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Autore: crazyfred    31/01/2011    8 recensioni
Questa ff è il seguito di Canto di Natale, ed i Robsten sono ben indaffarati a preparare il loro GIORNO MIGLIORE...dal capitolo1:… mio Dio, non posso ancora crederci, io ho sposato davvero Rob, e aspetto un figlio suo … sfacciatamente fortunata!!! ... nei miei pensieri queste parole ricorrevano spesso in quel periodo. Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo.I personaggi non noti della storia sono frutto della mia fantasia, e le loro interazoni con i personaggi noti sono assolutamente fittizie.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'My big complicated Robsten family'
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The best day - extra 1 Lo so...probabilmente vi state chiedendo se questo non sia un sogno... ma invece è una bellissima realtà. sono tornata su questa storia con un nuovissimo extra. Non so quanti ne farò, né se a questi ne seguiranno altri, ma sentivo che qualcosa mancava e poteva essere aggiunto. Se c'è qualcosa che credete possa essere approfondito, non esitate a dirmelo. Approfitto per ringraziarvi delle recensioni all'epilogo di questa storia, e mi auguro non ne farete mancare nemmeno qui.
Vi lascio alla lettura...














Extra 1
La prima notte - P.O.V. Robert











Dio sono padre!!! Sono un papà!!!
Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile. Ero passato come in un flash dall'essere un scapolone impenitente ad essere un padre. Nel mezzo del flash c'erano una moglie fantastica, un matrimonio e un batuffolino tutto rosso e piangente che era appena uscito dalla sua pancia.
Certo aveva fatto parecchio casino per venire al mondo. Ha rovinato la festa che tutti stavamo facendo in suo onore ... o semplicemente aveva deciso di voler partecipare anche lei ai festeggiamenti e diventare la guest star dell'evento. Decisamente aveva già un spiccato senso dell'umorismo noir, così tipico di noi inglesi, nonostante i pochi minuti di vita, che non mi sarei insospettito più di tanto se il semplice latte materno non le fosse bastato. Le avrei fatto provare del té e, perché no, un goccio di Lager che non ha mai fatto male a nessuno e mette tutti di buon umore.
Mentre lo staff della sala parto aiutava Kristen nella fase post-parto e visitavano la piccola per la prima volta decisi che era arrivato il momento di tirare il fiato un attimo dopo la corsa delle ultime ore e andare ad annunciare la nascita della piccola alla mia famiglia. Mi disfai di tutto quell'abbigliamento verde, che faceva tanto stile E.R., mi diressi in sala d'attesa.
Feci appena in tempo ad aprire la porta a spinta con una spalla, che mi trovai in mezzo alla calca di parenti che non c'era stato verso di rimandare a casa e che avevano letteralmente trasferito il baby shower da casa mia al reparto di Ginecologia-Ostetricia del St. Mary's Hospital. Mia madre, mio padre e le mie sorelle erano in prima fila e, accavallandosi nella conversazione l'un l'altro, non capii una delle domande che mi rivolgevano.
"Sshhhhhh!!!" fui costretto a blaterare a grandi gesti per farli tacere.
Finalmente intorno a me si creò un varco abbastanza largo sufficiente, da consentire a tutti di sentirmi e a me di respirare.
"è una bambina!" esclamai felice e sollevato come se mi fosse stato levato di dosso un macigno. Lasciai che si impossessassero (sarebbe meglio usare l'espressione estirpare con violenza) del mio cellulare con cui, furtivamente, ero riuscito a scattare una foto della piccola prima che ce la portassero via. Se non me l'avessero restituito poco male ... non avevo voglia proprio di sentire nessuno per successive ventiquattro ore.
Effettivamente lo stress accumulato durante quelle ore, che erano passate senza quasi accorgemene, si faceva sempre più pressante: infatti era ormai sera, anzi notte avanzata, ed ora mi sentivo decisamente stanco. Ma non avrei lasciato Kristen da sola per tutto l'oro del mondo; era la nostra prima notte da genitori, dovevamo trascorrerla insieme. Perciò, sarei stato comodo anche su una poltroncina, nella stanza che le avrebbero destinato.
Dopo le congratulazioni, gli abbracci e i baci reciproci, un'infermiera venne ad informarci che avevano portato Kristen in stanza, probabilmente da una via secondaria, certamente più consona visto che altrimenti sarebbe stata aggredita da tutto il parentado in attesa. Così, con mio grosso piacere, tutta quella marmaglia di parenti ed amici fu costretta a tornarsene a casa, a bocca asciutta, e permisi solo a mia madre di restare, per aiutarmi a sistemare la biancheria di Kristen e tutti i festoni che quegli scalmanati avevano depositato in sala d'attesa.
"Allora ..." mi sussurrò, avvolgendomi le spalle e appoggiandosi a me, mentre ci incamminavamo nella corsia buia e silenziosa del reparto. Tutte le neo mamme riposavano e noi ci godevamo un po' quel silenzo per assaporare meglio la gioia del momento "... com'è?"
Non avevo dubbi sul significato della domanda. Era impaziente di conoscere sua nipote e francamente non vedevo l'ora anch'io di conoscerla meglio. Non sapevo proprio cosa rispondere alla sua domanda, perché l'avevo vista talmente di sfuggita che non avevo fatto in tempo a fissare nella mia mente il suo volto. Ricordo un batuffolino tutto rosso, sporco di sangue e rimasugli placentari, avvolto in un telino verde e che l'ostetrica, per tenerla stretta a sé, aveva dovuto chiudere bene le braccia altrimenti sarebbe caduta. Sapevo solo una cosa e non esitai a dirgliela: "è proprio piccola!"
Entrambi ci lasciammo andare ad un sorriso pacato e sereno.
Purtroppo non potevo dire altro: non ero mai stato abile nel descrivere le persone, figuriamoci farlo dopo averla vista per un nano secondo. Il cellulare era morto nel frattempo e lei non aveva potuto vedere la piccola foto tutta tremolante che le avevo fatto: per l'emozione non ero stato in grado di tenere il telefono ben fermo e l'obiettivo non aveva messo bene a fuoco la bambina.
Non avevo idea di che colore fossero i suoi occhi, chiusi stretti stretti a causa della luce accecante che l'aveva accolta in sala parto, non avevo potuto cogliere cenni di somiglianza nel suo volto perché aveva stretto contro il viso i suoi pugnetti e li sfregava contro il piccolo nasino. Avrei dovuto cogliere la possibilità di vederla meglio mentre era tra le braccia di Kristen, ma le lacrime involontariamente iniziarono a rigarmi il volto e ad offuscare la mia visuale.
Ero padre ed era la sensazione più bella del mondo.
Entrammo quietamente in stanza, Kristen era già profondamente addormentata e non mi presi la pena di svegliarla o distrurbarla. Aveva davvero faticato tanto e per un attimo mi presi la briga ringraziare il "Signore del piano di sopra" per aver lasciato alle donne un'incombenza simile ed avermi fatto nascere uomo. Conoscendomi non avrei resistito più di cinque minuti al dolore e avrei costretto i medici a farmi l'epidurale o passare direttamente al taglio cesareo.
Ma nonostante tutta la fatica non aveva perso quella sua bellezza naturale, quei tratti di ragazzina un po' ingenua tuttavia non più così acerba, un piccola donna alla scoperta del mondo. La sua femminilità stava venendo fuori sempre di più e mi resi conto che ogni giorno amavo una donna diversa eppure costantemente meravigliosa. Mia madre e mi lasciò sederle accanto per un po', occupandosi lei del riordino, e mi fermai un attimo a guardarla, beandomi del silenzio e della semi oscurità.
Ma si sa che la calma non è fatta per durare a lungo, specialmente quando le cose vanno tanto bene, come in quella notte.
"Signor Pattinson?" una voce accompagnò l'ombra che si era avvicinata alla porta della stanza. La penombra che avevamo creato per meglio far riposare Kristen e la luce dei neon del corridoio creava un dislivello nella visuale che non mi permetteva di distinguere bene il mio interlocutore. "Sì?" domandai di rimando. Fui costretto ad alzarmi e raggiungere sull'uscio quello che sembrava un dottore; oltretutto non fece alcun tentativo di avvicinamento, rispettando il riposo di mia moglie. Era un'uomo sulla trentina: capelli castani, aspetto tremendamente ordinato ed elegante, nonostante avessimo superato la mezzanotte e di solito a quest'ora anche negli ospedali ci si lascia andare a piccole pennichelle. Lo seguii titubante, sotto lo sguardo attento e ansioso di mia madre, mentre mi faceva strada verso il corridoio, portandomi in disparte, compresi, dalle orecchie di mia madre.
"Sono il dottor Martin, specializzando del reparto di Neonatologia ..." strinsi di rimando la sua mano, non capendo cosa stesse accadendo. Il suo saluto mi sembrò troppo formale per essere quello rivolto ad un neo-papà, e di solito tutti erano ben più affabili in tali circostanze. "Sono stato incaricato dal dottor Couney di venire qui da lei. Al momento è lui che si sta occupando di sua figlia. Ma non si preoccupi, è in più che ottime mani"
Aspettate un momento. Mia figlia? Cosa c'è che non va?
"Non...non capisco. Mi può spiegare cosa è successo?" chiesi, ma non riuscii a nascondere la leggera flessione nervosa della mia voce.
"Sua figlia è nata pre-termine signor Pattinson" mi rispose quel medicuccio, dal fare un po' sufficiente, come se dietro a quelle sue parole ci fosse la cosa più scontata del mondo da capire. Ci misi poco effettivamente a capire quell'ovvietà, il passaggio che avevo perso, e ricollegai il terrore di Kristen in sala parto. La piccola era nata alla 33esima settimana di gestazione, mancavano ancora 7 settimane al termine naturale della gravidanza, tutte estremamente importanti per la sua salute e, come ci era stato spiegato nei mesi precedenti, più il parto avveniva in anticipo, più ogni settimana era decisiva per la sopravvivenza del nascituro.
Sopravvivenza.
Mi sentii le gambe cedere, come se tutto lo stress e la stanchezza che accumulavo da giorni - riprese, viaggio e parto senza chiudere occhio che per un paio d'ore in tutto - si fossero coalizzati contro di me e avesse deciso di schiacciarmi, stritolarmi e soffocarmi in quell'istante. Mi appoggiai stremato alla parete del corridoio, scorrendo una mano sul mio viso. Non era finito niente. Anzi il peggio era appena iniziato.
Vidi, con la coda dell'occhio, mia madre affacciata dalla porta della stanza che ci osservava in apprensione. Anche il dottore se ne accorse e concordammo che fosse il caso di salire in reparto e controllare la situazione.
"Stai con lei" dissi a mia madre, afferrandole forte le mani. Avevo bisogno di tutta la forza che poteva darmi. "Ma cosa è successo?" domandò. Non ebbi né il tempo né la forza di rispondere.
Salii le scale accanto al Dr. Martin rivolgendogli tutte le domande che a cascata filtravano dalla mia mentre alla mia bocca, senza nemmeno aspettare che mi rispondesse e varcammo la soglia della neonatologia nello stesso turbine di iperattività che mi circondò appena capii quali potessero essere le condizioni di mia figlia. Mentre, in una zona filtro, mi preparavano nuovamente ad entrare in una zona quanto più sterile possibile, il dr. Couney, strutturato di Neonatologia, prese il posto della giovane recluta e decise finalmente che era il caso che io sapessi qualcosa di più sulla salute ma soprattutto sulla vita di mia figlia.
"Signor Pattinson" mi spiegò senza tanti giri di parole "sua figlia ha dei polmoni poco sviluppati che non le permettono di respirare come dovrebbe."
Rimasi di sasso. Non mi diede il tempo di proferire parola che subito continuò con la sua spegazione. Oltretutto non avevo proprio forza di dire nulla.
"Senza entrare nel dettaglio o spiegarle cose che comunque sono troppo tecniche sua figlia al momento non produce una proteina che è fondamentale per il corretto funzionamento dei polmoni. Di conseguenza la piccola si trova in una situazione di insufficienza respiratoria che porta scompensi all'intero organismo"
Non ero un luminare di medicina, ma quelle poche parole chiave che estrapolai dall'intero discorso bastarono per mettermi in allarme. Più che in allarme. Eppure non riuscivo a pensare a nulla, a niente che fosse bello o brutto, avvertivo solo tanto vuoto e buio intorno a me. Mi sentivo completemente svuotato, eppure con un macigno sulle spalle. Morire sarebbe stato un sollievo che avrei tanto voluto concedermi o almeno svenire e lasciare che tutto accadesse a mia insaputa. Avrei perso la mia piccola? Le avevo dato la vita e avrei dovuto dirle addio? Erano gli unici interrogativi che ronzavano come vespe velenose nella mia mente e pungevano al cuore indebolendolo battito dopo battito. No, mi sforzai di rispondere a me stesso, nel ventunesimo secolo i padri non seppelliscono i propri figli e non certo accadrà a me.
"Posso vederla?" chiesi in un lampo di lucidità. Mantenendo un rispettoso silenzio mi lasciarono entrare nella grande stanza dov'era la mia cucciola.
Non ero mai stato in stanze simili prima di allora ma dai pochi telefilm ospedalieri che avevo visto aveva tutta l'aria di essere una specie di terepia intensiva in miniatura. Al posto dei letti c'erano una serie di incubatrici ed i pazienti che li ospitavano erano uno più piccolo dell'altro. Perché tanto dolore? La nascita è la cosa più bella che possa esistere al mondo; perché deve essere oscurata dalla malattia? Cos'hanno fatto questi  piccoli da essere già puniti col dolore, a poche ore di distanza dalla loro nascita?
Camminavo tra quelle piccole cullette termine alla ricerca di una in particolare, senza sapere esattamente cosa cercare. Sapevo che dovevo andare da mia figlia, eppure quegli esserini sembravano tutti uguali e la sofferenza li rendeva in un certo senso tutti figli miei: avrei voluto stringerli tutti, portarli tutti con me, via dal dolore e dalla sofferenza.
"Da questa parte" una voce femminile, dolce, giovane e squillante, mi indicò una culletta in fondo alla stanza, dov'era adagiata una bimba. Il cartellino sull'incubatrice portava la scritta Baby Pattinson. Eccola.
Il mio cuore fu preso d'assalto da fiamme che divamparono in pochi secondi, eppure non c'era niente che le domasse; fu così che venne ridotto a brandelli. Era la mia bambina, e non potevo sopportare di assistere a quella scena. Era in un'incubatrice, attaccata ad una serie di fili e tubicini che controllavano i suoi parametri vitali e l'aiutavano a respirare. Dormiva, apparentemente beata: non era certo l'immagine di una bambina malata, al di là delle sue piccole dimensioni.
"Ci scusi" mi disse la piccola infermierina bionda che mi accompagnava "ma non sapevamo che nome avevate scelto per la bambina, così ci siamo limitati a scrivere il cognome"
Già, nella fretta non l'avamo deciso, ed in quel momento mi sembrava l'ultima delle priorità. "è proprio necessario?" le chiesi, senza staccare gl'occhi dall'incubatrice. "No, non per il momento ..." mi disse. Non volli assolutamente indagare il significato che quella sua frase potesse avere e mi limitai a dirle, gentilmente, che poteva lasciare la scritta che c'era, aggiungendo però anche il cognome di Kristen. L'avevamo fatta in due, era giusto che ci fosse anche lei, e se il diritto non ci consentiva il doppio cognome, nei nostri cuori sapevamo che lei era la perfetta congiunzione dei nostri interi. Ed anche il nome l'avremmo scelto insieme.
Allora pensai che Kristen era completamente all'oscuro di quanto stesse accadendo e mi faceva ancor più male pensare a cosa avrei dovuto dirle al suo risveglio e come avrei dovuto farlo. Mi si spezzava già il cuore ad immaginare la sua reazione, e ancora di più mi uccideva sapere di doverle infliggere un nuovo dolore.
Ma ogni cosa a suo tempo e quello era il momento da dedicare alla nostra creatura. A Kris avrei pensato al mattino, al suo risveglio.
Come facevo a non ricordare quel volto d'angelo. Nonostante fosse piccola e anche abbastanza gracilina, era l'identico ritratto di sua madre anche se, probabilmente, il biondo della mia famiglia aveva avuto il sopravvento, visto che di capelli non ne aveva nemmeno l'ombra. Avrei voluto svegliarla per vedere i suoi occhi, ma aveva bisogno di riposare.
In quel momento tutti avevano bisogno di riposare, tutti tranne me, evidentemente. Ero completamente solo. Anche in quella stanza ero stato lasciato solo. Un moto di rabbia e di sconforto mi montò da dentro e dovetti frenarlo come meglio potevo perché non era né il momento né il luogo per farsi prendere da certi raptus. Mi aggrappai a quella culla con le mie mani, lascia che le unghia sfogassero senza fare danni la mia frustrazione sul plexiglass per poi battervi contro con un leggero pugno.
Un beep intermittente mi permise di riavermi da quello stato di trance e mi fece rendere conto che col mio leggero movimento avevo, non solo svegliato la bambina, ma avevo anche scatenato una reazione negativa nel suo piccolo cuoricino.
"Signor Pattinson ma cosa ha fatto?" mi chiese l'infermiera di guardia, accompagnata dal medico di turno, che immediatamente controllò le condizioni della mia cucciola. Mi feci da parte e mi sentii piccolo piccolo, nulla in confronto a ciò che mi circondava, un pericolo nella misura in cui le avevo fatto del male. Avrei dovuto difendermi dalla accusa che mi era stata rivolta, reagire di fronte a quella crisi d'impontenza che aveva preso il sopravvento, dimostrare che ero un uomo fatto e finito, ormai pronto ad assumersi le proprie responsabilità. Invece non fui capace di fare altro che abbassare il capo, sommessamente, e lasciar svolgere il proprio lavoro a chi ne sapeva più di me.
Mi diressi fuori dalla sala e, nella zona filtro, scatenai la furia che avevo represso poco prima, gettando a terra tutto quello che mi passava per le mani e tirando calci agli armadietti del personale. Se avessi trattenuto le lacrime probabilmente sarei stato più uomo, ma avevo bisogno che qualcuno si accorgesse di me, che mi stesse a sentire, che mi dicesse qualcosa. Tutti si aspettavano qualcosa da me, una risposta, ma non ero in grado di fare niente e quella era l'unica reazione possibile. Non ce la facevo più. Mi accasciai a terra, le mani a coprire il volto.
Dopo pochi istanti udii un rumore di passi intorno a me e un corpo venne ad accovacciarsi al mio fianco. Riconobbi la sagoma matura e importante del dr. Couney; assomigliava a Dean, la mia guardia del corpo.
Lo guardai e mi guardai intorno: certo che avevo combinato un macello.
"mi scusi dottore" mi affrettai a scusarmi, con riacquistata lucidità "ripagherò tutti i danni che ho fatto, stia tranquillo ..."
"Oh lo credo bene!" rispose lui, con un leggero sorriso stampato sulle sue labbra. "Sa come faccio a vivere ancora?" mi chiese "come faccio a fare ancora questo lavoro dopo 20 anni, a sorridere ancora quando entro qui dentro e vedo questi piccoli, mentre a casa o due bambini che scoppiano di salute?". Lo guardai, perplesso, e scossi la testa. Era un'uomo estremamente colto eppure così umile, che si era abbassato al mio livello, condividendo e confessando una parte così intima di sé. "Perché spero e credo" continuò "che tutti i bambini che sono di là diventeranno grandi e forti come i miei figli e perché queste lacrime che vedo in lei e in tutti gli altri padri, mi creda, domani si trasformeranno in un sorriso. Stia tranquillo, sua figlia starà bene ... e ora torni da lei. La sta aspettando ad occhi sgranati"
Non me lo feci ripetere due volte ed entrai con grinta e sperenza in quella sala. La stanchezza sembrava essere svanita con le lacrime che mi avevano rigato il volto. Tornai dalla mia creatura e la vidi che mi guardava, bella come sua madre il giorno che ci siamo incontrati, con dei grandi occhi che mi scrutavano, domandandosi e domandandomi cos'erano quegli occhi rossi ed ancora un po' lucidi che avevo. E i miei occhi erano finiti sul suo piccolo volto e sembravano dirmi: tranquillo papà, sono forte.
"Sei forte davvero piccola mia" sussurrai al vetro freddo, baciandolo come se potessi arrivare alle sue guance. Allora, solo avvicinandomi bene, intravidi i segni della malattia: il fiato corto, il viso un po' cianotico. Ma al contempo mi confortava sapere che erano leggermente visibili, a riprova del fatto che il peggio era passato e non poteva che andare meglio.
"La stiamo aiutando con la respirazione" mi disse il dottor Couney "ed abbiamo iniziato la terapia con il Surfactante, la proteina che le manca. Il suo peso ci conforta abbastanza: è piccola, ma c'è di peggio, e se sopporterà il latte materno non credo che ci vorrà molto per toglierla dalla culla termica"
Non volli chiedere altro; non volli sapere per quanto ne avremmo avuto e i dettagli di terapie o analisi. Per il momento mi bastava sapere che sarebbe andato tutto a posto e che la piccola sarebbe tornata a casa con noi. Quando, era proprio irrilevante.
Stessi a guardarla un altro po' mentre si addormentava, provando a canticchiarle una melodia a caso, e non potei fare a meno di innamorarmi di lei e dei suoi grandi occhi color del mare. Era scritto nel mio destino, innamorarmi di donne dagli occhi grandi e belli come la luna.
Erano quasi le 4 del mattino, era trascorso molto più tempo di quanto ne avessi percepito scorrere addosso. Lasciai il reparto e tornai da Kristen. Mi sentivo ... non lo so più come mi sentivo. Stanco? Forse.
Mia madre mi venne incontro quando varcai la porta della stanza e capii che doveva essersi informata perché iniziò a rivolgermi mille domande e accanto a lei c'era mio padre. Non la sentii e mi rivolsi a lui, che era rimasto in silenzio, sulla poltrona, accanto a Kristen. "Dorme?" gli chiesi, mentre si alzava. Chissà quante ne aveva sopportate in silenzio e discrezione negli anni, quante cose si era tenuto dentro e per quante, di nascosto, aveva pianto. Gli avevo sempre voluto bene, lo avevo sempre stimato, ma mi trovai a provare per lui un nuovo rispetto. Mi arpionai al suo collo con le braccia, avevo bisogno di sentirlo vicino. Mi diede delle leggere pacche sulla spalla e mi fece accomodare sulla poltrona. Notai di sfuggita, nonostante la leggera oscurità, le sue guance di porpora e gli occhi luccicanti. "Accomodati figliolo, riposa un po'" feci come mi aveva detto.
"Dovresti andare a casa, e dormire per almeno mezza giornata" mi rimproverò mia madre "sto io con Kristen, lo sai che mi fa piacere"
"Lo so" le risposi, chiudendo gl'occhi e lasciandomi andare un po' "ma non ci penso nemmeno, le devo essere accanto quando si sveglia. Andate voi."
"Come sta?" mia madre non riuscì a trattenersi. "Non sta bene mamma" fui realista "ma è forte e guarirà".
Lei e mio padre si scambiarono una serie di occhiate e compresi che lui aveva capito la situazione senza tante spiegazioni. Presero quelle quattro cianfrusaglie che dovevano riportare a casa e mi lasciarono solo.
Da lontano il Big Ben segnava le 4 e mezza e lasciai che il respiro di mia moglie fosse l'ultimo rumore prima di sprofondare nei sogni.








à bientot
Federica

   
 
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