You
could be my unintended
Choice to live my life
extended
You could be the one I'll
always love
You could be the one who
listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll
always love
I'll be there as soon as I
can
But I'm busy mending broken
pieces
of the life I had before.
Muse,
unintended.
Capitolo undici
Giornata no
Quando
rientrai in casa mi sentivo… vivo, nonostante la
stanchezza. Non seppi descrivere altrimenti il mio stato emozionale. Mi
sentivo
vivo. Tutto, in casa, mi metteva una strana allegria, il che, dovetti
ammettere, era piuttosto inquietante.
Mi sfilai la giacca e, con l’ombra di un sorriso a colorarmi
il viso, mi
diressi in cucina per un po’ d’acqua.
La risata di Rachel non faceva che echeggiarmi nella mente.
Scossi la testa al ricordo della serata passata con lei, delle battute,
parole
celate dietro profondi sguardi e sorrisi donatomi gratuitamente, come
quelli
dei bambini. Non c’erano perché, o ma, doppi fini.
Sorrideva, e basta.
Aprii il frigorifero ed estrassi una bottiglia, portandomela alle
labbra bevvi
due grandi sorsate. In quel momento, con la coda dell’occhio
vidi la luce della
segreteria lampeggiare. Corrugai la fronte e pigiai il pulsante.
«Ehi, Rob. Mi spiace, ritorno
rimandato.
Mi fermerò una settimana in più. Richiamami.»
Nel giro di pochi istanti sentii l’irritazione montare e,
stranamente spegnersi
all’istante.
Scossi il capo e l’unica cosa che borbottai fu: «Va
al diavolo, Kris.»
L’indomani
mi svegliai alle cinque del mattino. Avevo sonno,
terribilmente sonno. Tutta colpa di Rachel… tutta colpa mia,
ne ero al
corrente. Fare le ore piccole certamente non giovava.
Aveva accettato l’invito a cena di Rachel. Avevo mangiato
vegetariano, fumato
ascoltando i Pink Floyd e mangiato cioccolato. Avevo riso con lei,
avevo
giocato e scherzato con lei… l’avevo sentita e
vista suonare… al ricordo,
sorrisi. E quella sera sarei andato a bere qualcosa con lei e i suoi
amici.
Grugnai. Quanto avrei dormito?
Sospirai e scesi dal letto. Azionai la caffettiera e mentre aspettavo
che il
caffè fosse pronto –il bello delle macchinette
automatiche- mi andai a fare una
doccia calda. L’acqua parve svegliarmi in parte, ma il mio
risveglio, quello
definitivo, sarebbe avvenuto a caffè ingerito.
Così infatti fu.
Una volta indossata una camicia a quadri ed un paio di vecchi jeans
scoloriti,
m’infilai il berretto e la giacca, uscii di casa e la luce
del sole parve
colpirmi in pieno viso, come se mi stesse crudelmente schiaffeggiando.
M’infilai gli occhiali e le cose migliorarono. In certi
momenti, sì, mi mancava
terribilmente l’Oregon. Scesi le scale, saltellando e
canticchiando. Quando fui
davanti l’auto, che avevo noleggiato qualche girono prima, mi
tastai le tasche
in cerca delle chiavi… ma non c’erano.
Sbuffai ed alzai il capo verso il cielo. Non era possibile,
così, mentre
risalivo il vialetto, mi tastai ancora le tasche in cerca della chiavi
di casa …
ma non trovai nemmeno quelle.
Sbuffai, imprecai d’irritazione mentre sbattevo un piede per
terra, come fanno
i bambini per ottenere qualcosa.
«Idiota, idiota, idiota!» esclamai alzando le
braccia al cielo. Mi voltai verso
la strada e mi bloccai. Sul marciapiede una signora sui
quarant’anni ed un
bambino di circa quattro anni mi fissavano con occhi sgranati,
sconvolti.
M’accigliai, guardandomi intorno e poi sorrisi imbarazzato,
grattandomi la
nuca. «Oh… ehm… buongiorno.»
dissi facendo spallucce.
La donna non rispose e trascinandosi il figlio impaurito si
allontanò quasi
correndo.
«Ehi, non sono uno squilibrato!» esclamai verso la
signora che si allontanava
in fretta.
Scossi il capo e mi passai una mano sul viso?
Fantastico, meraviglioso, pensai.
Afferrai il cellulare e chiamai un taxi. La giornata, certamente,
cominciava
nel migliore dei modi.
Quando arrivai al lavoro ero irritato, tremendamente irritato.
Seduto su una poltroncina in pelle nera, in attesa che uno dei
musicisti
arrivasse, mi presi il capo fra le mani e chiusi gli occhi.
La testa cominciava a dolermi. Non avevo richiamato Kristen. Nei gironi
precedenti non avrei attesi un secondo di più, avrei colto
l’occasione per
sentirla, ma in quel memento, nervoso ed adirato con me stesso per la
colossale
disattenzione che avevo mostrato quel primo mattino, non ne avevo
voglia.
Esatto, non ne avevo voglia. Non avevo voglia di ascoltare le solite
scuse, i
soliti motivi per quel maledetto ritardo.
Sospirai e mi poggiai allo schienale della poltrona, quando aprii gli
occhi
sobbalzai. Immobile, dinanzi a me, con le mani inerti lungo i fianchi,
Rachel
mi fissava con sguardo indecifrabile. I lunghi capelli neri le
incorniciavano
il viso, avvolgendole le spalle. Indossava una felpa sopra una t-shirt e jeans chiari, la
borsa a tracolla
le scendeva su un fianco.
Inclinò il capo e corrugò la fronte.
«Che brutta cera hai, Bob.»
La fissai, senza proferire parola. Lei sospirò e
roteò gli occhi, poi batté il
ginocchio contro la mia coscia, aspettandosi che mi
spostassi… ma ciò non
accadde. Con sguardo serio continuai a fissarla.
Sbuffò e incrociando le braccia al petto si fece spazio
sulla poltrona,
sedendosi nello spazio angusto, fra me e il bracciolo.
«Ahi!» esclamai spostandomi un po’, per
farla sedere.
Compressi l’uno contro l’altra, sulla poltroncina,
ci guardammo. Mi sentivo
particolarmente “stretto”.
«Non posso muovermi. Ho le mani incastrate fra i nostri sue
corpi. Le mie
spalle urlano pietà.»
Lei sbatté più volte le palpebre. «Ti
lamenti sempre.»
Sbuffai. «Ti lamenteresti anche tu se fossi al mio posto
oggi.»
Gli occhi turchese le si illuminarono e, ancora una volta, notai quanto
bella
fosse. «Hai pestato un escremento di cane?» chiese
sorridendo.
Sgranai gli occhi e spalancai la bocca. L’immagine del suo
viso fu sostituita
da quella di un cane.
«Rachel! Dio, sei disgustosa!»
Lei mi guardò con innocenza, facendo spallucce
–per quanto le fosse possibile.
«Non è vero!»
Grugnii e scossi capo.
«Dai, cosa ti è capitato di così
terribile?» chiese sollecitandomi, muovendo
ritmicamente la spalla destra.
«Smettila di fare così.»
«Perché?» rise, «Sono
irritante?»
«Sì, molto.» disse fermandole la spalle
con una mano.
Sbuffò. «Okay.»
«Sono venuto in taxi.» dissi dopo alcuni istanti di
silenzio.
«Non avevi noleggiato un’auto?» chiese
aggrottando le sopracciglia.
«Sì.»
Mi guardò con espressione interrogativa.
«Ho lasciato le chiavi in casa.» dissi mordendomi
il labbro inferiore.
«E non potevi rientrare a prenderle?»
Feci una smorfia, prima di massaggiarmi la fronte. «Ho
lasciato anche quelle.»
Mi voltai a guardarla. La sua espressione era imperscrutabile, mi
fissava con i
suoi grandi occhi turchese ed io non avevo idea cosa stesse pensando.
«Scherzi, vero?» chiese infine.
Alzai un sopracciglio. «Ti sembra che stia
scherzando?»
Si morse il labbro inferiore e represse un sorriso, prima di scoppiare
in una
fragorosa risata. Buttò all’indietro la testa,
poggiandola allo schienale e
ridendo di gusto.
Mi mossi irritato. «Non ci trovo nulla da ridere, Stevens.
Assolutamente
nulla!» esclamai dandola una spallata.
«Oh, invece sì!» disse fra le risate.
«Oh, invece no!» esclamai facendomi in avanti col
busto e liberandomi dal suo
corpo compresso al mio. Mi presi il capo fra le mani e gemetti.
La mano di Rachel, piccola e affusolata, si posò sulla mia
spalla, ne potei
avvertire il calore. «Si risolve, Bob… non ti
è crollata la casa.»
Mi voltai appena per guardarla in volto e solo allora mi resi conto di
quanto
fosse vicina. Si era anch’ella sporta col busto ed i suoi
occhi turchese
brillavano alla luce del sole che filtrava attraverso la grande
vetrata,
gettando luce ovunque.
«Lo so…»
Le labbra piene si distesero in un sorriso, mostrando una schiera di
denti
bianchi come neve. Il suo profumo di vaniglia mi colpii
all’istante, come
trasportato da una folata di vento improvvisa. Chiusi gli occhi,
inspirando.
«Cosa c’è?» chiese lei in un
sussurro. La sua mano era ancora sulla mia spalla.
«Vaniglia.»
«Cosa?»
«Profumi straordinariamente di vaniglia.» mormorai
mentre un angolo delle mie
labbra si sollevava involontariamente verso l’alto.
Aprii gli occhi e fui sorpreso dall’espressione sul suo
volto. Gli occhi appena
sgranati, le iridi scintillanti ma cupe allo stesso tempo, le labbra
dischiuse
tanto che il suo respirò mi colpii in pieno volto. Emise un
singulto, forse
voleva parlare, ma dalla sua bocca non uscì altro suono.
I suoi occhi ardenti mi scossero, mi fecero fremere come poche volte
era
successo.
Non seppi darmi una spiegazione.
«Robert…» mormorò con voce
calda, tanto morbida da abbracciarmi.
In quel momento sentii l’irrefrenabile voglia di carezzarle
il viso e
stringerla a me. Ma non feci nulla di tutto ciò.
«Allora, ragazzi, pronti?» la voce di James, il
compositore, mi riportò alla
realtà.
«Okay, ragazzi, pausa pranzo.» esclamò
James con un battito di mani. Sospirai
di sollievo, mentre Rachel accanto a
me esultò agitando le braccia in aria.
«Signorina Stevens, se questa è la sua voglia di
lavorare…» esordì James
recuperando i suoi spartiti.
Lei spalancò gli occhi e balzò in piedi.
«Oh, no, no. Non intendevo dire
questo! E’ solo che ho fatto tardi questa mattina e ho
mangiato solo un toast.»
«Cerchi di svegliarsi presto allora… se vuole fare
questo lavoro…» continuò
avviandosi alla porta.
«Oh, ma… io… non…»
farfugliò lei mentre James usciva dalla stanza.
Il resto delle persone presenti nella stanza, circa cinque, uscirono
lasciando
me e Rachel soli.
Lei fissava ancora sbigottita la porta, gli occhi sgranati e la bocca
spalancata. Io soffocai una risata. All’istante si
voltò, fulminandomi con lo
sguardo.
«Stai ridendo?» chiese riducendo gli occhi a due
fessure.
Serrai la bocca e scossi il capo. «Non mi permetterei mai, Racky.» dissi facendo spallucce.
«Oh, al diavolo! Ma lo hai visto? Ha messo in dubbio
l’amore per ciò che
faccio!» sbraitò afferrando la borsa.
«Non è possibile!»
ringhiò dirigendosi a lunghe falcate verso la porta,
facendo oscillare i lunghi capelli color della pece.
Sorrisi accorgendomi che indossava solo la t-shirt bianca,
così mi voltai verso
la sedia sul quale era seduta e notai la felpa. L’afferrai e
la chiamai.
Rachel, oramai sulla soglia si voltò di scatto.
«Che c’è?» ringhiò.
Alzai la felpa e l’agitai in aria, sorridendo flebilmente.
L’espressione sul suo viso mutò. I muscoli
contratti per la rabbia si
rilassarono. Si ricompose, portandosi la tracolla della borsa sulla
spalla e
sistemandosi la maglietta, passandoci le mani sopra.
«Oh. Grazie.» disse con voce risoluta avvicinandosi
e afferrando la felpa, ma,
mentre si girava per uscire dalla stanza, l’afferrai per un
braccio e la
costrinsi a voltarsi.
«Cosa…» mormorò confusa.
Sorridendo le scompigliai i capelli e le schioccai un
bacio sulla guancia.
«Andiamo, Stevens, ti offro un pranzo vegetariano.»
Lei sospirò e scosse il capo, abbracciandomi la vita.
«Cosa farei se non ci
fossi tu a rallegrarmi le giornate?» disse in un risolino,
alzando lo sguardo
sul mio viso.
Le circondai le spalle con un braccio e feci spallucce.
«In questo momento staresti viaggiando per il più
vicino ospedale
psichiatrico.»
Erano le otto di sera quando la mia giornata lavorativa
finì. Ero stanco, ero
stremato ed avevo urgentemente bisogno di una doccia per
rigenerarmi… oltre ad
una pizza gigante. Dire che avevo fame era davvero poco. Mi alzai dal
tavolo e
riposi gli spartiti in una cartellina di carta gialla, mi alzai a mi
sgranchii
le gambe e sbadigliai.
«Allora ci vediamo domani, gente. Ottimo lavoro.»
disse James. Sorrisi ed
annuii col capo, prima di sedermi e lasciarmi andare sul tavolo,
incrociando le
braccia.
Un leggero mormorio inondò la stanza e piano sentii le sedie
strisciare sul
pavimento e la porta aprirsi e chiudersi.
Chiudendo gli occhi pensai a Kristen. Non l’avevo chiamata ed
in quel momento
desiderai farlo, così mi misi eretto per recuperare il
cellulare dalla tasca,
ma quando alzai il capo dal tavolo sobbalzai. Rachel era seduta di
fronte a me,
le mani giunte sul tavolo, le spalle diritte, un espressione
imperscrutabile
sul giovane viso.
«Dio!» esclama passandomi una mano sul viso.
«Potresti fare anche un po’ di
rumore quando entri.» dissi poggiandomi allo schienale della
sedia e
rinunciando alla telefonata. Avrei chiamato Kristen a casa, con
tranquillità.
«Scusa.» disse senza cambiare espressione.
Per alcuni istanti rimanemmo in silenzio, l’uno immergendosi
negli occhi
dell’altro.
«Cosa c’è?» chiesi infine
esasperato.
«Niente. Volevo assicurarmi che stessi bene. Sai, la
serata.»
Sospirai e feci un risolino, scuotendo il capo.
«Certo.»
Fu allora che ricordai di aver lasciato le chiavi dentro casa.
«No!» esclamai
prendendomi il viso fra le mani.
Rachel sobbalzò e si sporse verso me. «Cosa
c’è?» chiese allarmata.
«Le chiavi!» sbuffai.
Lei mi guardò un momento, poi scosse il capo ridendo.
«Vigili del fuoco, Bob.
Chiamali ora.»
Sbuffai. «Non è possibile. Idiota, Robert,
idiota!» mi dissi alzandomi in piedi
e afferrando il cellulare dalla tasca. «Devo chiamare un
taxi.»
«Taxi? Scherzi? Ti ci porto io!» esclamò
lei balzando in piedi.
«Ci tengo alla mia vita, Rachel.» dissi cercando di
reprimere un sorriso.
Lei mi fisso con sguardo indecifrabile, poi fece il giro del tavolo e
si
avvicinò a me. Mi guardò un’ultima
volta poi mi diede uno scappellotto.
«Idiota!»
«Ahi!» protestai massaggiandomi le testa.
«Te lo meriti. Ora chiama i vigili del fuoco, genio. Ti
aspetto all’uscita. Ho
bisogno di un brik di latte ad cioccolato.» disse seria
passandosi una mano fra
i lunghi capelli e voltandosi con fare teatrale.
Scossi il capo e sorrisi. Quella ragazza, sì, era una forza
della natura.
«Rachel rallenta!» urlai quando lei
imboccò la strada di casa a tutta velocità.
«Nah!» rispose con un ghigno prima di inchiodare
davanti casa. La cintura di
sicurezza parve segarmi in due il torace.
Con occhi sgranati, con la schiena che aderiva totalmente allo
schienale,
aggrappatomi al sedile con le mani, cercai di rallentare il mio
respiro, il mio
povero cuore spaventato.
«Tu sei pazza.» soffiai a corto di voce.
«Sei pazza.» ripetei voltandomi a
guardarla, scioccato.
Lei schioccò la lingua. «Ah,
com’è divertente!» disse in un gridolino
dondolando il capo.
«Sei pazza!» esclamai slacciandomi al cintura e
uscendo dall’auto.
M’inginocchiai sul vialetto di casa e tesi le mani verso
essa. «Casa… terra!»
esclamai alzando lo sguardo al cielo.
«Come sei melodrammatico.» sbuffò lei.
Mi voltai fulminandola con lo sguardo. Alzò gli occhi al
cielo e, sospirando,
si poggiò all’auto, incrociando le braccia al
petto.
«Potevamo fare un incidente!»
«Andavo pianissimo!» disse alzando un sopracciglio.
«No, invece! Ho rischiato un infarto!» dissi
alzandomi e andandole incontro.
Lei si morse l’interno della guancia, reprimendo un sorriso.
«Cosa c’è, ora?» chiesi
alzando le braccia al cielo e facendola poi ricadere
lungo i fianchi.
«Sei divertentissimo quando ti arrabbi. Scusa, Bob, ma non
hai credibilità.»
sorrise facendo spallucce.
«Oh, beh… sentiamo perché?»
Non rispose subito, rimase per attimi infiniti, immobile a guardarmi
negli
occhi, con espressione indecifrabile.
«I tuoi occhi parlano.» mormorò ed il
suo sguardo era un misto di cielo e
miele, i lineamenti del viso parevano esser scolpiti nella seta, sotto
la
debole luce di un lampione.
«Cosa?»
Le labbra le si distesero nuovamente in un sorriso sghembo,
abbassò un attimo
lo sguardo. «Ciò che esce dalle tue labbra
differisce da ciò che si legge nei
tuoi occhi.»
In quel momento mi chiesi chi fosse in realtà Rachel
Stevens. Mi chiesi come
potesse leggermi con una tale facilità, come potesse
coinvolgermi nelle sue
congetture, avvolgermi con le sue risate, risanarmi il cuore con parole
cariche
si significato, abbracciarlo con un solo sguardo. Per quale grazie
divina ella
mi fosse stata inviata, come a… permettermi di ritrovare
quella giovinezza
scemata.
Apparentemente era un ragazza normale eppure… eppure per me
non lo era. Rachel
non era una ragazza, era la ragazza.
Sorrisi ed allungai una mano verso il suo viso, accarezzandole una
ciocca di
capelli scuri, morbidi come seta.
«Ha chiamato lei per una porta bloccata?»
Ritrassi immediatamente la mano e mi voltai verso destra dove, un paio
di
uomini nerboruti, aspettavano una mia risposta.
«Sì. Salve, è questa qui.»
risposi indicando l’abitazione alle mie spalle.
I due annuirono ed imboccarono il vialetto.
«E’ meglio che vada, ora.» disse Rachel
raddrizzandosi.
Annuii col capo. «Sì.»
«Passo fra un’oretta, okay?» chiese
aggirando l’auto.
«No, passo con la mia macchina questa volta.»
Sbuffò. «Idiota. Non sai muoverti come me a Los
Angeles.»
Feci spallucce. «E’ il momento
d’imparare, non credi?»
«Certo, certo.» rispose lei agitando una mano a
mezz’aria, come a voler dar
poca importanza alle mie parole.
«Non fare tardi!» esclamò prima di
entrare in auto.
Sorrisi. «A dopo, Rachel.»
Il sorriso che le distese le labbra piene illuminò gli occhi
che, in quel
momento, parvero zaffiri al sole.
*
Salve,
gente! Eccomi qui, dopo una lunga assenza… ma le idee
scarseggiavano. D’ora in
poi dovrei essere più…
“presente”.
Voglio ringraziare di
cuore coloro che hanno recensito l’ultimo capitolo:
Nessie93,
uley,
Ryry_,
Elly4ever.
Alle recensioni
risponderò man a mano. :)
Grazie di cuore,
davvero!
Mi scuso per
l’affrettato saluto, ma Dickens è lì
sul tavolo che mi reclama.
Un bacio, Panda.