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Autore: ellephedre    04/02/2011    24 recensioni
Per ragioni che le erano diventate comprensibili solo a sedici anni, il suo umore era sempre stato influenzato dalla maree e dalle generali condizioni delle acque accanto a cui si era trovata a vivere. Da bambina era stata, a seconda dei luoghi e delle giornate, come un fiume in piena, un lago serenissimo, un ghiacciaio imperturbabile o un mare in tempesta. L'ultima condizione era stata la peggiore.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Michiru/Milena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Oltre le stelle Saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Preda del mare Note:
'Michiru' in giapponese significa sorgente. Kaiou significa 'dio del mare'.

Preda del mare

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

"Per ragioni che le erano diventate comprensibili solo a sedici anni, il suo umore era sempre stato influenzato dalla maree e dalle generali condizioni delle acque accanto a cui si era trovata a vivere.
Da bambina era stata, a seconda dei luoghi e delle giornate, come un fiume in piena, un lago serenissimo, un ghiacciaio imperturbabile o un mare in tempesta. L'ultima condizione era stata la peggiore."
(estratto dal capitolo XXI di 'Verso l'alba')


"Dov'è Michi?"
Era cominciata così, con una bambina di due anni e mezzo sparita dalla sua stanza.
La babysitter aveva alzato gli occhi dal proprio libro di testo e aveva lanciato uno sguardo sotto il tavolo. Quella sera aveva accettato di rimpiazzare la sua amica al lavoro solamente perché le era stato assicurato che la bambina da curare era tranquilla, ma da quando era entrata in casa Kaiou - niente madre, un padre vedovo, una singola figlia - non aveva avuto un attimo di riposo. La piccola peste si era infilata dappertutto, persino dentro la lavatrice. La bambina aveva passato la serata a urlare e benché Kasumi conoscesse solo qualcuno dei fondamenti della religione cristiana, aveva desiderato avere a disposizione un prete esorcista. In quei venti chili di piccola umana si era sicuramente nascosto qualche diavoletto, si era detta. E non un diavoletto carino, ma uno di quei piccoli mostri nati per distruggere la vita altrui.
Si era alzata dal tavolo e aveva stropicciato gli occhi affaticati dallo studio e dalla poca luce del salotto. "L'ho fatto addormentare poco fa. In camera sua."
Kyoichi Kaiou era rientrato nel corridoio a cercare sua figlia.
Kasumi l'aveva seguito con riluttanza, pronta a trovare la bambina dentro un cassetto mentre urlava silenziosamente al mondo tutto il proprio odio represso. Michiru, così l'avevano chiamata. Sorgente. Sorgente di cosa? Di guai, si era risposta Kasumi.
Era quasi andata a sbattere contro la schiena del suo temporaneo datore di lavoro.
Lui era entrato in camera di sua figlia a passi larghi. "Hai lasciato la finestra aperta con questo temporale? Non hai sentito tutto il vento che-" Si era interrotto bruscamente e nella penombra Kasumi aveva osservato il suo volto farsi terreo. "L'avevi lasciata a dormire qui?"
Kasumi aveva spostato lo sguardo sul lettino, trovandolo vuoto. "Sì." Mentre una folata di vento le scompigliava la frangia, aveva aggrottato la fronte. "Mi scusi per la finestra aperta, ma stavo studiando e non mi ero accorta che aveva iniziato a piovere." Si era chinata verso la cassettiera e, partendo dal basso, aveva aperto uno ad uno tutti i cassetti. L'ultimo era stato posizionato all'altezza del suo petto e per quanto non avesse ritenuto intelligente cercare la bambina anche lì, Kasumi aveva imparato che era una soluzione necessaria. Durante quella sera aveva perso per due volte più di un quarto d'ora a cercare Michiru dentro un singola stanza e solo per non aver guardato in posti che le erano parsi nascondigli improbabili.
"Che cosa stai cercando?" aveva quasi ringhiato il padrone di casa, abbassando con forza la finestra. "Aiutami a trovare mia figlia! Non so se tu abbia bevuto qualcosa, ma è evidente che non l'hai lasciata nel suo letto. Da lì non può uscire."
Kasumi aveva evitato di ribattere solo per quieto vivere e, giusto perché aveva avuto diciannove anni e non poteva lasciarsi battere da una marmocchia di due, aveva iniziato ad usare il cervello. Il lettino era ancora in piedi e non riverso a terra, si era detta, perciò la bambina non poteva averlo scavalcato dal lato che dava sul pavimento. Accanto al muro c'era solo il davanzale, quindi...
Con un masso di tensione nella gola, si era precipitata verso la finestra dal vetro spesso, sollevandola con due mani.
Aveva tirato fuori la testa, finendo sotto una pioggia torrenziale.
A poco meno di un metro e mezzo da lei, in un solo punto, i fiori dell'aiuola che circondava l'intera casa erano stati piegati contro il terreno.
Era corsa fuori dalla stanza.
"Michiru!"
L'urlo di Kyochi Kaiou aveva raggiunto Kasumi mentre si immergeva nel temporale.

"È sempre stata una bambina così brava..."
L'infermiera Madoki aveva annuito comprensiva mentre misurava la febbre alla piccolina. Per ciascun genitore il proprio figlio era un inno alla bontà quando stava male, ma la bambina rannicchiata sul letto d'ospedale grande tre volte lei sembrava davvero la personificazione della dolcezza infantile. I capelli lievemente ondulati le incorniciavano il viso debilitato mentre le piccole labbra violacee ancora tremavano.
L'infermiera Madoki aveva scorto un velo di lacrime luccicanti sopra occhi dal colore blu profondo e si era scoperta a trasalire. Non aveva mai visto uno sguardo tanto adulto in un essere così piccolo. La luce di determinazione nello sguardo della paziente - pronta a dar battaglia per la propria vita - era scomparsa quasi subito, lasciando dietro di sé solo il ricordo di una illusoria stranezza. La bambina era tornata ad essere una piccola creatura indifesa, desiderosa di cure e protezione.
Piegandosi sul letto, il padre l'aveva abbracciata. "Mi dispiace... mi dispiace."
L'infermiera Madoki non aveva trovato anomale le scuse. Se ogni genitore si sentiva in colpa di fronte al malessere dei propri figli, i più preoccupati in caso di incidenti erano proprio i genitori soli. La bambina non aveva una madre, secondo la sua cartella. Era stata affidata alle cure di una povera ragazza che si trovava ancora in attesa nella sala del pronto soccorso, arrivata lì coi vestiti fradici quanto quelli della piccola.
Akemi Madoki aveva portato un camice da ospedale ai due adulti e qualcosa di adatto per la bambina.
Davanti ai suoi occhi la piccola Michiru Kaiou rilasciò un sospiro e si addormentò.
Il padre le accarezzò la fronte, sistemandole con cura i capelli.
Dalla finestra aperta si udì un suono di nuova calma.
Akemi si permise un sorriso. "Il temporale è finito."



Nei suoi primi ricordi suo padre stava seduto nella poltrona del salotto, le scarpe illuminate dal sole e il viso che riposava nell'ombra. Teneva la testa reclinata all'indietro e sembrava chiedersi perché il destino gli avesse dato una simile figlia.
Non è colpa mia, avrebbe voluto dirgli lei.
Non essere triste, non essere deluso. Non aveva neppure saputo cosa fosse la delusione, ma per istinto un bambino riconosceva anche sensazioni senza nome.
"Sono brava?" gli aveva chiesto una volta, provando a ballare di fronte a lui per farlo contento.
Suo padre le aveva accarezzato i capelli, osservandola come se si attendesse di vederla mutare di fronte ai suoi occhi da un momento all'altro.
Michiru si era sforzata tremendamente di non impazzire come al solito, anche se neppure lei aveva saputo cosa le facesse perdere ogni ragione e controllo.
"Può essere stato un singolo episodio?" Era la domanda che suo padre aveva posto una volta ad un dottore. "Una volta si è persa di notte sotto un temporale e da allora..."
Lo sguardo del medico era stato compassionevole. "No, signor Kaiou. Questi non sono i sintomi di un trauma, sembra più..."
Il dottore aveva elencato una serie di termini che lei non era stata in grado di comprendere, parole che erano scivolate con rassegnazione sullo sguardo di suo padre.
"Grazie" aveva detto lui al dottore. E l'aveva portata via da lì.

Erano dovuti passare tre anni perché suo padre di accorgesse che il bel clima la faceva stare bene.
Non si erano trasferiti per cercare un suo miglioramento, bensì per una semplice questione di lavoro. Nella vita di Kyochi Kaiou avevano avuto importanza solo il suo lavoro e sua figlia, con una spiccata preferenza per il primo dei due. Il lavoro per lui aveva rappresentato un rifugio, un luogo in cui dimenticare una vita familiare difficile, incomprensibile.
Michiru aveva cercato di essere più brava - più normale, per allora aveva acquisito la nozione - e aveva tentato con tutte le sue forze di opporsi agli attimi che la travolgevano come vento che le entrava nella testa.
Faceva il bagno ogni giorno. Dentro l'acqua della vasca giocava con una barchetta ed era più felice e tranquilla che mai.
Quando suo padre tornava dal lavoro, la trovava sempre in acqua. La babysitter non riusciva mai a resistere troppo a lungo alla sua esuberanza e doveva metterla dove piaceva a lei prima delle cinque del pomeriggio. Quattro, se era possibile.
Michiru non aveva mai legato con nessuna donna. Nessuna donna e nessun uomo, suo padre per primo, avevano mai capito che quella non era lei. Lei non era un terremoto che non sapeva stare ferma, non gridava perché voleva, non era arrabbiata perché era arrabbiata.
Era... travolta, sempre. Nessuno la comprendeva e a volte la frustrazione era davvero la sua: per tutti era Michiru, la bambina strana da cui era meglio stare lontani.
Eppure non era colpa sua. Se lo ripeteva da sola senza piangere, quando pensava la notte, nei pochi minuti prima di addormentarsi. Le piaceva essere stanca.
Quando era stanca non aveva forze e non metteva in faccia a nessuno un'espressione di esasperata rassegnazione, neppure per un momento.
Un giorno, quando aveva quasi cinque anni, suo padre le aveva detto che non poteva più sopportare di stare in casa solo per paura che lei facesse scenate fuori.
L'aveva messa in macchina, facendo molta attenzione a non permetterle di liberarsi in alcun modo dalle cinture di sicurezza, e l'aveva portata in spiaggia.
In quel luogo magico lei era sbocciata.
Si era avvicinata all'acqua con passi esitanti, estasiata dai suoni, dalle immagini, dal profumo che le aveva invaso le narici. Si era lasciata cadere nella sabbia, permettendo alle onde di lambirle i piedi.
Suo padre si era seduto accanto a lei ed era rimasto a guardarla per molto tempo, confuso.
Quando, cullata dalla litania tenera delle onde, lei aveva continuato a rimanere calma, lui le aveva scostato lievemente la frangia dagli occhi. "Ora somigli a tua madre" le aveva detto e Michiru aveva pensato che in quel momento lui assomigliasse ad un papà.
Si era sdraiata di fianco e gli aveva preso la mano, sperando di potergli volere presto ancora più bene.
Come nei cartoni che guardava la mattina, voleva correre da lui ed essere presa in braccio con un sorriso. Sarebbero stati Papà e Michiru, la sua bambina che era tanto brava.

Non erano mai diventati una cosa simile loro due, fino alla fine.
Tuttavia, c'erano stati momenti in cui Kyochi l'aveva compresa e aiutata come solo lui aveva potuto fare.
Non l'aveva mai creduta pazza, per cominciare. Col senno di poi, Michiru aveva compreso che lui avrebbe potuto adottare soluzioni che l'avrebbero mortificata e umiliata, danneggiandola in maniera irreparabile.
Aveva frequentato una normale scuola per l'infanzia. Tutte le educatrici si erano lamentate di lei, ma Michiru ricordava la voce alzata di suo padre che le accusava tutte di incompetenza, esigendo che trovassero una soluzione per badare a lei e farla stare con gli altri bambini.
Non era riuscito a volerle bene come avrebbe potuto amare una figlia normale, ma, a modo suo, aveva fatto del suo meglio per lei.
Forse solo per il legame biologico che li univa, di tanto in tanto lui l'aveva davvero capita, come il giorno in cui le aveva messo in mano la sua salvezza futura.
"Tieni" le aveva detto, regalandole un violino.
L'aveva vista di sfuggita, una sola volta, mentre saltellando per casa aveva prestato due attimi di attenzione ad un concerto in televisione.
"Ti piace?" le aveva chiesto, ma lei era stata troppo impegnata a combattere contro un materasso per rispondergli.
L'aveva iscritta a diversi corsi sportivi - quanti più possibile per una bambina della sua età - ma nel muoversi lei non aveva trovato pace, solo la possibilità di avere più spazio in cui non rimanere ferma. Le regole non le erano andate giù, anche se segretamente aveva ammirato la loro complessa eleganza.
La prima volta che le aveva regalato un violino la loro casa era stata ancora in città.
Lui aveva provato a far scorrere l'archetto sulle corde e, affascinata, lei gli aveva strappato il violino di mano. Aveva torturato lo strumento per mezz'ora prima di romperlo, frustrata dai suoni orribili che produceva.
Poi avevano cambiato casa.
Erano andati a vivere ad Okinawa, in campagna, e lì la sua vita era cambiata.
Michiru non era mai stata tanto terribile come quando li sfiorava un tifone o tanto calma come quando c'era bel tempo. Nel nuovo appartamento suo padre aveva ritrovato la bambina della spiaggia, quella capace di rimanere tale senza impazzire più tanto spesso e, occasionalmente, guardandola con un sorriso, l'aveva chiamata 'La mia Michiru del mare'. Era un luogo che Kyochi aveva imparato ad amare e detestare. Aveva cominciato a portarla lì quando desiderava passare in pace un po' di tempo con lei, ma sapere che era un posto e non lui a renderla felice lo aveva sempre straziato.
Michiru sapeva bene che la delusione di lui aveva origine nelle lunghe ore passate a cercare di sedarla inutilmente. A volte, senza la minima soddisfazione, aveva la piena coscienza di essere stata lei a sconfiggere suo padre.
Da grande non avrebbe voluto chiedergli 'Perché?', benché finalmente sapesse che era quella la domanda che aveva creato un'infinita tristezza dentro di lei.
Con gli anni si era risposta da sola.
Suo padre non aveva cercato in lei la donna che l'aveva data alla luce e che era morta l'anno successivo in un incidente. Non aveva cercato neppure la figlia perfetta. Aveva  desiderato solamente una bambina con cui potersi relazionare, da poter amare con semplicità.
Non era mai stato bravo con le persone, ma questo lei lo aveva compreso solo molti anni dopo, ricordando i suoi sorrisi forzati e le sue lunghe esitazioni nel rispondere alla gente. Da bambina gli aveva chiesto come fosse stata sua madre e lui aveva risposto...
"Come un lago."
Ed era ciò che Michiru aveva cercato di diventare. Come un serenissimo lago, anche quando il mare era in tempesta.
Aveva imparato a domarlo con la musica, col nuovo violino che le aveva comprato Kyochi.
Ogni nota imitava il movimento di un'onda sferzata, rendendola padrona del proprio carattere. Quando fuori diluviava, per sfogarsi e trattenersi lei creava una musica terribile, dolorosa per le sue stesse orecchie per la violenza dei suoni strappati alle corde. Man mano che la tecnica migliorava - velocemente - la sua musica diventava sempre più cruenta. Riusciva a non gridare più, anche se, silenziosamente, piangeva ancora di rabbia. Il progresso era notevole.
Durante l'ultimo anno in cui erano stati insieme, Kyochi aveva annuito sempre più spesso. "Hai imparato a controllarti quasi sempre. Sapevo che potevi farcela, Michi."
Michi.
Era un nome tenero, pensato per una figlia cara.
Per allora, per i suoi nove anni, lei era diventata abbastanza complicata da non poter essere la bambina semplice e dolcissima che Kyochi avrebbe potuto amare con l'unica semplicità di cui era stato capace.
Grazie a tutto ciò che aveva dovuto superare, era diventata abbastanza adulta da preoccuparsi non solo di stessa.
"Grazie papà" gli diceva, sapendo che parlarsi in quel modo faceva bene ad entrambi.
L'ultima domanda importante che gli aveva fatto era stata, "Come pensi che sarà il mio futuro?"
Pur con tutta la sua maturità, era stata pur sempre una bambina con una sola àncora a cui aggrapparsi, sempre più in ansia per un mondo con cui non aveva mai imparato a legare troppo bene.
Kyochi l'aveva osservata in silenzio. "Quando hai timore di qualcosa, suona." Aveva toccato l'album da disegno nuovo che le aveva regalato. "Oppure disegna e dipingi, ora che hai imparato." Imparato a stare calma abbastanza da passare ore con una matita in mano, intendeva lui, e senza pasticciare il disegno al primo segno di follia. "Sei molto brava in queste due cose" aveva concluso suo padre, lasciandola insoddisfatta.
"Non penso di poter suonare o dipingere per sempre" gli aveva detto.
Kyochi aveva guardato fuori dalla finestra, in direzione del mare. "Sai una cosa?"
Michiru aveva creduto che non stesse parlando con lei.
"Io penso... che tu sia nata per fare grandi cose."
Non era stata una convinzione né un augurio. Michiru lo aveva compreso solo dopo la morte di lui, ma suo padre in quel momento aveva semplicemente sperato che fosse così. Che tutte quelle sue stranezze avessero avuto uno scopo ultimo, meraviglioso e incredibile, che magari valesse il sacrificio che lui aveva fatto nel perdere una figlia che non aveva mai avuto.
Lei aveva percepito il sentimento dietro le sue parole e lo aveva sfidato. "Io sarò... gigante. Come l'oceano."
Guardandola, suo padre le aveva creduto. "Sì, Michi." Le aveva accarezzato la frangia. "Dormi bene."

Era morto in modo stupido e improvviso. Non si era alzato dalla sua scrivania, nel suo ufficio, portandosi una mano contro il petto dolorante.
No.
Si era alzato, aveva roteato gli occhi ed erano franato a terra.
Un ictus, le avevano detto.
Michiru non aveva voluto trattenere neppure un briciolo di tutta la calma che si era guadagnata negli anni. L'aveva sfogata contro l'uomo che era il padre di suo padre e l'aveva odiato. Lo aveva detestato come nessun essere vivente al mondo, perché abitando per due sole settimane con lui aveva capito: era stato lui a fare di suo padre un uomo debole, incapace di amarla come un padre vero, coraggioso e indomito.
Suo nonno l'aveva mandata in un collegio per bambine.
Lei lo aveva ringraziato con un calcio.

La morte di Kyochi non aveva avuto alcun significato per quelle stanze pulite, ordinate, per quei lunghi corridoi vuoti e silenziosi.
Lì dentro non era mai esistita nessuna Michiru strana, nessun urlo da contenere dentro il petto, nessun padre che aveva smesso di aspettarsi che lei diventasse magicamente una persona diversa.
Lì dentro cosa c'era? si era chiesta nelle prime ore in cui si era trovata in collegio, dopo aver tenuto lo sguardo basso con tutti coloro che aveva incontrato.
Michiru, aveva sussurrato una coscienza ignota dentro di lei.
In quel luogo, in quel nuovo inizio, lei era stata solo Michiru. La Michiru che desiderava essere, che poteva plasmare a suo piacimento, ora che ne aveva la forza.
Per farsi coraggio e salutare ogni ricordo di Kyochi, aveva cercato di dire addio anche alla vecchia se stessa, agli scatti d'ira che ancora si era lasciata sfuggire occasionalmente, a ogni incertezza.
Nella sua nuova vita aveva portato con sé il violino e la propria mano, per dipingere.
Un caro ricordo d'affetto era permesso a tutti, si era detta.
E, quando aveva incontrato gli occhi della sua prima compagna di classe, le aveva comunicato che lei era immensa.
Michiru la grande, l'imbattibile. Bella, brava e calma.
La migliore.

Senza amiche.
Aveva trascorso il primo anno a costruire la propria pelle in solitudine, ad accertarsi di avere sempre e comunque il controllo di sé.
Era il mare, per allora lo aveva ormai compreso. Era il mare il suo demonio e la sua gioia.
Non sopportava le tempeste che arrivavano dal mare e non le piacevano neppure le cascate - quando erano andate in gita a vederne una, era dovuta scappare a nascondersi per riuscire a non urlare.
Se il mare era destinato a controllarla per tutta la sua vita, se lei doveva realmente esserne preda senza possibilità di scampo, allora avrebbe controllato la Michiru del Mare, la folle che minacciava di gridare sempre al mondo la propria presunta furia e potenza. Sarebbe stata la Michiru del mare di Kyochi, quella che era calma come il sussurro delle onde che andavano a riposare sulla sabbia.
Sono Michiru, si diceva, mentre imparava a sorridere con dolcezza agli altri e scopriva che vi era bellezza nell'essere gradita alla gente.
Michiru, la sorgente della propria pace.

"Ti ammiro così tanto" le aveva detto un giorno una sua compagna di classe, sigillando la sua vittoria.
Prendendo coraggio un'altra ragazzina si era avvicinata a sua volta. "Sì. I tuoi disegni sono meravigliosi. Come fai?"
Le pennellate d'azzurro e verde, colori della serenità, erano una conquista. Questo avrebbe voluto dire loro, per spiegare che non vi erano personaggi meravigliosi usciti dalle favole, anche se loro aveva cominciato a guardarla come se lei facesse parte di uno di quei racconti.
Se n'era rimasta in silenzio, a lasciare a loro le illusioni che desideravano e a riempirsi lei stessa della nuova identità che nessuno le avrebbe più portato via.
Quella nuova identità che non era nuova e non era estranea.
Quella era Michiru, la vera Michiru che aveva sempre cercato di vincere sull'altra.

Piano piano si era riavvicinata con più sicurezza anche ai bacini d'acqua.
C'era stato un anno in cui, pur di non andare in montagna con le altre, si era fatta venire apposta la febbre. L'anno successivo aveva preso coraggio e non aveva più avuto paura del torrente che scorreva accanto all'amena località di villeggiatura.
Un pomeriggio, allontanandosi dalle sue compagne, era andata apposta ad osservarlo. Aveva sentito l'energia delle acque fredde scorrere dentro di sé, mentre si dirigevano a valle, a ricongiungersi al mare da cui provenivano.
Non aveva più permesso loro di turbarla e comandarla e, straordinariamente, aveva percepito una loro prima e timida obbedienza.
Era stato solo l'inizio.

"Voglio una scuola normale" aveva detto all'avvocato di suo nonno, quando lui era venuto a comunicarle che era appena diventata l'unica erede dei cospicui averi dell'unico parente che le era rimasto fino a qualche giorno prima.
L'avvocato era stato nominato suo tutore ed era venuto a trovarla per capire che tipo di bisogni lei potesse avere.
Era bastata a entrambi un'unica conversazione per comprendere che lei non aveva alcun bisogno o desiderio diverso da quello di stare da sola e fare esattamente ciò che voleva.
L'avvocato Kobiyama aveva comunque preso le proprie precauzioni. Le aveva comprato un appartamento in uno stabile in cui conosceva un inquilino - un'ex-fidanzata, a quanto aveva capito Michiru - così come l'uomo che lavorava alla portineria. Aveva convissuto con lei per una settimana, solo per accertarsi di non avere a che fare con una bambina che non sapeva nemmeno prepararsi un pranzo. Le lezioni di economia domestica del collegio erano state ottime e l'avvocato era potuto tornare con suo gran sollievo dalla propria famiglia, sviata per sette giorni con una scusa: non aveva mai detto a sua moglie di aver accettato la custodia legale di una minorenne sconosciuta.
La ragione erano i soldi, ovviamente, e Michiru era stata grata al suo defunto nonno per quell'accorgimento.
In quale altro modo avrebbe potuto essere affidata ad un adulto che non voleva costringerla a vivere con lui o lei?
L'avvocato aveva paventato - con suo gran terrore - la possibilità di portarla a vivere a casa sua, ma Michiru non gli aveva dato motivo per ricorrere a quella soluzione estrema.
E così si erano salutati pochi giorni dopo, con la promessa che per guai grossi lo avrebbe chiamato; ad un numero telefonico diverso da quello della sua abitazione, naturalmente. C'erano sempre Ritsuko-san e Kayomi-san per lei, le aveva assicurato. L'avvocato aveva avuto una coscienza e le aveva promesso che, se si fosse trovata davvero male da sola, avrebbe potuto venire a stare con la sua famiglia.
Con un aggraziato inchino, Michiru lo aveva invitato a prendere la porta.

Quindici anni, una scuola nuova - una scuola vera, pubblica, con ragazzi e ragazze - e una casa tutta sua.
Per la terza volta, una nuova Michiru.
Una sorgente non più di sola pace, ma di un po' di allegria.
Non aveva avuto più motivo di essere arrabbiata col mondo e nemmeno col mare - non tanto, almeno. Egli non si era quietato, ma aveva ridotto il suo tormento ad un braccio di ferro sempre in stallo, una situazione che le permetteva di distrarsi continuamente, considerato quanto era avvezza allo sforzo.
Aveva imparato a essergli grata, a modo suo. Possedeva una forza d'animo straordinaria grazie a lui e in futuro l'avrebbe utilizzata a proprio vantaggio. Non avrebbe mai potuto diventare la Michiru che era, senza il mare.
Tokyo era natura addomesticata, benché l'oceano fosse ad un passo da lei. L'uomo aveva piegato il territorio, invadendolo con strade e case.
A Tokyo, lei non avrebbe più avuto bisogno di tentare di piegare il mare. Avrebbe cercato di convivere con lui in mezzo ad altri uomini e donne, per essere come tutti loro, normale ma sempre speciale nella propria unicità.
Oh, e aveva di nuovo una vasca. Quale migliore modo di fare pace con l'acqua che non tanti bei bagni caldi pieni di schiuma?

Lo sai cosa sei, Michiru?
Calma bella brava violinista pittrice figliadiKyochi forte indipendente simpatica altera elegante brava bella calma.
Non solo tutto questo, le precisò un anno dopo una voce, nel primo di una serie di incubi orrendi.
Lo sai cosa sei, Michiru?
La fissarono due occhi blu profondi, la guardò in faccia la Michiru del Mare folle e scatenato, con un gioiello sulla fronte che nel buio brillò di potenza oceanica.
Sei questo! le urlò, facendola svegliare in un bagno di sudore.

Una settimana dopo nacque per la quarta volta, per diventare realmente un unico essere con se stessa.
Non fu la trasformazione a cambiarla, non fu il costume a darle una nuova identità.
Fu il maremoto, quello che fece partire dalle mani con un pensiero.
Fu una bolla di luce in cui concentrò la potenza del mare odiato e amato, in cui focalizzò la rabbia di anni e tutta la forza che era nata per sprigionare.
Michiru, sorgente. Sorgente di Nettuno, signore del mare. Kaiou.
Sollevò le braccia, i palmi a coppa, sopra la testa.
Non preda del mare, si sussurrò, mentre le onde lottavano tra le sue mani.
No, lei era Sailor Neptune, lo era sempre stata.
Urlò, col pieno controllo di sé, per colpire.
E fu il mare ad essere la sua preda.


FINE



NdA - Un giorno di diversi mesi fa, mentre scrivevo la mia storia principale su Sailor Moon, ho fatto entrare in scena anche Haruka e Michiru. Parlando di sé - anche se è più o meno la stessa interpretazione che ho dato di Haruka - Michiru pensava le poche righe che ho scritto all'inizio di questa storia. Stavo cercando un'interpretazione del personaggio che potesse essere un po' originale o comunque personale.
Da un po' gioco con l'idea di parlare dell'inizio del rapporto tra Haruka e Michiru, sempre con riferimento a ciò che è accaduto nel cartone animato, ma per ora mi limito a questa one-shot, un mio studio sul personaggio che spero risulti attinente alla Michiru originale, nonostante le stranezze che ci ho inserito.
Il nome Kyochi per il padre di lei l'ho inventato io. Non conosco nemmeno la sua storia familiare, non so se vi siano in giro versioni ufficiali. Ho inventato tutto di sana pianta ;)

Se avete commenti sulla storia, sarò molto felice di sentirli, di qualunque tipo siano.
ellephedre
   
 
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