Pioggia
1992.
«Fu
così che un giorno, nella sua tuta
da ginnastica in acetato,
Matt
andò incontro a Dom, si presentò e
gli chiese di insegnargli
a
suonare la chitarra.
Invece di fulmini e saette è molto più probabile
che
stesse venendo giù una pioggerellina sottile, ma di
rado si è visto
un
incontro
rock più fatidico di quello.»
[Out
of the world ~ M.Beaumont]
Teignmouth - 1992
L’acqua
colava incandescente, pesante, e picchiava sulle spalle, sulla schiena,
sulle
gambe. Immerse la testa sotto il getto finché non
udì più rumori esterni,
finché la simbiosi con il suo subconscio fu totale.
In
quel momento non sentiva altro che
se
stesso; un ingombrante, sordo se stesso, pieno di un silenzio irreale e
soffocante.
Aprì
la bocca schiudendo lentamente le labbra, respirò
l’aria satura di vapore che
appesantiva i polmoni, chiuse gli occhi, aspettò. Le gocce
lo coprirono
interamente, non gli lasciarono altro spiraglio che il naso. E allora
inspirò.
Era
come se la terra non contasse più nulla, come se il mondo
fuori da quella porta
in legno non avesse nulla a che fare con la sua vita. Era come se non
esistesse
più nulla, come se non
fosse mai esistito.
Sorrise.
Appoggiò gli avambracci alle pareti, ansimando a pochi
centimetri dalle
piastrelle scivolose di fronte al suo naso.
Lo
mandava in fibrillazione scottarsi fino a quel punto; una sorta di
sadico
autolesionismo da film porno, o, come avrebbe detto Kirk, la sua
personale condanna
a un se stesso che disprezzava al punto da volerlo uccidere.
Ma
non importava da cosa fosse provocato, perché quella
sensazione era un brivido
impagabile, era un po’ uno stazionare tra la vita e la morte.
Da una parte la
sofferenza, dall’altra l’ignoto.
Un
profumo sotterrato dal vapore solleticò i suoi sensi. Camomilla.
Lo
intrigava l’odore dello shampoo dal botticino verde, lo
calmava, lo assuefaceva
a quello strano rito di precoce autodistruzione.
Spense
l’acqua all’improvviso, sollevò le
spalle e tentò di strizzare i capelli a
spazzola con scarsi risultati.
Era
tanto tempo che non li aveva lunghi.
Una vita intera, forse.
Il
calendario segnava distrattamente l’anno 1992, ma non
indicava né mese né
giorno esatti. Pendendo tutto storto da un chiodo conficcato nel muro,
cercava
di attirare l’attenzione rimanendo indietro con le date, ma
non otteneva altro
che l’indifferenza generale.
La
cucina era piccola, spoglia e priva di un qualsiasi ordine –
merito, peraltro,
quasi interamente riconducibile a Matt.
Il
quale, nella sonnolenza pacata della prima mattina, beveva un
caffè respirando
rumorosamente tra un sorso e l’altro, e guardava fisso nel
vuoto di fronte a
sé.
Nemmeno
vide sua madre quando entrò, in vestaglia, dalla porta alla
sua destra.
«Buongiorno
Matt».
Nessuna
risposta.
Gli
occhi restavano come calamitati verso un punto indefinito al centro
dello
spazio e del tempo.
Marilyn
diede le spalle al figlio nascondendo velocemente
un’espressione di dolore e si
limitò a scuotere il capo. Si avvicinò al
fornello, recuperò il caffè rimasto e
lo versò in una tazza.
Dietro
di lei, il rumore della sedia trascinata sul pavimento
annunciò le intenzioni
di Matt. Si sentirono il tonfo dello zaino sul pavimento, lo sforzo di
raccoglierlo
insieme ad un foglio e il suono di passi leggeri fino
all’entrata.
Poco
dopo la porta d’ingresso che sbatteva.
Marilyn
si lasciò andare ad un sospiro soffocato.
«Ciao Matt».
L’aria
della prima mattina, a Teignmouth, trasportava l’odore di
salsedine, di sabbia
e di roccia. Che fosse colpa dell’imponente estuario del
Teign, con le sue
scogliere a strapiombo, era chiaro. Ma era così particolare
quel profumo
all’alba, che era come se qualcuno –
chissà chi e da dove – vi avesse aggiunto
un aroma particolare.
Nella
sua tuta in acetato¹,
Matt percorse il tragitto che
portava da casa di sua nonna alla spiaggia senza deviare nemmeno per un
istante
in direzione del Teignmouth Community College. Non aveva nessuna
intenzione di
presentarsi quel giorno e non aveva avuto dubbio su dove invece avrebbe
trascorso la giornata. Il porto, la spiaggia, la sala giochi
– in ogni caso i
posti migliori per lui e non quella
scuola.
Aveva
un rapporto strano con l’High²
di Teignmouth: non la
disprezzava, ma, in ogni caso, preferiva avere la libertà di
scegliere di non
andarci. C’erano solo due corsi che facevano per lui: Musica
e Arte e Recitazione¹.
E nessuno dei due era previsto per quel
giorno.
Quando
arrivò in spiaggia e alzò gli occhi, accorgendosi
per la prima volta nella giornata
che esisteva un cielo, notò con disappunto che alcune nuvole
grigiastre si
stavano avvicinando, con l’intenzione di confermare le
previsioni del tempo del
giorno precedente: pioggia nel pomeriggio.
Sbuffò,
si tolse le scarpe da ginnastica e le abbandonò su una
scaletta che faceva da
ingresso alla spiaggia, affondando in breve fino alle caviglie.
Ma
non gli dava fastidio, anzi: era una sensazione piacevole; mosse le
dita
sotterrate e le tirò fuori parecchie volte, immergendo i
piedi e facendoli
riaffiorare come un bambino che per la prima volta scopre il mare.
Erano
quasi le nove di mattina, ma sapeva di dover aspettare ancora un
momento prima
di veder apparire qualche faccia conosciuta.
Quando
si stavano avvicinando le nove e mezza recuperò le scarpe,
le mise sui piedi
insabbiati e salì il lungomare fino al porto, adagiandosi,
completamente a
proprio agio, su una panchina del belvedere.
Teignmouth
era perfetta: la luce accecante del mattino la faceva brillare come un
frammento di vetro dai mille riflessi, scacciando con la sua
spavalderia anche
quelle nuvole affacciatesi da ovest.
Il
pensiero gli cadde sulle rocce di Clerk
e ancora una
volta, come quando era bambino, si ritrovò a domandarsi, del
tutto seriamente,
se il Diavolo avrebbe traviato anche lui un giorno o l’altro³.
Sicuramente
lo farà, si rispondeva. Ed era la risposta
che si dava ormai
sempre, da un anno a questa parte, dal giorno in cui i suoi genitori
avevano
divorziato.
Non
che quello avesse importanza – non lo avrebbe mai
influenzato. Era solo un vuoto, costante e immortale, che
avrebbe impilato sugli altri mille vuoti della sua vita.
«Bells».
Un
pugno sulla spalla, più pesante che amichevole.
Drew
si appoggiò con una mano sullo schienale della panchina e lo
guardò con uno
strano ghigno da folle.
«Ancora
qui eh?»
Si
morse un labbro – come d’uso, a causa del suo tic
– e gli fece segno di
alzarsi.
«Un
giro?», domandò.
Come
se fosse una domanda.
Matt annuì,
alzò quel fottuto culo molliccio
(come
l’aveva definito proprio Drew una volta) dalla panchina e si
portò in un
secondo accanto alla moto di Drew. Un gioiellino della meccanica a due
ruote,
nuovo di zecca. Un sorriso amaro sul suo stesso viso,
ricordò a Matt quanto contassero i soldi a quel mondo.
Alle
due del pomeriggio avevano fatto il giro completo dei quartieri
malfamati,
fumato marijuana e smaltito l’effetto, mangiato
due o tre
panini da fame chimica ed erano arrivati al Den4.
Intanto
le previsioni si erano avverate: nuvole scure coprivano il caldo sole
della
mattina e cominciavano a congelare l’aria in attesa della
pioggia.
Che
venisse giù un temporale serio era escluso, ma
senz’altro di sarebbe abbattuta
su di loro quella pioggerella sottile
sottile,
estremamente fastidiosa e senza un briciolo di tempismo.
Il
Den era un piccolo parco al centro di Teignmouth, luogo abituale di
ritrovo
delle varie cricche del TCC. A Matt non andava molto a genio
– si sentiva come
una vecchietta in casa di riposo: gli sarebbe bastato il cane per
completare il
quadretto –, ma a Drew piaceva e agli altri anche, motivo per
cui non poteva
fare altro che seguirli.
Si
era unito a quel gruppo più che altro perché si
sentiva bene ad andare in giro
a rubare, fumare droghe leggere e combinare casini qua e là.
Talento per gli
sport non ne aveva, ma non era granché rilevante.
Quel
giorno il Den era pieno di gente, sembrava quasi che tutti si fossero
dati
appuntamento lì con un tacito accordo ad abbandonare le
armi; diversamente dal
solito infatti, alcuni
gruppi familiarizzavano con
quelli accanto, ridendo e lanciandosi le sfide più assurde.
«Bells,
vieni con noi?»
Drew
lo guardava dall’alto in basso, con il seguito alle spalle
che scalpitava e
fumava sigari sicuramente illegali. Pregò mentalmente che
non lo coinvolgessero
nel caso qualcuno avesse notato che erano troppo
grandi per essere sigari normali e lanciò
un’occhiata interrogativa al
capogruppo.
«Dove?»
«Alla
sala giochi. Dobbiamo scaricare un po’ di roba».
«Leggera?»
Drew
sorrise, come a valutare se avesse paura delle conseguenze o ci fosse
semplice
noia negli occhi chiari.
«Leggera,
Bells».
Matt
alzò le spalle, aspirò una boccata dalla
sigaretta che si era acceso e si
accomodò meglio nell’angolino che si era
conquistato, sotto uno dei quattro
alberi disponibili.
«Passo», decretò.
«Eddai,
Bells, non vieni mai con noi a vendere!»
Era
un altro della cricca ad aver parlato. Matt scrollò le
spalle senza nemmeno
rispondere.
Si guadagnò
così un paio
di insulti coloriti, ma lo lasciarono in pace all’istante.
Sentì le moto
partire verso la sala giochi, sorrise e si coricò
comodamente.
Si
svegliò che erano le cinque.
La
prima cosa che notò furono le piccole gocce che cominciavano
a tamburellare
sulla sua faccia, dandogli non poco fastidio, ma sul momento non se ne
curò. Si
mise a sedere e vide che gran parte della gente di qualche ora prima
era
scomparsa, ad eccezione di un paio di cricche studentesche munite di
cappucci
delle felpe e impermeabili.
Bestemmiò
la sfortuna di trovarsi a piedi ad una distanza considerevole da casa e
tentò
di alzarsi, con qualche difficoltà, vista la dormita appena
fatta.
Tutta
Teignmouth si era fatta scura e a Matt venne in mente il Vangelo
– cosa che lo
fece scoppiare a ridere – nel momento in cui Cristo aveva
spirato e la terra
era rimasta sconvolta. Alla sua risata un paio di facce incuriosite si
voltarono nella sua direzione, ma distolsero lo sguardo non appena Matt
mostrò
i denti.
Era nel Den, sotto la
pioggia, a piedi e troppo lontano da casa – pensò
che come giornata orribile poteva
bastare.
Ma,
quel giorno, non aveva messo in conto quanto al
Destino piaccia ridere di noi.
Stava
correndo verso l’uscita del parco, quando, al di
là della strada che separava
le due aree verdi, notò lui.
Era
un ragazzino biondo, capelli lunghi e viso morbido, che girava con quelli fighi¹.
Non aveva nulla di speciale,
vestiti uguali a quelli della sua cricca, sorriso fin troppo
condiscendente,
occhi scuri, temperamento – avrebbe detto Matt –
quasi timido.
Ma
lo stava osservando da un pezzo, probabilmente da quando, la prima
volta, aveva
visto esibirsi i Carnage Mayhem
sul
palco del TCC¹.
L’aveva notato, dietro la batteria,
dimenarsi come un forsennato stringendo le bacchette, mentre il ritmo
lo
trascinava letteralmente via, in un limbo che Matt conosceva bene.
Ricordava
chiaramente di aver pensato: se mai
avrò
un batterista, sarà lui.
Ma
da quel momento in poi non era mai riuscito ad avvicinarlo,
né a scuola né
fuori; sembrava come sparire nel nulla, ogni volta.
E
ora era lì, al di là della strada, un
po’ discosto rispetto al gruppo e
scontento, come lui.
Matt
ghignò. Probabilmente anche per il batterista era stata una
giornata chiusa in
negativo.
Quello
che sapeva di lui era poco: del nome neanche a parlarne, ma sapeva che
era in
grado di suonare la chitarra e alla batteria era un fenomeno e poi
sembrava che
avesse gusti musicali affini ai suoi.
Corse
attraverso il parco sorridendo, convinto – per qualche strano
motivo – che quel
giorno se lo sarebbe ricordato. Aspettò che le macchine gli
consentissero di
passare, poi attraversò la strada e fu dall’altra
parte.
Il
batterista era sempre lì e la pioggia gli bagnava il corpo,
rigandolo come se
fosse sotto il getto d’acqua di una doccia.
Il
viso esprimeva un misto di noia e insoddisfazione, ma negli occhi
brillava una
scintilla di cui Matt non si era mai accorto, una vitalità
tutta interiore, un
potenziale incredibile.
Mi piace, pensò.
Mentre
gli si avvicinava, la pioggia aumentò di
intensità, inzuppandolo del tutto. Il
gruppo del batterista si preparava ad andarsene, ma, quando quello
stava per
seguire gli altri, Matt gli afferrò un braccio e lo fece
voltare.
Il
batterista sfoggiò un’espressione stupida, prima
di potersi controllare e
lanciare un’occhiata storta all’aggressore.
Ma
Matt aveva già allungato la mano.
«Matthew
Bellamy»,
esclamò.
Il
batterista lo squadrò da capo a piedi un momento, dubbioso,
poi strinse la mano
con decisione.
«Dominic
Howard»,
rispose.
Matt
sorrise – uno di quegli strani sorrisi sghembi che apparivano
a volte sulla sua
faccia.
«Insegnami
a suonare la chitarra».
La
richiesta era talmente assurda che Dominic scoppiò a ridere
d’istinto.
«Io?»,
domandò. E, quando l’atro annuì,
«Perché io?»
«La
sai suonare no?»
«Poco
e comunque non la suono più ormai».
«Lo
so, ti ho visto alla batteria».
Dominic
sembrò sorpreso, ma ancora non era convinto.
«Posso
insegnarti davvero poco, solo-»
«A
me va bene», lo interruppe l’altro. «So
già suonare a orecchio, imitando la
tastiera del pianoforte, ma se tu potessi insegnarmi le basi, io-»
«Va
bene».
«Va
bene?»
Dominic
sorrise e alzò le spalle.
«Sì».
Matt
scoppiò a ridere.
«Perché
ridi adesso?»
«Cazzo,
sei ridicolo con quei capelli!»
Dominic
si rabbuiò e fece un passo indietro, aumentando la distanza.
«Parli
tu, tizio con la tuta infangata fino al ginocchio».
Matt
guardò i pantaloni, sorpreso, e poi si lasciò
andare a ridere, di nuovo, come
se non ne avesse mai abbastanza.
«Di
buon umore oggi…»
Dominic
lo osservava tra lo sconcertato e l’abbattuto, ancora offeso
per l’insulto ai
suoi capelli.
Ma
un attimo dopo, Matt gli mise un braccio sulle spalle e gli
indicò il punto in
cui, ipoteticamente, si sarebbe dovuta trovare la scuola.
«Domani
alle otto, prima delle lezioni?»
Non diede a Dominic il
tempo di rispondere, iniziò a correre sotto la pioggia, in
mezzo all’erba,
allontanandosi troppo in fretta. Un attimo dopo era sparito. I suoi
gesti
sprizzavano energia e talento e – in un modo che per sempre,
da quel momento in
avanti, solo Dominic sarebbe stato in grado di percepire –
mostravano come le
ferite del passato, a poco a poco, potessero trovare qualcuno in grado
di
ricucirle.
~
Wembley Stadium –
2007
«Ti
ricordi ancora del 1992?»
Dominic,
intento a controllare la batteria montata apposta per lui su una
piattaforma
speciale, si voltò, lanciandogli un’occhiata
eloquente.
«A
quale giorno del 1992 ti riferisci
in
particolare?»
«Non
me lo ricordo», ammise.
Dom
gli si avvicinò, avendo percepito il cambiamento nel tono
della voce. Gli
appoggiò un braccio sulla spalla e gli indicò
l’immensa platea del Wembley,
sterminata quasi come il deserto arido d’Arizona ai suoi
occhi.
«Lo
vedi quello?»
«Sì».
«E
lo sai cos’è?»
Matt
sorrise; sapeva dove voleva arrivare.
«No»,
mentì.
Dom
sbuffò contrariato e si posizionò di fronte a
lui, preparandosi alla scena.
«Questo»,
e allargò le braccia per includere ogni centimetro dello
spazio circostante, «sei
tu, Matthew James Bellamy, siamo noi.
E’ il Wembley Stadium, capisci cosa significa? E stasera
questo posto sarà stracolmo di te, stracolmo di noi. E sai
perché? Perché con
ogni particella del tuo essere hai fatto in modo che questa
realtà si
avverasse.»
Matt
lo guardava pacato, ma gli occhi tradivano l’affetto,
incontenibile, per quel
ragazzo che lo guardava storto, come quindici anni prima.
«Perciò
non lasciarti andare alla malinconia, va bene? Nemmeno ai rimpianti.
Anche se
so che non ne hai.»
Matt
distese il viso in un’espressione più tranquilla e
serena, sorridendo al
batterista della sua cricca.
«Va
bene».
Dom
si sedette, soddisfatto, e continuò ad osservare da lontano
la sua batteria.
Matt abbassò gli occhi.
«Stavo
semplicemente pensando a quando ci siamo incontrati»,
gettò lì. «Tu te ne
ricordi?»
«Certo».
La
sicurezza della risposta lo sorprese.
Dominic
stava sogghignando, probabilmente con il suo stesso pensiero in mente.
«Sei
ridicolo con quei capelli», lo
scimmiottò.
E
poi scoppiò a ridere, senza riuscire a contenersi.
Matt
lo seguì d’istinto; non ci vedeva nulla di male.
«Non
sei cambiato molto».
Dominic
fece leva sulle braccia e si alzò in piedi, ma non smise un
attimo di guardare
Matt negli occhi.
Gli
si avvicinò finché i nasi non si sfiorarono.
«È
il giorno che ricordo meglio nella mia intera vita»,
mormorò.
Poi
gli sorrise e si
allontanò, lasciandolo a guardare il
vuoto con occhi assenti.
Il
Wembley Stadium si estendeva in tutta la sua imponenza, dimostrando
dove, alla
fine, erano arrivati.
E
tutto – tutto –
era partito da quella
inconsapevole, giovane e decisa stretta di mano. Sotto la pioggia del
1992.
FINE
Note
Come
avrete capito, per scrivere Pioggia
Non
ho attinto da altre fonti, quindi spero che i dati siano esatti.
Per
il resto, tutto è frutto solamente della mia fantasia, che
ho utilizzato per
immaginare come potesse essere stato il primo incontro tra Matt e
Dominic. Io
personalmente non ci trovo nulla di slash, ma siete liberi di
interpretarla come preferite.:)
---
¹Indica i
riferimenti più espliciti a Out of the world –
M.Beaumont.
²Prima
dell’arrivo di Matt, il TCC (Teignmouth Community College)
era chiamato
semplicemente Teignmouth High.
³La
leggenda delle cosiddette Clerk
Rocks vuole
che un pastore e il suo chierico, sedotti
dal diavolo e dunque portati alla perdizione, siano stati scagliati dal
demonio
stesso in acqua, dove adesso si trovano le due rocce dalla forma umana,
Parson e Clerk.
4Il Den è
un parco molto famoso al centro di Teignmouth; la foto al
link http://i520.photobucket.com/albums/w326/ali_adc/Teignmouth-Den.jpg
---
Spero
che vi abbia fatto sorridere.
{Ali}.