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Autore: A li    02/02/2011    5 recensioni
"Fu così che un giorno, nella sua tuta da ginnastica in acetato,
Matt andò incontro a Dom, si presentò e gli chiese di insegnargli
a suonare la chitarra." [Out of the World - M.Beaumont]
Il parco del Den. Pioggia. Due ragazzini di appena quattordici anni.
Teignmouth 1992.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un giovane profeta sottolineò
   

Pioggia 1992.

«Fu così che un giorno, nella sua tuta da ginnastica in acetato,

Matt andò incontro a Dom, si presentò e gli chiese di insegnargli

a suonare la chitarra. Invece di fulmini e saette è molto più probabile

 che stesse venendo giù una pioggerellina sottile, ma di rado si è visto

un incontro rock più fatidico di quello.»

[Out of the world ~ M.Beaumont]

Teignmouth - 1992

L’acqua colava incandescente, pesante, e picchiava sulle spalle, sulla schiena, sulle gambe. Immerse la testa sotto il getto finché non udì più rumori esterni, finché la simbiosi con il suo subconscio fu totale.

In quel momento non sentiva altro che se stesso; un ingombrante, sordo se stesso, pieno di un silenzio irreale e soffocante.

Aprì la bocca schiudendo lentamente le labbra, respirò l’aria satura di vapore che appesantiva i polmoni, chiuse gli occhi, aspettò. Le gocce lo coprirono interamente, non gli lasciarono altro spiraglio che il naso. E allora inspirò.

Era come se la terra non contasse più nulla, come se il mondo fuori da quella porta in legno non avesse nulla a che fare con la sua vita. Era come se non esistesse più nulla, come se non fosse mai esistito.

Sorrise. Appoggiò gli avambracci alle pareti, ansimando a pochi centimetri dalle piastrelle scivolose di fronte al suo naso.

Lo mandava in fibrillazione scottarsi fino a quel punto; una sorta di sadico autolesionismo da film porno, o, come avrebbe detto Kirk, la sua personale condanna a un se stesso che disprezzava al punto da volerlo uccidere.

Ma non importava da cosa fosse provocato, perché quella sensazione era un brivido impagabile, era un po’ uno stazionare tra la vita e la morte. Da una parte la sofferenza, dall’altra l’ignoto.

Un profumo sotterrato dal vapore solleticò i suoi sensi. Camomilla.

Lo intrigava l’odore dello shampoo dal botticino verde, lo calmava, lo assuefaceva a quello strano rito di precoce autodistruzione.

Spense l’acqua all’improvviso, sollevò le spalle e tentò di strizzare i capelli a spazzola con scarsi risultati.

Era tanto tempo che non li aveva lunghi.

Una vita intera, forse.

Il calendario segnava distrattamente l’anno 1992, ma non indicava né mese né giorno esatti. Pendendo tutto storto da un chiodo conficcato nel muro, cercava di attirare l’attenzione rimanendo indietro con le date, ma non otteneva altro che l’indifferenza generale.

La cucina era piccola, spoglia e priva di un qualsiasi ordine – merito, peraltro, quasi interamente riconducibile a Matt.

Il quale, nella sonnolenza pacata della prima mattina, beveva un caffè respirando rumorosamente tra un sorso e l’altro, e guardava fisso nel vuoto di fronte a sé.

Nemmeno vide sua madre quando entrò, in vestaglia, dalla porta alla sua destra.

«Buongiorno Matt».

Nessuna risposta.

Gli occhi restavano come calamitati verso un punto indefinito al centro dello spazio e del tempo.

Marilyn diede le spalle al figlio nascondendo velocemente un’espressione di dolore e si limitò a scuotere il capo. Si avvicinò al fornello, recuperò il caffè rimasto e lo versò in una tazza.

Dietro di lei, il rumore della sedia trascinata sul pavimento annunciò le intenzioni di Matt. Si sentirono il tonfo dello zaino sul pavimento, lo sforzo di raccoglierlo insieme ad un foglio e il suono di passi leggeri fino all’entrata.

Poco dopo la porta d’ingresso che sbatteva.

Marilyn si lasciò andare ad un sospiro soffocato.

«Ciao Matt».

L’aria della prima mattina, a Teignmouth, trasportava l’odore di salsedine, di sabbia e di roccia. Che fosse colpa dell’imponente estuario del Teign, con le sue scogliere a strapiombo, era chiaro. Ma era così particolare quel profumo all’alba, che era come se qualcuno – chissà chi e da dove – vi avesse aggiunto un aroma particolare.

Nella sua tuta in acetato¹, Matt percorse il tragitto che portava da casa di sua nonna alla spiaggia senza deviare nemmeno per un istante in direzione del Teignmouth Community College. Non aveva nessuna intenzione di presentarsi quel giorno e non aveva avuto dubbio su dove invece avrebbe trascorso la giornata. Il porto, la spiaggia, la sala giochi – in ogni caso i posti migliori per lui e non quella scuola.

Aveva un rapporto strano con l’High² di Teignmouth: non la disprezzava, ma, in ogni caso, preferiva avere la libertà di scegliere di non andarci. C’erano solo due corsi che facevano per lui: Musica e Arte e Recitazione¹. E nessuno dei due era previsto per quel giorno.

Quando arrivò in spiaggia e alzò gli occhi, accorgendosi per la prima volta nella giornata che esisteva un cielo, notò con disappunto che alcune nuvole grigiastre si stavano avvicinando, con l’intenzione di confermare le previsioni del tempo del giorno precedente: pioggia nel pomeriggio.

Sbuffò, si tolse le scarpe da ginnastica e le abbandonò su una scaletta che faceva da ingresso alla spiaggia, affondando in breve fino alle caviglie.

Ma non gli dava fastidio, anzi: era una sensazione piacevole; mosse le dita sotterrate e le tirò fuori parecchie volte, immergendo i piedi e facendoli riaffiorare come un bambino che per la prima volta scopre il mare.

Erano quasi le nove di mattina, ma sapeva di dover aspettare ancora un momento prima di veder apparire qualche faccia conosciuta.

Quando si stavano avvicinando le nove e mezza recuperò le scarpe, le mise sui piedi insabbiati e salì il lungomare fino al porto, adagiandosi, completamente a proprio agio, su una panchina del belvedere.

Teignmouth era perfetta: la luce accecante del mattino la faceva brillare come un frammento di vetro dai mille riflessi, scacciando con la sua spavalderia anche quelle nuvole affacciatesi da ovest.

Il pensiero gli cadde sulle rocce di Clerk e ancora una volta, come quando era bambino, si ritrovò a domandarsi, del tutto seriamente, se il Diavolo avrebbe traviato anche lui un giorno o l’altro³.

Sicuramente lo farà, si rispondeva. Ed era la risposta che si dava ormai sempre, da un anno a questa parte, dal giorno in cui i suoi genitori avevano divorziato.

Non che quello avesse importanza – non lo avrebbe mai influenzato. Era solo un vuoto, costante e immortale, che avrebbe impilato sugli altri mille vuoti della sua vita.

«Bells».

Un pugno sulla spalla, più pesante che amichevole.

Drew si appoggiò con una mano sullo schienale della panchina e lo guardò con uno strano ghigno da folle.

«Ancora qui eh?»

Si morse un labbro – come d’uso, a causa del suo tic – e gli fece segno di alzarsi.

«Un giro?», domandò.

Come se fosse una domanda.

Matt annuì, alzò quel fottuto culo molliccio (come l’aveva definito proprio Drew una volta) dalla panchina e si portò in un secondo accanto alla moto di Drew. Un gioiellino della meccanica a due ruote, nuovo di zecca. Un sorriso amaro sul suo stesso viso, ricordò a Matt quanto contassero i soldi a quel mondo.

Alle due del pomeriggio avevano fatto il giro completo dei quartieri malfamati, fumato marijuana e smaltito l’effetto, mangiato due o tre panini da fame chimica ed erano arrivati al Den4.

Intanto le previsioni si erano avverate: nuvole scure coprivano il caldo sole della mattina e cominciavano a congelare l’aria in attesa della pioggia.

Che venisse giù un temporale serio era escluso, ma senz’altro di sarebbe abbattuta su di loro quella pioggerella sottile sottile, estremamente fastidiosa e senza un briciolo di tempismo.

Il Den era un piccolo parco al centro di Teignmouth, luogo abituale di ritrovo delle varie cricche del TCC. A Matt non andava molto a genio – si sentiva come una vecchietta in casa di riposo: gli sarebbe bastato il cane per completare il quadretto –, ma a Drew piaceva e agli altri anche, motivo per cui non poteva fare altro che seguirli.

Si era unito a quel gruppo più che altro perché si sentiva bene ad andare in giro a rubare, fumare droghe leggere e combinare casini qua e là. Talento per gli sport non ne aveva, ma non era granché rilevante.

Quel giorno il Den era pieno di gente, sembrava quasi che tutti si fossero dati appuntamento lì con un tacito accordo ad abbandonare le armi; diversamente dal solito infatti, alcuni gruppi familiarizzavano con quelli accanto, ridendo e lanciandosi le sfide più assurde.

«Bells, vieni con noi?»

Drew lo guardava dall’alto in basso, con il seguito alle spalle che scalpitava e fumava sigari sicuramente illegali. Pregò mentalmente che non lo coinvolgessero nel caso qualcuno avesse notato che erano troppo grandi per essere sigari normali e lanciò un’occhiata interrogativa al capogruppo.

«Dove?»

«Alla sala giochi. Dobbiamo scaricare un po’ di roba».

«Leggera?»

Drew sorrise, come a valutare se avesse paura delle conseguenze o ci fosse semplice noia negli occhi chiari.

«Leggera, Bells».

Matt alzò le spalle, aspirò una boccata dalla sigaretta che si era acceso e si accomodò meglio nell’angolino che si era conquistato, sotto uno dei quattro alberi disponibili.

«Passo», decretò.

«Eddai, Bells, non vieni mai con noi a vendere!»

Era un altro della cricca ad aver parlato. Matt scrollò le spalle senza nemmeno rispondere.

Si guadagnò così un paio di insulti coloriti, ma lo lasciarono in pace all’istante. Sentì le moto partire verso la sala giochi, sorrise e si coricò comodamente.

Si svegliò che erano le cinque.

La prima cosa che notò furono le piccole gocce che cominciavano a tamburellare sulla sua faccia, dandogli non poco fastidio, ma sul momento non se ne curò. Si mise a sedere e vide che gran parte della gente di qualche ora prima era scomparsa, ad eccezione di un paio di cricche studentesche munite di cappucci delle felpe e impermeabili.

Bestemmiò la sfortuna di trovarsi a piedi ad una distanza considerevole da casa e tentò di alzarsi, con qualche difficoltà, vista la dormita appena fatta.

Tutta Teignmouth si era fatta scura e a Matt venne in mente il Vangelo – cosa che lo fece scoppiare a ridere – nel momento in cui Cristo aveva spirato e la terra era rimasta sconvolta. Alla sua risata un paio di facce incuriosite si voltarono nella sua direzione, ma distolsero lo sguardo non appena Matt mostrò i denti.

Era nel Den, sotto la pioggia, a piedi e troppo lontano da casa – pensò che come giornata orribile poteva bastare.

Ma, quel giorno, non aveva messo in conto quanto al Destino piaccia ridere di noi.

Stava correndo verso l’uscita del parco, quando, al di là della strada che separava le due aree verdi, notò lui.

Era un ragazzino biondo, capelli lunghi e viso morbido, che girava con quelli fighi¹. Non aveva nulla di speciale, vestiti uguali a quelli della sua cricca, sorriso fin troppo condiscendente, occhi scuri, temperamento – avrebbe detto Matt – quasi timido.

Ma lo stava osservando da un pezzo, probabilmente da quando, la prima volta, aveva visto esibirsi i Carnage Mayhem sul palco del TCC¹. L’aveva notato, dietro la batteria, dimenarsi come un forsennato stringendo le bacchette, mentre il ritmo lo trascinava letteralmente via, in un limbo che Matt conosceva bene. Ricordava chiaramente di aver pensato: se mai avrò un batterista, sarà lui.

Ma da quel momento in poi non era mai riuscito ad avvicinarlo, né a scuola né fuori; sembrava come sparire nel nulla, ogni volta.

E ora era lì, al di là della strada, un po’ discosto rispetto al gruppo e scontento, come lui.

Matt ghignò. Probabilmente anche per il batterista era stata una giornata chiusa in negativo.

Quello che sapeva di lui era poco: del nome neanche a parlarne, ma sapeva che era in grado di suonare la chitarra e alla batteria era un fenomeno e poi sembrava che avesse gusti musicali affini ai suoi.

Corse attraverso il parco sorridendo, convinto – per qualche strano motivo – che quel giorno se lo sarebbe ricordato. Aspettò che le macchine gli consentissero di passare, poi attraversò la strada e fu dall’altra parte.

Il batterista era sempre lì e la pioggia gli bagnava il corpo, rigandolo come se fosse sotto il getto d’acqua di una doccia.

Il viso esprimeva un misto di noia e insoddisfazione, ma negli occhi brillava una scintilla di cui Matt non si era mai accorto, una vitalità tutta interiore, un potenziale incredibile.

Mi piace, pensò.

Mentre gli si avvicinava, la pioggia aumentò di intensità, inzuppandolo del tutto. Il gruppo del batterista si preparava ad andarsene, ma, quando quello stava per seguire gli altri, Matt gli afferrò un braccio e lo fece voltare.

Il batterista sfoggiò un’espressione stupida, prima di potersi controllare e lanciare un’occhiata storta all’aggressore.

Ma Matt aveva già allungato la mano.

«Matthew Bellamy», esclamò.

Il batterista lo squadrò da capo a piedi un momento, dubbioso, poi strinse la mano con decisione.

«Dominic Howard», rispose.

Matt sorrise – uno di quegli strani sorrisi sghembi che apparivano a volte sulla sua faccia.

«Insegnami a suonare la chitarra».

La richiesta era talmente assurda che Dominic scoppiò a ridere d’istinto.

«Io?», domandò. E, quando l’atro annuì, «Perché io?»

«La sai suonare no?»

«Poco e comunque non la suono più ormai».

«Lo so, ti ho visto alla batteria».

Dominic sembrò sorpreso, ma ancora non era convinto.

«Posso insegnarti davvero poco, solo-»

«A me va bene», lo interruppe l’altro. «So già suonare a orecchio, imitando la tastiera del pianoforte, ma se tu potessi insegnarmi le basi, io-»

«Va bene».

«Va bene?»

Dominic sorrise e alzò le spalle.

«Sì».

Matt scoppiò a ridere.

«Perché ridi adesso?»

«Cazzo, sei ridicolo con quei capelli!»

Dominic si rabbuiò e fece un passo indietro, aumentando la distanza.

«Parli tu, tizio con la tuta infangata fino al ginocchio».

Matt guardò i pantaloni, sorpreso, e poi si lasciò andare a ridere, di nuovo, come se non ne avesse mai abbastanza.

«Di buon umore oggi…»

Dominic lo osservava tra lo sconcertato e l’abbattuto, ancora offeso per l’insulto ai suoi capelli.

Ma un attimo dopo, Matt gli mise un braccio sulle spalle e gli indicò il punto in cui, ipoteticamente, si sarebbe dovuta trovare la scuola.

«Domani alle otto, prima delle lezioni?»

Non diede a Dominic il tempo di rispondere, iniziò a correre sotto la pioggia, in mezzo all’erba, allontanandosi troppo in fretta. Un attimo dopo era sparito. I suoi gesti sprizzavano energia e talento e – in un modo che per sempre, da quel momento in avanti, solo Dominic sarebbe stato in grado di percepire – mostravano come le ferite del passato, a poco a poco, potessero trovare qualcuno in grado di ricucirle.

~

Wembley Stadium – 2007

«Ti ricordi ancora del 1992?»

Dominic, intento a controllare la batteria montata apposta per lui su una piattaforma speciale, si voltò, lanciandogli un’occhiata eloquente.

«A quale giorno del 1992 ti riferisci in particolare?»

«Non me lo ricordo», ammise.

Dom gli si avvicinò, avendo percepito il cambiamento nel tono della voce. Gli appoggiò un braccio sulla spalla e gli indicò l’immensa platea del Wembley, sterminata quasi come il deserto arido d’Arizona ai suoi occhi.

«Lo vedi quello?»

«Sì».

«E lo sai cos’è?»

Matt sorrise; sapeva dove voleva arrivare.

«No», mentì.

Dom sbuffò contrariato e si posizionò di fronte a lui, preparandosi alla scena.

«Questo», e allargò le braccia per includere ogni centimetro dello spazio circostante, «sei tu, Matthew James Bellamy, siamo noi. E’ il Wembley Stadium, capisci cosa significa? E stasera questo posto sarà stracolmo di te, stracolmo di noi. E sai perché? Perché con ogni particella del tuo essere hai fatto in modo che questa realtà si avverasse.»

Matt lo guardava pacato, ma gli occhi tradivano l’affetto, incontenibile, per quel ragazzo che lo guardava storto, come quindici anni prima.

«Perciò non lasciarti andare alla malinconia, va bene? Nemmeno ai rimpianti. Anche se so che non ne hai.»

Matt distese il viso in un’espressione più tranquilla e serena, sorridendo al batterista della sua cricca.

«Va bene».

Dom si sedette, soddisfatto, e continuò ad osservare da lontano la sua batteria. Matt abbassò gli occhi.

«Stavo semplicemente pensando a quando ci siamo incontrati», gettò lì. «Tu te ne ricordi?»

«Certo».

La sicurezza della risposta lo sorprese.

Dominic stava sogghignando, probabilmente con il suo stesso pensiero in mente.

«Sei ridicolo con quei capelli», lo scimmiottò.

E poi scoppiò a ridere, senza riuscire a contenersi.

Matt lo seguì d’istinto; non ci vedeva nulla di male.

«Non sei cambiato molto».

Dominic fece leva sulle braccia e si alzò in piedi, ma non smise un attimo di guardare Matt negli occhi.

Gli si avvicinò finché i nasi non si sfiorarono.

«È il giorno che ricordo meglio nella mia intera vita», mormorò.

Poi gli sorrise e si allontanò, lasciandolo a guardare il vuoto con occhi assenti.

Il Wembley Stadium si estendeva in tutta la sua imponenza, dimostrando dove, alla fine, erano arrivati.

 

E tutto – tutto – era partito da quella inconsapevole, giovane e decisa stretta di mano. Sotto la pioggia del 1992.

 

FINE

 

Note

Come avrete capito, per scrivere Pioggia 1992 mi sono basata, quasi interamente, sulle informazioni contenute in Out of the world di M.Beaumont, capitolo primo.

Non ho attinto da altre fonti, quindi spero che i dati siano esatti.

Per il resto, tutto è frutto solamente della mia fantasia, che ho utilizzato per immaginare come potesse essere stato il primo incontro tra Matt e Dominic. Io personalmente non ci trovo nulla di slash, ma siete liberi di interpretarla come preferite.:)

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¹Indica i riferimenti più espliciti a Out of the world – M.Beaumont.

²Prima dell’arrivo di Matt, il TCC (Teignmouth Community College) era chiamato semplicemente Teignmouth High.

³La leggenda delle cosiddette Clerk Rocks vuole che un pastore e il suo chierico, sedotti dal diavolo e dunque portati alla perdizione, siano stati scagliati dal demonio stesso in acqua, dove adesso si trovano le due rocce dalla forma umana, Parson e Clerk.

4Il Den è un parco molto famoso al centro di Teignmouth; la foto al link http://i520.photobucket.com/albums/w326/ali_adc/Teignmouth-Den.jpg

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Spero che vi abbia fatto sorridere.

 

{Ali}.

   
 
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