Brilla una stella
Avevo appena
compiuto diciotto anni quando incontrai Janos per la prima volta. In
realtà la nostra conoscenza era stata del tutto casuale e
completamente inaspettata, ma vedendolo, quella sera alla festa mondana
a cui entrambi eravamo stati invitati, senza sapere della presenza
l’uno dell’altra, era stato come se dei ricordi,
improvvisamente, fossero riaffiorati nella mia mente, ricordi mai
sopiti e custoditi in una parte nascosta del mio cuore. In
verità, incrociare i suoi occhi azzurri e sbarazzini, era
stato simile a riscoprire qualcosa di profondo, delicato e al tempo
stesso indimenticabile: perché, per qualche misterioso caso
del destino, mi sembrava che quel ragazzo, dall’aria
scanzonata e dal sorriso irriverente ed io, in qualche parte del mondo,
e in un tempo indefinito, ci fossimo conosciuti da sempre.
Janos non era bellissimo, non in classico
belloccio da copertina, comunque. Aveva lineamenti regolari ma non era
per niente un adone, eppure la cosa che fin dal primo istante mi
colpì di lui fu proprio il viso, e quel sorriso smagliante,
irresistibile, da canaglia. Ne avevo visti molti di ragazzi, nella mia
seppur acerba carriera di fotomodella, di una bellezza oggettivamente
evidente, ragazzi alti, dal fisico scultoreo e dal viso perfetto,
eppure mai nessuno mi aveva incantato come lui: lui e i suoi occhi
chiari, lui e la sua espressione furbastra e accattivante, lui e il suo
modo di fare buffo, spiritoso e incredibilmente adorabile nella sua
sfacciataggine. Era poco più alto di me, uno e
settantacinque, uno e ottanta forse, e aveva un fisico snello,
asciutto, fasciato in un elegante completo scuro che però,
nonostante fisicamente gli calzasse a pennello, sembrava andargli
stretto: e in un certo senso lui stesso sembrava lievemente
insofferente a stare in quei panni formali e ricercati,
tant’è vero, che con estrema nonchalance
si era allentato il nodo della cravatta e slacciato i bottoni della
giacca che lo rendevano la persona seriosa e rispettabile che in
realtà non era mai stata, e si era messo a chiacchierare con
alcune persone. Perché quello era lo Janos che conobbi io,
ragazzina di buona famiglia, educata, raffinata e con un futuro
splendente nella moda, in quella fredda serata di gennaio del
millenovecentosessantaquattro. Quello era il ragazzo che giocava a
calcio e sognava di diventare un campione, che aveva iniziato a tirare
i primi calci al pallone in un cortile a due anni, che era rimasto
orfano di padre da piccolissimo, ed era il ragazzo che amai con tutta
me stessa fin dal primo momento che mi sorrise, inconsapevolmente e io
sorrisi a lui, imbarazzata e vagamente a disagio. Io lo avevo notato da
subito, non so perché, mentre lui stranamente, almeno
all’inizio non mi degnò di uno sguardo. Forse era
stato proprio quella sua specie di menefreghismo ad avermi attirato
come una calamita, fattostà che quel mezzo sorriso che ad un
certo punto mi rivolse, alzando lo sguardo aldilà del suo
interlocutore, a cercare i miei occhi dall’espressione
intimidita, rappresentarono, in un certo senso, la mia gioia infinita,
e al tempo stesso, la mia più totale distruzione.