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Autore: Silver Pard    15/01/2011    12 recensioni
Per il Bene Superiore. Harry se ne rende conto.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Potter, Tom O. Riddle, Tom Riddle/Voldermort, Voldemort
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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L’eterno ritorno



Ecclesiaste 1:9: Quello ch’è stato è quel che sarà; quel che s’è fatto è quel che si farà; non v’è nulla di nuovo sotto il sole.



Nasce all’orfanotrofio, con un grido di orrore, rabbia e confusione.

Passano due anni prima che Tom riesca a impedirsi di rispondere automaticamente al nome di “Harry”. Non sa come o perché sia finito nel corpo di Tom Riddle, e non sa cosa dovrebbe fare, e la paura che cambiare qualcosa possa cancellare il suo futuro io lo paralizza.

Cose orribili sono successe quando i maghi hanno interferito col tempo, sussurra Hermione nella sua testa.

È un bambino strano; piange di rado, e la magia bisbiglia nelle orecchie di chi gli sta attorno. Si chiede se i bambini riescano a percepire che c’è qualcosa di sbagliato in lui, e se sia questo il motivo per cui lo picchiano con tutta la crudeltà di cui dispongono.

La prima volta che aizza la magia contro un bambino, ferendolo, corre in bagno a vomitare. Per un tempo interminabile rimane a fissare il proprio riflesso nello specchio, cercando due occhi rossi.

La professoressa McGranitt mi ha raccontato… che sono successe cose orribili ai maghi che hanno interferito col tempo.

Harry Potter era stato un bambino maltrattato, tenuto all’oscuro della propria forza, della magia che lo proteggeva. Tom Riddle era stato un ragazzo feroce e solitario, che possedeva una grande magia e sentiva il bisogno di dominarla. Harry non è più un bambino maltrattato, e non si farà maltrattare mai più. È questo che ripete a se stesso. Quando arriva Silente, riesce già a controllarla molto più di quanto non avrebbe creduto possibile dal bambino indifeso che era stato, chiuso a chiave nel sottoscala e ignaro della propria sostanza.

Vorrebbe scattare in piedi e spifferare tutti i suoi segreti nel momento in cui Silente varca la porta. Vorrebbe che Silente si accollasse il peso di una cosa per cui non è e non sarà mai pronto, vorrebbe che Silente gli dicesse cosa fare proprio come prima gli aveva programmato tutta la vita, vorrebbe che Silente gli strappasse di dosso quella conoscenza e se la tenesse, per il Bene Superiore.

Ma Silente lo guarda – il benevolo, saggio Silente – con evidente disprezzo, in contrasto in tutto e per tutto con i sorrisi che aveva elargito all’ugualmente orfano e ugualmente oppresso Harry Potter, e Tom capisce che a quest’uomo non può dire nulla.

Per il Bene Superiore, sputano i suoi ricordi, disgustati. La magia è potere, bisbiglia il volto di Lord Voldemort.

Non dice nulla, si limita a ripetere quello che aveva sentito una volta in un Pensatoio. Il rifiuto di Silente punge, affonda i denti e gli si dimena sotto la pelle come i serpenti con cui ha fatto amicizia per arginare la solitudine. Non può fidarsi di Albus Silente, e se non può fidarsi di Albus Silente non può fidarsi di nessuno.



Sa che nessuno crederà mai che il giovane Lord Voldemort abbia potuto avere una reazione del genere, ma la prima volta che vede Hogwarts sente le lacrime minacciare di cadere ed è costretto a chiudere forte le palpebre, fingendo di non riuscire a credere ai propri occhi dal nato babbano quale è.

Dentro di sé, delirante di gioia, grida. Dentro di sé, bacia il pavimento di pietra, dentro di sé accarezza i muri e giura che non se ne andrà mai più, che qui ci tornerà sempre, che questa sarà per sempre casa sua. Per tutti gli altri invece è calmo e attento, colpito ma non intimidito. Questo è il luogo in cui imparerà a usare la magia, il luogo in cui troverà gli strumenti per diventare grande, niente di più.

Si morde il labbro inferiore mentre si siede sotto il Cappello, mormorando continuamente Serpeverde, perché sarà pure all’oscuro di tutto, ma quello che Tom deve essere lo sa.

Cose terribili succedono ai maghi che interferiscono con la storia, pensa, e se il Cappello l’ha sentito non lo dimostra, smistandolo semplicemente nella casa che una volta gli aveva detto l’avrebbe indirizzato sulla strada della grandezza.



Tom Riddle è molto probabilmente lo studente più brillante che Hogwarts abbia mai avuto. Beh, almeno così ha sentito dire, perciò deve fare in modo che diventi realtà, e quando ci riesce sul serio stenta a crederci.

È popolare e più potente di quanto dovrebbe, data la sua età; assimila in fretta ed è anni avanti ai suoi compagni. Lavora sodo per i suoi insegnanti, estorcendo loro con classe e astuzia tutta la magia su cui per logica può indagare. Vorrebbe essersi preso la briga di farlo quand’era Harry Potter ed era circondato da maghi e streghe pericolosissimi e con anni di magia in più alle spalle.

(Come faceva Tom a sapere cosa fosse un Horcrux? Dove ne ha reperito le tracce, per chiedere informazioni a Lumacorno? Ha cercato ovunque una scusa ma proprio non riesce a trovarla, nemmeno tra i libri marchiati di nero e densi di parole della Sezione Proibita.)

Impara ad ammaliare e sedurre, attira le persone a sé. Chiama coloro che riconosce dai ricordi del pensatoio, maghi dal sangue puro capaci e potenti. Non sono amici suoi, e la considerazione che ha di loro è di puro disgusto: ricorda bene i verbali dei loro processi, gli elenchi dei loro crimini. Sono Mangiamorte, feccia – maghi più potenti che ragionevoli, che seguono un folle e uccidono le persone a cui ha voluto bene, distruggendo vite, annientando famiglie.

Tuttavia li conquista, perché Voldemort è nulla senza seguaci, i suoi fedeli. Li ammalia, li alletta, mente a denti stretti, e in certi casi, insegna loro la paura.

Non era sua intenzione uccidere Mirtilla. Non che comunque la sua morte l’abbia sorpreso. Si ripete che era inevitabile, che la storia si avvinghia alle sue verità. Non si chiede perché non abbia semplicemente abbandonato il basilisco al suo sonno dopo la piena di pietrificazioni. Piuttosto, vorrebbe sapere come fosse venuta a Tom l’idea di cercare l’entrata della Camera nel bagno delle ragazze.

Non si domanda se il fascino esercitato dalla creatura valesse la morte di una ragazza o l’espulsione di Hagrid. Non lo stupisce che di notte riesca a dormire senza problemi. Adesso è Tom Riddle – certo che ci riesce. Può farlo. Lo farà.

« Sarò grande » aveva detto il vero Tom Riddle mentre Ginny, gelida, respirava a fatica ai suoi piedi. E a modo suo, un modo terribile e retrogrado, Voldemort è stato grande, e questo non è stato che il primo passo. I primi passi vanno fatti, altrimenti come potrebbe mai cominciare questa storia e portarla al suo inesorabile epilogo?

Buone intenzioni. Non ci sono sempre quelle alla base di tutto? Beh, le intenzioni di Tom sono tutte egoistiche. Vuole che Harry Potter viva; non vuole cancellare inavvertitamente se stesso. Ha paura di sconvolgere la storia e il tempo, e questo suo terrore lo confina a una strada stretta.

Nessuno lo libererà mai da questo fardello come aveva sperato, pregato anni prima, quando le cose terribili che aveva sentito dire su Voldemort gli imbrattavano i sogni di un orrore che lo faceva svegliare tra i singhiozzi.

Perciò segue un sentiero già disegnato, e non riesce a mentire neanche a se stesso riguardo alle sue ragioni. Lui sa che quello che sta facendo – e farà – è sbagliato. Non può giustificarsi e non ha particolarmente voglia di farlo. Sprofonda nella magia, riuscendo a zittire abbastanza bene il suo vecchio io. Se in questo c’è una verità nascosta, gli sfugge.

Ricorda gli incantesimi dei Mangiamorte, si concentra su di essi e li ricostruisce lavorando di memoria, riproducendoli ad arte sotto ogni sfaccettatura. Morsmordre, sussurra, e appare un teschio verde brillante con un serpente che gli spunta dalla bocca. È più facile di quanto non avesse creduto, e questo lo porta a riflettere: questi incantesimi vogliono essere creati, sono già stati creati – il loro ricordo esiste già nella sua testa e vogliono uscire. Così lui glielo permette, ben sapendo che alla gente basterà anche solo vedere quello meno nocivo per urlare.



Tocca al confronto con i Riddle, ma la rabbia e il disprezzo non sono simulati. Questi… queste persone, babbani, stupidi, a modo loro sono responsabili per la nascita di Voldemort.

Voldemort. Chissà cosa avrebbe potuto diventare Tom Riddle se Merope fosse tornata dai Gaunt.

Per un po’ farnetica, racconta loro per filo e per segno ciò che hanno creato abbandonando il figlio di Tom Riddle quando era ancora in fasce, si invischia in una situazione tale che alla fine non gli rimane che seguire la storia e ucciderli.

Deve abituarcisi, deve creare l’horcrux-diario, solo il primo di altri sette – e deve lasciarsi Harry Potter alle spalle e impugnare il ruolo che gli è stato imposto dalla propria storia. Persino Harry ha usato l’Imperius e la Cruciatus – due maledizioni “Senza Perdono” su tre. Può farcela.

Esiste solo il potere, gli recita il ricordo del vero Lord Voldemort. Esiste solo il potere, e se ne accumulerà abbastanza potrà alterare il destino. Deve farlo.

Fa propri il disprezzo, e l’odio, e l’arroganza disinvolta del Tom che aveva incontrato nel diario, che era così sicuro di poter fare qualsiasi cosa, di poter far tremare il mondo – chi può esserne più sicuro di lui! – e lancia la maledizione assassina tre volte. La mano non gli trema abbastanza da fargli sbagliare la mira.

Dopo vomita, dopo si risveglia madido di sudore freddo, dopo piange per un’innocenza perduta, per il dolore sordo dentro di lui. Dopo, dopo, dopo, e poi mai più.



Il suo riflesso lo disturba, anche adesso che ha sedici anni e ormai dovrebbe aver fatto l’abitudine al bel viso che lo accoglie ogni giorno, sorridendogli con gli occhi vuoti. Malgrado i capelli ordinati e gli occhi neri somiglia ancora troppo a Harry Potter. Non vede l’ora di sbarazzarsi dello sguardo soffocante di Silente, quando potrà finalmente scovare quei rituali e quelle arti e il peggio del peggio della magia che faranno di lui una persona nuova.

Perderà i bei lineamenti e il fascino untuoso e consapevole che inganneranno una bambina di dodici anni al punto da convincerla a fidarsi più del ricordo di un diario che di un amico che conosce da due anni.

Ora capisce come Voldemort fosse riuscito a cedere così volentieri la propria bellezza in cambio del potere. Harry non sarebbe capace di odiare questa faccia e il suo sorriso affabile. Non c’era da meravigliarsi se uno dei suoi primi colpi era stato Ho visto quello che sei adesso, e sei soltanto una carcassa.

Un paio di occhi rossi, pensa Harry, si addicono di più a un assassino.



Due sono le verità ormai radicate nel suo essere: succedono cose orribili ai maghi che interferiscono con la storia; cose terribili devono essere compiute per il Bene Superiore.

Mi dispiace, dice al ricordo di Silente. Mi dispiace di non aver capito allora, ti ho giudicato in maniera troppo severa. Ora capisco; hai fatto ciò che dovevi fare – o che farai.

Si è quasi – quasi e mai del tutto – abituato a spaccarsi in tanti pezzi; abituato al dolore, al vuoto, all’eco, al peso.

Ora gli piace il suo riflesso, lo sguardo sfocato di un Tom ridipinto: la crudele forma di Voldemort – così facile da odiare, così precisamente classificabile – sta uscendo dal bozzolo. Si guarda allo specchio e pensa, questa è una faccia per cui Harry Potter può provare terrore, odio, disgusto. È una faccia che gli insegnerà che il potere corrompe, che dovrà conservare quanta più purezza concessagli dalla guerra.

Gli piace che a ogni frammento di se stesso che perde diventi più semplice recitare la parte di Voldemort. Gli piace la reazione di Silente quando lo vede, il suo rifiuto nell’esaudire una semplicissima richiesta. Chissà se glielo avrebbe dato, il lavoro, se si fosse presentato con il vecchio aspetto di Tom.

Non che conti molto: Harry non è Tom, che avrebbe potuto essere dissuaso dal suo dovere con un semplice sì e con l’opportunità di stare nel luogo che amava. Harry sa come devono andare le cose, e dopo aver lanciato la maledizione ripone il diadema con molta cura sul busto dello stregone in cima all’armadio della Stanza delle Necessità.

Non importa che Silente gli abbia negato la sua casa; una parte di lui è rimasta comunque lì. La dolce Hogwarts, detentrice della sua anima divisa e del suo cuore dilaniato, dove incontrerà la morte e le si prostrerà. Non gli viene in mente posto migliore per morire, Oscuro Signore o no.



Gli sono sempre sfuggiti i moventi e i metodi di Voldemort. Decide che tirerà a indovinare perché, se non altro, Voldemort aveva definito un’intera generazione di maghi e streghe. Non può permettere che la storia gli si sgretoli attorno per la mancanza di una direzione, non dopo tutto quello che ha già fatto.

Per il potere, per il Bene Superiore, dice ai suoi seguaci. Ricorda vagamente la sensazione da pugno nello stomaco che lo aveva colpito quando si era reso conto di essere stato manovrato, e ha abbastanza ricordi del crudele senso dell’umorismo del vero Voldemort per trovare amaramente divertenti le proprie parole.

Non importa che le sue ragioni siano vaghe e i delitti dei suoi seguaci sempre più mostruosi, perché lui sta solo seguendo la strada tracciata dalla storia che conosce. Forse il motivo per cui non ne sapeva nulla è che l’unica cosa da dire era: “c’è stato questo mago che è diventato così marcio che più marcio non si può”. In effetti spera che sia così, e questa speranza gli fa capire quanto sia caduto in basso più di quanto non riescano a fare il numero crescente di morti, le torture, l’oscurità, più di ogni altra cosa.

Cose orribili sono successe ai maghi che hanno interferito con il tempo, dice Hermione. L’Hermione che nascerà solo tra qualche anno, che sarà una dei suoi migliori amici, la sua saggezza e il suo sostegno, la sua prudenza e il suo buon senso.

E chi è lui per mettere in dubbio la parola di Hermione Granger, pensa cupamente, rigirandosi la bacchetta tra le dita – tasso e piuma di fenice, la sente ancora un po’ strana quando la prende nel cuore della notte e vaga per i corridoi chiedendosi dove si trovi e chi sia.



La prima volta che vede Regulus Black gli si mozza il fiato e non riesce a pensare. È come un’eco, un riflesso diluito di Sirius, e mentre lo guarda sente un qualcosa che aveva imparato a ignorare molto tempo fa. Non sa se odia Regulus perché non è Sirius, o se gli vuole bene perché è la cosa che più gli si avvicina che ormai possa avere.

Ma conosce il suo destino. Perciò, fino a quando non arriverà il momento di strappargli il velo dagli occhi, ignorerà Regulus Black, quel facsimile bigotto, il rampollo purosangue. Ma Bellatrix, la fervente Bella…

Non è a Sirius che pensa quando la guarda, nonostante riconosca quella naturale bellezza arrogante che contraddistingue i Black. Pensa a Ginny e ai suoi occhi ardenti, a quella bocca sulla sua. A Ginny, che scriverà a Tom Riddle e ne rimarrà affascinata fino a perdere il senno. A Ginny, che gli diceva chiaro e tondo quando si comportava da stupido, che non gliela dava vinta tanto facilmente. A Ginny, che avrebbe potuto sposare, se fosse sopravvissuto (ha cominciato a pensare di essere morto, e che questo sia il suo inferno, ciò che viene dopo la stazione).

« Bellatrix Black » dice, e le tocca i capelli, ripensando agli occhi grigi e al volto ridente di Sirius, e la guarda sgranare gli occhi, sapendo di averla in pugno. A differenza di Sirius, lei non se ne andrà mai, e allora la bacia. Gli manca il suo padrino, così vicino, così lontano, così qui eppure altrove, l’unica famiglia che avrà mai. « Bella » dice, e pensa alla risata che entrambi non perderanno fino alla morte, a quella follia che sfiora tutti i Black.

Ha perso il suo padrino, e perderà Regulus, l’ombra smunta del luminoso Sirius, ma lei può tenersela. Non nutrirà mai niente per lei, mai e poi mai, e ciononostante non la scaccerà, perché è passato tanto di quel tempo, e lei lo guarda con la stessa devozione azzardatamente concessa di Sirius. « La mia Bella. » mormora a bassa voce, assaporando l’idea, e fingendo di non riuscire a vedere la sua espressione.

Ha ucciso Sirius. La ucciderò!

E non è forse così?



Entra nella casa che non ricorderà mai, stende suo padre come un insetto e fissa a lungo il suo corpo schiantato. Ma no, ricorda, lui crescerà con i Dursley, troverà la sua casa a Hogwarts, che gli aprirà le porte come le aveva aperte a Tom. Crescerà senza l’arroganza di James, senza la gioia maliziosa di Sirius nell’infrangere le regole, senza il senso del valore di Lily; senza la tradizione a guidarlo o l’amore a proteggerlo.

« Avada Kedavra » mormora, e sale le scale, usando ogni secondo superfluo per ricordare a se stesso che deve farlo. Non dovrebbe averne bisogno, non dopo così tanto tempo, ma è più forte di lui.

Probabilmente, lei starà pensando che lo faccia apposta, ad allungare il momento della sua morte, per farle battere all’impazzata il cuore e fare in modo che la paura la renda indifesa. Lord Voldemort non conosce il dubbio, non sta fermo davanti a una porta per cinque minuti solo per convincersi che è per il Bene Superiore, perché deve, che sta per fare una cosa orribile.

Le dice di farsi da parte, sapendo che non lo farà. Non le chiede di Piton, che tradirà l’uomo che è diventato. In questo momento è completamente dimentico di Severus Piton, l’uomo più coraggioso che conoscerà mai, che soffrirà per anni per l’involontario tradimento dell’unica amica che avesse mai avuto, un’amica che quasi gli aveva tolto il saluto da quel giorno d’estate in cui, umiliato e provato oltre ogni limite, era scoppiato senza pensarci in uno sporca mezzosangue.

Mamma
, pensa, e si rallegra gli occhi osservando quella vibrante donna spaventata che vede per la prima volta in carne ed ossa. « Fatti da parte » sussurra, ringhia, ruggisce, sperando che lo faccia, sapendo che non lo farà, sentendo il tempo e il destino contrarsi attorno a lui e spremergli l’aria dalla gola, e quando la uccide ride, e ride, perché cos’altro può fare? Tutto il dolore della sua vita, tutto ciò per cui ha odiato Voldemort è opera sua.

« Avada Kedavra! » grida al se stesso bambino, e accoglie l’agonia come una giusta punizione.



Gli anni passano, vuoti se non per una formula ripetuta all’infinito: sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere. Quando Raptor inciampa sulla sua strada ha già imparato a rimpiangere i suoi sentimentalismi – è quasi impazzito per la paura e le recriminazioni che si è fatto; il terrore gli ha addentato le caviglie inesistenti e lo ha spinto a muoversi senza posa, per il timore che riposare, fermarsi anche solo un po’, avrebbe potuto significare cessare di esistere come sa che deve.

Attacca, possiede e converte Raptor dalla sua parte con tutta la potenza e l’eloquenza che ha a disposizione, e gli si stringe saldamente, perché deve vivere, deve assicurarsi che Silente sappia che ha continuato a esistere e senta il bisogno di chiedersi il perché. Non deve allentare la presa sui fragili fili che lo legano alla vita, non può permettersi di fallire proprio ora.

Lui è Lord Voldemort, colui che teme la morte, e lui è Harry Potter, colui che l’ha vinta, e per lui, questo bizzarro amalgama di una parte che prova a essere l’altra, non esistono bene e male, esiste solo il potere. Solo il potere che deve trovare, agguantare e conservare, ciecamente, senza ragionare, in modo che un ragazzo possa ucciderlo, in modo che un ragazzo possa vivere, essere felice e invecchiare, e avere tutto ciò che lui ha perso. Solo il potere.

Merlino, quanto è piccolo il ragazzo. Ha gli occhi così verdi, così – ingenui, così ignari delle forze che lo controllano. Capisce benissimo perché Silente non riesca a trovare la forza di dirgli che morirà per il Bene Superiore.



Lui conosce il piano e ogni suo passo. Lui non ha bisogno di far del male a Bertha Jorkins, vista la sua memoria danneggiata, la sua mente segnata dalla magia. Non ha bisogno di distruggerla, di ascoltare le sue grida mentre implora pietà. Non ha bisogno di frugare nella sua mente e lasciarla in frantumi; non ha bisogno di svuotarle la testa di tutto.

Ma Voldemort ne ha, perché conosce Codaliscia, che potrebbe scappare se pensasse di poterla fare franca. Sa di aver bisogno dei dettagli che solo Bertha gli può procurare, dettagli di sicurezza e minuzie che potrebbero rovinarlo e rendere inutile l’intero processo. Lui sa, sa cosa deve fare, ed è troppo vecchio, troppo lacerato, e ha perso da troppo tempo la sua innocenza per dispiacersene.

In fondo lui è Lord Voldemort, e Voldemort non conosce il rammarico.

Se riuscirà in quest’impresa, tutto ciò che ha fatto non conterà più, perché Harry Potter vivrà, vivrà nel proprio tempo e nel proprio corpo e non cadrà. La sua vita vale di più di quella di una strega, condotta tra le sue grinfie da un destino crudele. Vale di più delle innumerevoli vite che ha tolto per non mutare il corso della storia.

Ne vale la pena, si dice, fissando le fragili mani dell’orrenda carcassa improvvisata che ha al posto del corpo. Deve valerne la pena.



Il suo corpo è esattamente come se lo ricorda, e lo esamina estasiato, esultante. Sì, sì, sì, perfetto. È questo che ricorda, è questo quello che sa: non ha deviato la storia, non ha cancellato nulla.

Ricorda il discorso, e lo recita parola per parola. Cammina, si muove con la grazia mortale che lo aveva terrorizzato quando aveva quattordici anni ed era legato a una tomba.

Lascialo morire, lascialo annegare.

Sibila ai momenti giusti, usa i nomi che ricorda di aver urlato a Caramell, incalzando la rottura tra il Ministro e Silente. Ride con la giusta quantità di malizia, con la giusta sfumatura di indifferenza che si rintanerà nella sua pelle dove rimarrà per sempre e diventerà il ricordo evocato dai dissennatori.

Ti prego, fa’ che sia annegato.

Poi si volta, e dice a Codaliscia – mai Peter, mai il nome dell’amico di suo padre, quel lurido ratto – di liberarlo e di restituirgli la bacchetta. I suoi seguaci pensano che stia giocando, che voglia torturare il suo ospite d’onore come se fosse un topo intrappolato tra i suoi artigli – alzati, alzati, affrontami, sii pronto a scappare quando te ne darò l’opportunità, piccolo sciocco.

« Crucio. » dice, e si guarda contorcersi e urlare senza sentire niente – il ragazzo deve imparare come aveva imparato lui a sua volta, deve capire con cosa sta combattendo, deve diventare più forte, ed è così che devono andare le cose.

Ricorda l’umiliazione, ricorda il nulla delizioso, « Imperio. » e ordina a se stesso di inchinarsi sapendo che non si piegherà, lievemente compiaciuto della propria capacità di ripresa, indignato dalla sua ingenuità e dalla sua vulnerabilità.

Patetico, pensa, guardandosi fuggire, rotolare e nascondersi, sentendo quel respiro singhiozzante e l’odore pungente della sua paura. Deve diventare più forte. Voldemort dev’essere sconfitto. Questo patetico bambino deve imparare. Deve essere in grado di usare questi incantesimi con la stessa facilità di Voldemort ma senza la sua leggerezza.

Deve essere in grado di colpire senza tradirsi, deve imparare a usare la Cruciatus per l’onore di Minerva McGrannit, quella fiera leonessa, deve adoperare l’Imperio per raggiungere l’Horcrux della Gringotts, deve guardare, e sentire, e capire esattamente ciò che deve fare e diventare per distruggere il nemico.

« State indietro, lui è mio! » grida, non perché lo ricordi, ma perché teme che uno dei suoi Mangiamorte possa ucciderlo in un eccesso di zelo costringendolo a vivere da solo, immortale e intrappolato in quest’ibrido corpo uomo-serpente.

Scappa, scappa. Ci rivedremo presto, per un’altra lezione.

Non immaginava fosse possibile essere tanto stanchi.



Arriva al Dipartimento dei Misteri in tempo per vedere Sirius cadere oltre il Velo. Chissà quanto tempo è passato da quando ha dimenticato il volto di Sirius Black, chissà come mai non si era reso conto prima di non riuscire più a ricordare con chiarezza quello sguardo rovinato, il momento in cui il fuoco ardente di quegli occhi neri si è spento. Chissà se dietro il Velo c’è pace.

Poi ricorda che dovrebbe trovarsi in un posto esposto e ovvio, abbastanza vicino perché quella gente riesca a seguire il rumore dell’imminente battaglia, e se ne va.

È felice di perdere il suo vantaggio, di essere costretto a uscire allo scoperto, di incontrare resistenza? Non riesce più a neanche ricordare come sia fatta quell’emozione. Forse è soddisfatto. Un altro anno o due e sarà morto. Morto, e Potter continuerà a vivere, e se lui ha perso se stesso, l’altro può ancora salvarsi.

Si detesta quanto Harry lo aveva detestato, per cui non gli crea troppi problemi sabotare se stesso. In fondo, tutto questo non è forse già successo? Non è forse già morto?



Girano in cerchio in un ultimo momento di silenzio, e si permette di sognare tutte le cose che Harry a differenza sua avrà, che gli ha comprato con la crudeltà, con una grande sofferenza e un dolore infinito.

Si sta uccidendo, ma lo dice, e il mondo svanisce in un lampo di verde in cui sogna il matrimonio con Ginny, i bambini cui darà il nome delle persone più grandi che abbia mai conosciuto, i bambini che manderà a Hogwarts come avrebbero fatto sua madre e suo padre, come avevano fatto i loro genitori a suo tempo. Sogni piccoli, sogni che l’uomo-ragazzo che era una volta avrebbe fatto – farà – vivrà. Sogna Ron e Hermione, felicemente sposati, sogna i loro bambini che condivideranno l’infanzia dei suoi, sogna Ron che gli confessa di aver confuso l’istruttore di guida…

Cadono insieme.



Nasce all’orfanotrofio, con un grido di orrore, rabbia e confusione.
   
 
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