo.
E ogni pezzo era ancora al proprio posto: aveva quasi dell'incredibile che nessuno avesse cercato di rubare perlomeno una pentola, visti i tempi che correvano.
Si mise ad osservare ogni quadro da vicino, provando ad immaginare il motivo che avesse spinto i loro padroni a portarli lì. Che cosa c'era di così importante, nell'immagine di quella locanda affollata, da dover mostrare alla popolazione dell'intera città? Quale ricordo portava con sé quel quadretto di fiori di campo? E quella cartina geografica?
Al era talmente immerso nelle sue congetture da non accorgersi che il telone si era alzato di nuovo, e che qualcun altro si era infilato in quell'angolo accogliente.   
In quel momento era impegnato ad osservare un grande quadro rappresentante una casa su un fiume, con vari alberi sullo sfondo. Non ne era sicuro, ma non credeva che si trattasse di un quadro dipinto dal vivo. Aveva un non so che di...
- Ti piace quel quadro? - chiese una voce al suo fianco, che lo fece quasi sobbalzare perché pensava di essere ancora solo.
- Come? Ah sì, io... - si voltò e l'aria gli mancò. La cercò, ma per un momento annaspò nel vuoto.
- Tutto bene? - chiese il suo interlocutore, una ragazza di forse quindici anni.
Si impose di calmarsi, perché si rese conto di stare fissando ogni singolo particolare del suo viso, e lei stava cominciando a spaventarsi.
- Io... sì, sto bene – riuscì ad articolare, costringendosi a distogliere lo sguardo – È solo che... non mi ero accorto che fosse arrivato qualcun altro -.
- Oh, sono silenziosa quando voglio – sorrise lei.
Ad Al ronzavano le orecchie, e il cuore gli martellava in gola; non riusciva più a pensare ad altro se non che accanto a lui c'era sua madre.
Sua madre che in realtà era morta. Sua madre che avevano cercato di riportare in vita con una trasmutazione umana. Sua madre di cui un homunculus non era stato che la pallida ombra. Sua madre che era lì, al suo fianco, e dimostrava sì e no quindici anni.
- Allora? Ti piace questo quadro? - domandò lei di nuovo, indicando l'immagine che Al stava guardando poco prima. Poco prima che il cielo sopra Berlino gli cadesse addosso.
- Sì – respirò a fondo – Mi piace perché... esprime una nostalgia struggente -.
Ecco cos'era quel “non so che” che sentiva prima. Finalmente era riuscito a definirlo.
- Già, è così – la ragazza sorrise, di quel sorriso dolce che forse avrebbe fatto scoppiare Ed a piangere in mezzo alla strada – L'ha dipinto mio fratello -.
- Davvero? -.
- Sì, lui... ha dipinto casa nostra, in Irlanda – i suoi occhi azzurri sorrisero –  L'ha dipinto per me, perché io non l'ho mai vista -.
- Non l'hai mai vista? -.
Lei scosse la testa.
- I miei sono emigrati qui prima che nascessi, ma... - si voltò verso di lui, scuotendo i capelli castani raccolti in una treccia morbida – Sono irlandese fino al midollo -.
Sembrava avere un certo carattere, cosa che non ricordava molto di sua madre.
- Davvero? Beh... nemmeno io sono mai stato in Irlanda – finora di quel mondo aveva visto solo la Germania, ma non gli sarebbe dispiaciuto girovagare un po'. Non dopo che il loro mondo l'avevano percorso in lungo e in largo.
Lei sorrise di nuovo.
- E tu? Ci hai portato qualcosa? O qualcuno della tua famiglia, è chiaro -.
- Io... veramente questo posto l'ho scoperto da poco. Me l'ha mostrato un ragazzino che conosco -.
- Quindi non vivi a Berlino da molto -.
- No, infatti – rispose Al.
La ragazza annuì, come chi comprende perfettamente una situazione.
- Già, questo non è un posto che qualunque forestiero può conoscere – affermò.
Al avrebbe avuto centinaia- migliaia- di cose da chiederle, da dirle, ma non ce n'era nessuna che non suonasse come la fantasia di un visionario.
Anche perché quella non era sua madre, ovviamente. Ma la logica non riusciva ad impedire al cuore di impazzire nel pantano della nostalgia, tanto che stava cominciando a sentire un pericoloso nodo alla gola.
- Beh, devo andare – disse lei ad un certo punto, sorridendo al quadro – Ma tu guardalo pure quanto vuoi, sai -.
- Grazie – non trovò di meglio da dirle, mentre la ragazza gli faceva un cenno di saluto e usciva dalla nicchia asciutta sotto il telone, tornando al vento e alla pioggia senza che lui potesse farci niente.


È in un giorno di pioggia che ti ho conosciuta...


Nel corso dell'intera giornata non riuscì a pensare ad altro. Ci pensò tanto che alla fine quell'incontro assunse i contorni indefiniti di un sogno, come se si fosse immaginato tutto.
Oh, ma lui sapeva bene che non era così.
Ci pensò tanto che si scordò incredibilmente di dirlo a Ed. O forse non volle dirlo a Ed; solo per un po'.
Il giorno successivo, naturalmente, si precipitò nella Herzstraße non appena scoccò il mezzogiorno. Pioveva- ancora- e non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo quando si infilò sotto il telone e la trovò già lì.
- Ehi, salve! - fece lei – A quanto pare nessuno riesce a stare lontano da questo posto -.
- Già – convenne Al, anche se non era esattamente quel posto ad averlo attirato lì.
- Io non riesco a stare lontana da questo quadro – disse – È l'unica cosa che mi è rimasta di mio fratello -.
- Vuoi dire che è... - Al non completò la frase, ma la ragazza sembrò capire perché scosse la testa.
- Oh no, non è morto. Ma è così lontano che è come se lo fosse – si morse le labbra – Se n'è andato in America, dopo la fine della guerra. Ogni tanto scrive, ma... non è la stessa cosa -.
- Sì, capisco – disse Al, avvicinandosi – Sai, anch'io ho un fratello, e ne sono stato separato per circa due anni. Ma ti posso assicurare che il tempo non cambia nulla -.
- Lo spero – sospirò lei, rabbuiandosi leggermente, ma si riprese subito: - A proposito, io mi chiamo Tiarnan -.
Gli tese una mano, che lui strinse quasi con riverenza. Strano, però: quando la toccò non ebbe alcuna sensazione di déjà vu. Era la semplice mano di un'estranea con cui stava facendo conoscenza.
- Non mi sembra un nome tedesco – osservò.
- No, infatti. Te l'ho detto che sono irlandese fino al midollo – anche sotto quella pallida luce, notò come quegli occhi color dell'acqua scintillassero d'orgoglio.
- Io sono Alphonse – si presentò lui – Ma nessuno mi chiama così -.
- Al, allora? -.
Annuì, mentre fuori da quel riparo improvvisato la pioggia continuava a cadere a rovesci.
- Sei francese? - domandò ancora lei.
- No, ma... vengo da piuttosto lontano -.
- Più lontano dell'Irlanda? -.
Al ci pensò su un attimo.
- Abbastanza – rispose infine.
- Oh, io non so niente di geografia – fece Tiarnan – So a malapena che l'Irlanda si trova a ovest, nella direzione in cui tramonta il sole e da cui proviene il vento che porta la pioggia -.
Tacque un momento, ascoltando.
- Esattamente questo qui -.


E il vento dell'ovest rideva gentile...



(¹) Letteralmente, “via/strada del cuore”, in tedesco






Questa storia si è classificata prima al contest “Vedo, sento, scrivo- immagini, musica, storie” di elos.gordon e SaliceMcMay. Un risultato che mi sembra ancora incredibile, e non posso che esserne contenta.
Dovevamo basarci su un'immagine (questa) e una canzone- io ho scelto “In un giorno di pioggia” dei Modena City Ramblers- per scrivere la nostra storia.
Ringrazio infinitamente le giudici e faccio i miei complimenti a tutti gli altri partecipanti!
Come dice l'introduzione, questa fic è uno spin-off dell'altra mia storia “Die Uhr- L'orologio”, ma secondo le giudici la si poteva leggere anche senza conoscere la fic di partenza... a voi la scelta.
Spero che vi possa piacere, e qualsiasi commento è sempre ben accetto! ^^


Rispondendo alle recensioni dell'ultimo capitolo de “Die Uhr- L'orologio”:
Rain e Ren: caspita, hai trovato nella storia dei significati a cui io stessa non avevo pensato, ma hai perfettamente ragione! È  tutto un cerchio, come in effetti dici tu- qualsiasi riferimento ai “cerchi alchemici” è puramente casuale- XD. La frase “Il tempo gira in tondo” mi ha colpito fin dalla prima volta che l'ho letta, mi ha praticamente aperto un mondo.
Bene, la teoria dello scambio equivalente tra i due mondi sta prendendo piede. ^^ Scherzi a parte, sono felicissima che la storia ti sia piaciuta, dall'inizio alla fine, e ti ringrazio di avermelo fatto sapere!   
Spero davvero che possa piacerti anche questa.
Birby: a dire il vero Bradley e Mei non so chi siano, dato che non ho mai seguito la serie “Brotherhood” o letto il manga... comunque qui un pairing ci sarà, e anche piuttosto inaspettato.
Guarda, pensare che la chimica è molto simile all'alchimia mi ha aiutato quando dovevo studiare per qualche compito. XD Comunque sì, il legame c'è.
Sono contenta che il finale ti sia piaciuto, temevo risultasse un po' troppo “aperto”, perché in effetti non conclude niente. E spero che ti piaccia anche questa storia. ^^
Ezzy O: l'altra storia si è conclusa, ma la serie continua... non vi libererete di me tanto facilmente. XD
Sono lusingata che tu l'abbia inserita nei Preferiti, davvero. E... sì, di altri lavori ne ho in mente parecchi. ^^
Musa Talia: sì, la tua risposta al mio commento è arrivata. A quanto pare il nuovo sistema funziona, per fortuna! Prima anche a me capitava che, utilizzando il servizio “Contatta”, le mail non arrivassero...
Come vedi, in realtà questo spin-off è ambientato durante l'altra storia e, in termini temporali, termina prima della fine dell'altra. Detto così può sembrare un po' complicato, ma spero che andando avanti le cose si chiariscano. ^^
Ti ho spoilerato un po' la storia, ma neanche di tanto- spero- e mi auguro che possa essere all'altezza delle aspettative.
Sono contenta che il finale dell'altra abbia funzionato: temevo che potesse risultare troppo aperto, invece così non è stato... Oh, “Bratja” commuove anche me: riguardando la prima serie, ogni volta che si sentiva in sottofondo (in momenti particolarmente studiati, oltretutto), mi si strizzava il cuore.
Grazie ancora per aver recensito puntualmente ogni capitolo, mi ha fatto davvero piacere! ^^
Shatzy: oh, il bambino ci sarà, eccome se ci sarà! Ma bisognerà attendere un po', perché questo spin-off è ambientato in contemporanea all'altra storia. Sarà più breve, comunque.
Devo dirlo ancora quanto sia contenta che la long ti sia piaciuta? Beh sì, lo ripeto. ^^ 
   
 
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