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Autore: Kimmy_90    05/02/2011    5 recensioni
La prima volta che vidi uno come lei – anzi, la prima volta che mi resi conto di essere davanti ad uno come lei - , avevo otto anni. Urlai con talmente tanto fiato e per talmente tanto tempo che persi la voce per decine di giorni.
Ho ancora stampata nella memoria quella figura nera e mastodontica, ad ali spiegate, silenziosa nella sua enormità. In un istante scomparve nella nebbia della città, senza un solo rumore.
A mia madre non perdonarono mai di avere infranto il tabù.
[9a classificata Original Concorso 8 - "La stazione e... il drago"]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nebbia


 

 

 





E tu cosa ne sai, dei sogni. 

C'è odore di zolfo. Si insinua fra i finestrini, si appoggia sui sedili di cuoio, ci danza sopra, li impregna. 
E poi c'è il fumo, che si fa sempre più denso. C'è rumore, rumore ovattato, e poi nebbia. 
E quel sentore di bruciato, di oggetto incandescente, di ferro rovente. 
L'aria di casa. 

E tu cosa ne sai, dei sogni. 

Il treno fischia, frena, rallenta in uno stridio acuto. 
La gente si infila i cappotti, si mette i berretti, e cerca i guanti nelle tasche. 
Perchè fuori fa freddo. 
Fa dannatamente freddo. 
E lei è lì. 

 

E tu cosa nei sai, dei sogni?

Ho questa frase che mi rimbalza in testa dall'inizio del viaggio. 
Non riesco a togliermela di dosso. Non riesco a non riformularla in continuazione nella mia mente, ancora e ancora: tu, tu cosa ne sai, dei sogni. 
Non capisco nemmeno che cosa voglia dire. Non so se è una domanda o un'affermazione. 
Non ricordo se l'ho mai sentita da qualcuno, se l'ho letta da qualche parte – e chissà poi se mai una frase del genere è stata formulata nella storia del mondo. 
Sì, dev'essere successo, una volta. Ma non credo di recente. 

Tu cosa ne sai, dei sogni. 

Scendo dal treno, mi stringo nel giubbotto di pelle: è logoro, ma, all'interno, la pelliccia mi tiene ancora al caldo. 
Perchè fa davvero dannatamente freddo. 
Qui in città non si vede il sole da decenni. Troppo fumo, troppa nebbia. Il sole scalda poco già di suo, qua è peggio: con tutti questi marchingegni a vapore, è come se fosse stato oscurato. Gli elicotteri, grasse macchine che borbottano, fanno fatica a decollare senza schiantarsi. E sono i primi a lasciarsi dietro una fumera grigiastra, con tutto il carbone che consumano. 
Mi porto la sciarpa sopra il naso, come di consuetudine. Non servirà a molto, ma almeno non respiro direttamente tutte le schifezze che vagano per l'aria. 
E dire che questo odore, anche se fastidioso, mi tranquillizza e a tratti mi piace. 
Sì, odore di casa. 

E lei è lì. 
Rintanata in un angolino, più buio degli altri, nascosto fra le colonne della stazione. E' accovacciata, le mani posate per terra, lo sguardo incollato su di me. 
Non mi ha mai perso di vista un attimo. 
Le sorrido sotto la sciarpa. Sa che sto sorridendo, sorride anche lei. Ha ancora un sorriso goffo, ma non importa. 
Mi avvicino, caricandomi il borsone sulle spalle. 
“Ciao.” le dico, infine, osservandola. 
Lei si alza in piedi lentamente, con la sua solita grazia, e fremo - sì, ancora fremo - nel pensare che in realtà sta muovendo un corpo pesante tonnellate. Mi posa delicatamente le mani sulle spalle, e poi si stiracchia, inarcando la schiena femminea e distendendo le dita, lasciando affiorare gli artigli - che rinfodera subito, non appena accortasi della distrazione. 
E così mi saluta. 
Ha gli occhi marroni, le pupille tonde e nere. 
Ha imparato ad arrotondarle, e ha imparato a scurire l'iride. 
E' cresciuta. Oramai sembra proprio una ragazza umana. 
Ma anche a più di trent'anni, rimane un cucciolo. 
Inesperta. E per questo ha difficoltà a sorridere: per lei è estremamente difficile. 
“Mi sei mancata.” 
Poggio la mano sulla sua testa, e lei socchiude gli occhi. 
Ha il corpo di una giovane donna. Alta, slanciata, i muscoli tonici e compatti. I suoi lineamenti sono dolci, le sue forme sono nette e rotonde. 
Diavolo, è sempre bellissima. 
Alla luce dei lampioni a gas, sulla sua pelle si intravede lontana la trama delle squame, rilucente sulla fronte ampia, sotto la sua chioma corvina e disordinata. 
Mi tolgo un guanto, alla faccia del freddo, e poggio le dita sui suoi zigomi: la sua pelle ha ancora la consistenza del vetro, come una volta. 
Ma a parte questo, a vederla è difficile pensare che non sia umana come noi. Se non se ne andasse in giro con addosso solo due stracci, mezza nuda e scalza, sarebbe perfettamente mimetizzata. 
Non ha ancora capito che noi soffriamo terribilmente il freddo. 
“Mancasti, fratello.” mormora, tenendo ancora gli occhi socchiusi. Non sorride, ma ogni movimento del suo corpo dice che è la creatura più felice dell'universo. 


Sono fuggito a gambe levate dieci anni fa. Senza dirle niente. Dileguandomi nel buio della profonda notte cittadina, quando ormai ogni lampione viene spento e le ombre danzano nel loro regno di fumi e vapore. 
Passato inosservato dagli occhi umani, non sono riuscito a sottrarmi dall'unica persona – sì, Persona – da cui scappavo realmente: lei. 
Ed eravamo qui, in questa stazione, in questo angolo, a questo binario – mi fa male solo il ricordo che riaffiora nella mia memoria. Convinto di essermela lasciata alle spalle, a dormire nella sua stanza, me la trovai praticamente di fronte. Stringeva il mio polso quel tanto da non permettermi di allontanarmi da lei, senza farmi male. E di male avrebbe potuto farmene, e molto. Avrebbe potuto uccidermi con un tocco, niente di più. 
Invece mi guardava col volto della disperazione, le iridi gialle puntate addosso a me, le pupille aguzze fissate sulla mia figura, pungenti, unica espressione della sua incomprensione. 
Io la abbandonavo, e lei non capiva perchè. 
E non so per quale strana coincidenza riuscii a dileguarmi da quella presa: mi allontanai, correndo lungo la banchina – questa banchina -, mentre lei rimaneva immobile a fissarmi attonita. Ed infine scoppiò in un grido acuto e lancinante, che ancora mi rimbalza in testa. 


“A casa, fratello?” 
Mi abbraccia e cerca di muovere qualche passo portandomi con se'. 
Tiene la testa appoggiata alla mia spalla, e inspira. So che mi sta annusando, lo ha sempre fatto. Ma devo dire che ora sa essere più discreta. 
Con tutta la forza di cui dispone, nemmeno posso sognarmi di resisterle. 
Continuo a carezzarle il capo e cerco di risolvere a parole, anche se so che è quasi follia. 
“Non sono tornato per restare.” tengo la voce bassa e morbida, come mi sono sempre rivolto a lei: colmo d'affetto. 
Non posso negare di non volerle un bene viscerale. 
Non posso negare molte cose. 
Lei si ferma e torna a guardarmi, in guardia. 
Mi scruta perplessa e impaurita. 
“Andiamo a casa.” insiste. 
Io abbasso lo sguardo. 
“A casa.” ripete lei, contorcendo il collo nel tentativo di guardarmi negli occhi. 
Mi ha già visto scomparire una volta. 
Ho idea che non permetterà accada di nuovo. 


La prima volta che vidi uno come lei – anzi, la prima volta che mi resi conto di essere davanti ad uno come lei - , avevo otto anni. Urlai con talmente tanto fiato e per talmente tanto tempo che persi la voce per decine di giorni. 
Mia madre era convinta che fossi sotto shock, ma avevo semplicemente sforzato in maniera incredibile le mie corde vocali. Ci misi degli anni per riuscire a convincerla che non era colpa sua, che non ero rimasto traumatizzato, che non mi si era bloccata la crescita e che non avevo sviluppato nessun tipo di psicosi. Soprattutto perchè mi ci volle molto per capire cosa era esattamente successo, e per quale motivo mia madre si sentisse colpevole. 
In quel periodo mio padre l'aveva già lasciata, senza specificare, per lo meno a me, esattamente il motivo. Non lo vedevo già da qualche anno, iniziavo a dimenticarne il volto. Le comari parlavano di un amante: ma io non lo avevo mai visto. Vivevo da solo con lei da un bel po', e non avevo mai notato nulla di sospetto, quindi alla fine pensai che erano solamente maldicenze da comari, pettegolezzi infondati di gentaglia invidiosa. Non era possibile che un uomo entrasse nella mia casa senza che io me ne accorgessi, soprattutto dopo che ebbi fatto mesi e mesi di attente osservazioni ed agguati. 
E infatti non era un uomo: era un meticcio. 
Finchè non lo vidi io, nessuno sapeva che c'era un meticcio in città. Sono creature che sanno nascondersi con estrema abilità, e per decenni possono passare inosservati in mezzo alla folla. 
Ma quando un bambino si mette ad urlare “Al drago” per minuti e minuti di fila, la città non gli da' del folle: la città si accorge che ospita un meticcio. 
Ho ancora stampata nella memoria quella figura nera e mastodontica, ad ali spiegate, silenziosa nella sua enormità. In un istante scomparve nella nebbia della città, senza un solo rumore.
Da allora iniziammo a sprofondare nella piramide sociale. Mia madre si era accoppiata con un mezzodrago, il che spiegava, alle menti dei 'grandi', un'enorme quantità di cose. A me non diceva niente. A stento capivo solo cos'era un mezzodrago – ed anzi non comprendevo perchè fosse “mezzo” o “meticcio” che dirsivoglia: anche se avrei indubbiamente avuto modo di capire tutto in prima persona, successivamente. 
Irene nacque qualche mese dopo. E ancora non so se il 'padre' di mia sorella continuò a passare per casa nostra anche in seguito, oppure no. Non esiste creatura al mondo più silenziosa e discreta di loro. 
Ma mia madre mi disse che prima, sì, prima si vedevano incredibilmente spesso. 
Sul dopo, non ho informazione alcuna. D'altronde, che non volesse specificare la sua situazione era quasi legittimo: dopotutto la città la odiava, e motivo di tale odio e del degrado a cui andammo incontro, fu il suo amore per quella creatura e la nascita di mia sorella. 
Sorella. 
Non ho ancora capito se posso definirla sorella o no. 
Ma no, lei è mia sorella. 


“Irene, ti prego.” 
Lei si chiude nelle spalle e continua a fissarmi. 
“Perchè?” domanda infine, avvicinando il suo volto al mio, premendo la sua fronte contro la mia. 
“Perchè?” insiste. 
Mi ero dimenticato quanto fosse difficile dirle di no. 
“Sono qui solo per darti una cosa.” 
Mi ero dimenticato del vero motivo per cui ero fuggito nella notte sperando che lei non si accorgesse di nulla, anziché affrontarla subito faccia a faccia. 
Perchè sarebbe stato impossibile. 


Dieci anni fa feci un pasticcio. 
No, non lo feci, ma fu questione di poco. 
Ancora non riesco a credere di quanto autocontrollo io sia riuscito ad avere in quell'occasione. Ma c'ero vicino, davvero vicino, a fare un disastro imperdonabile. 
Fino a quel periodo della mia vita, non afferrai mai completamente il significato di quanto diceva mia madre, quando tentava di spiegarmi Cosa fossero i meticci. 
“I meticci sono creature mezzo sangue.” 
Fino a qui capivo. 
“Sono mezzi draghi e mezzi umani, figlio mio.” 
Io annuivo. 
“Vivono tanto a lungo, e vivono in mezzo alla gente, senza che nessuno si accorga che loro sono diversi.” 
Io osservavo Irene, che a stento manteneva una parvenza di forma umana, con coda, corna, denti aguzzi e occhi di rettile. 
“Tua sorella è piccola, crescerà. Con calma, ma crescerà.” 
Non che a me importasse che lei avesse un aspetto umano o no: l'adoravo comunque. E spesso avevo la sensazione che con lei potessi avere molta più intesa che con qualsiasi essere umano. 
“Maximilan.” mi richiamava mia madre. “Maximilian, io me ne frego dei tabù.” 
Io iniziavo ad inarcare le sopracciglia, senza capire troppo. Ma quando mia madre iniziava a dire 'io me ne frego', il discorso si faceva serio. 
“I mezzidrago sono creature meravigliose, che amano e si lasciano amare. Hanno un'anima pura e un cuore di capienza infinita. Sono infinitamente migliori di noi umani, Maximilian. Meritano mille volte di più loro di esistere di quanto non meritiamo noi.” 
A quel punto iniziavo ad annuire distrattamente, incapace di comprendere il perchè di tale discorso. 
Certo, accoppiarsi con un meticcio era un tabù. Era contro ogni legge: civile, religiosa o della morale comune. Per questo eravamo passati da benestanti a emarginati sociali. Da un bel palazzo di famiglie borghesi finimmo in un quinto piano di pochi metri quadrati di periferia. 
Ma che importava, a me e ad Irene bastava lo spiazzo che c'era lì sotto. 
Non che vivere fosse semplice. 
La città accettava Irene, sebbene malvolentieri, solo perchè era un cucciolo. Faceva danni in continuazione, ma i cuccioli di meticcio non erano una novità. Una volta ogni venti, trent'anni, capitava che comparisse un cucciolo di mezzodrago. La famiglia in cui aveva avuto i natali era relegata, ma il cucciolo veniva lasciato in pace. 
Anche perchè a tre mesi Irene era in grado di dare fuoco a un palazzo. Quindi più che di accettazione, qui si parla di 'vivi e lascia vivere'. 
A mia madre non lo perdonarono mai, comunque, di avere infranto il tabù. 


Porgo ad Irene una catenina dorata, alla quale è appeso un anello. 
Lei lo osserva, vi avvicina il naso, lo prende in mano e lo studia. 
“Che è?” domanda. 
“E' della mamma.” 
Lei abbassa lo sguardo, e tace. 
Siamo io e lei nel silenzio, colmato unicamente dal caos della stazione. Freni, fischi, gente, metallo contro metallo, porte che si aprono, porte che si chiudono, sbuffi. 
Questo è il silenzio a cui sono sempre stato abituato, il silenzio di una città che freme in continuazione, e anche di notte, nonostante il buio, mormora. 
“Non posso darlo alla mamma.” conclude infine. 
“Lo so.” 
Lei alza lo sguardo. Non ha lacrime, non sa ancora piangere come dovrebbe piangere un essere umano: lei si esprime in altro modo. 
Ogni suo muscolo comunica la sua infinita tristezza. E un po' di sorpresa. 
“La mamma non c'è più.” dichiara. 
“Lo so.” 
Lei rimane in silenzio, di nuovo. Mi osserva. Continua ad osservarmi. 
Sembra una statua. 
“Irene” cerco di richiamare la sua attenzione, perchè pare si sia persa. “E' tuo.” 


Allora Irene aveva poco più di vent'anni, ed io quasi trenta. 
Siamo cresciuti insieme, anche se ancora adesso lei non è nemmeno lontana dall'essere adulta. Ma già allora sapeva mantenere quasi del tutto una forma semiumana, eccezion fatta per l'aspetto degli occhi, i canini appuntiti e la pelle vetrosa. E la sua parte umana, alla fine, aveva comunque vent'anni. 
Io avrei dovuto iniziare a preoccuparmi molto tempo prima. Quando non riuscivo ad interessarmi alle donne che mi venivano via via proposte o che mi si proponevano. Avevo ben che perso la mia verginità, non era quello il problema. Ma oltre a qualche avventura, non riuscivo mai a costruire nient'altro. 
Doveva essere il mio campanello d'allarme, ma considerando che ero schivo di natura, non ci pensai. 
Il corpo umano dei meticci dicono che sia dei più belli. Irene non faceva altro che confermare il mito, diventando di anno in anno più meravigliosa. Solida come una statua e morbida come sa essere solo una femmina, nonostante la pelle liscia come quella di un serpente. 
Ma non era solo quello, ovviamente. 
Non poteva essere solo quello. 
Era anche tutto il resto, tutto quello che mia madre cercava, ripetutamente e con insistenza, di spiegarmi. 
Me ne accorsi praticamente per caso, una sera, mentre osservavo il suo sguardo catturato dai movimenti della nebbia. 
Si è sempre incantata a quel modo, e da quando ha iniziato a parlare in maniera comprensibile, dopo ore e ore di vuoto apparente, se ne usciva con frasi tanto criptiche quanto dense. 
Io già iniziavo a lasciare aperta la porta del dubbio. 
Già. Adesso ricordo. 


“Mamma lo ha dato a te.” 
Sottolinea lei, continuando ad osservare la fede appesa alla catenina dorata. 
“Io non me ne faccio niente.” replico. 
Lei continua a studiare l'oggetto, come se fosse un animale nuovo. 
Non mi sono nemmeno domandato cosa stia pensando la gente, nel vedere un uomo parlare con una ragazza tanto bella quanto trasandata. La maggior parte di loro suppongo sappia che lei è il cucciolo di meticcio che vive in questa città. Ma di me? Chissà se se ne ricordano, o se mi prendono per uno sbandato. Ma no, non ha importanza. 
Non ne aveva prima, non vedo perchè dovrebbe averne ora. 
“Serve a...?” domanda lei, continuando a studiare il mio pseudo dono. 
“Per quando ti innamorerai.” 
Lei ritorna improvvisamente con lo sguardo su di me. 
Non muove un muscolo. Mi guarda e basta. 
Anche se è giovanissima per la sua specie, non è stupida. Anzi, è dannatamente intelligente. 
E ho la pessima sensazione che abbia già capito tutto. Passato, presente, futuro e mie intenzioni le sono già chiare nella testa. Lo vedo. 
Non nego che avrei preferito più tempo. 


“La nebbia sono i sogni degli uomini.” 
disse allora, serafica, mentre io ancora la osservavo. 
Sorrisi leggermente, per poi ridacchiare a quell'affermazione chiaramente fuori dalla realtà. Io sono una persona pragmatica, ho sempre saputo da cosa è causata realmente la nebbia, soprattutto dopo anni di lavoro come manovale e, successivamente, ingegnere. 
Queste sue uscite poetiche mi erano un po' ingestibili, perchè non hanno mai fatto parte del mio linguaggio. 
“E tu cosa ne sai, dei sogni?” le domandai, ancora leggermente divertito. 
Lei mi fissò immobile, sorpresa dal fatto che io le porgessi una domanda del genere. 
“L'ho detto, sono la nebbia, i sogni. I sogni degli uomini. I miei qualcos'altro. Non so cosa.“ 
Io storsi le labbra, continuando ad osservarla. 
“E tu cosa ne sai dei sogni?” domandò di riflesso lei. 
Io non risposi. 
Non sapevo cosa rispondere. 


“No.” 
Dice no, e sa che so perfettamente a cosa si riferisce. 
Una comunione del genere è tanto incredibile quanto, a volte, fastidiosa. Ci leggiamo dentro a vicenda, guardando solo i movimenti del corpo, che in genere parla più di quanto non possano fare le parole. 
Ma a volte bisogna parlare. Anche se sappiamo tutti e due cosa ci stiamo dicendo, prima ancora che lo si riesca a formulare nella testa. 
“Mi dispiace.” 
“No. Non te ne vai.” 
Mi afferra il polso e tiene il capo chino. 
“Mi dispiace.” ripeto, mentre sento la sua stretta leggera e salda. 


Prima la amai platonicamente. 
Per mesi e mesi, l'adorai e la venerai. E mentre l'adoravo e la veneravo più di quanto avessi mai fatto, e più di quanto immaginassi avesse mai potuto fare qualsiasi altro uomo con qualsiasi altra donna, il mio desiderio cresceva. Cresceva ben oltre il bisogno di passare una notte a rotolarsi con una ragazza sotto e sopra le lenzuola, e surclassava qualsiasi pulsione avesse mai spinto un maschio – me per primo – ad andare a prostitute. 
E alla fine cedetti alla mia natura pragmatica. 
Mia madre me lo aveva detto: non puoi non amare un meticcio innamorato di te. 
Un meticcio che ami non può non amarti. 
E' semplicemente fuori dal mondo. 
In breve mi resi conto di quello che doveva essere chiaro fin dall'inizio: non c'era donna umana che avrei mai potuto sostituire ad Irene. Lei, lei sola, era l'unica femmina che mai avrei potuto amare in tutta la mia vita. 
E alla fine l'idea di unirmi a lei mi sembrò la più naturale del mondo, specialmente quando iniziai a notare che lei stessa sembrava non stare attendere altro che quello. 
Era come fosse scritto. Era chiaro. Doveva essere così. In quel momento era l'unica cosa che contava. Ero felice, era felice, aveva tutto perfettamente senso. La natura ci chiamava, noi rispondevamo. 
Quando ebbi il suo corpo, praticamente umano, nudo, a contatto col mio, ebbi la sensazione che ogni cosa nel mondo si sarebbe sistemata, di lì in avanti. Due tasselli dello stesso puzzle, niente di più, niente di meno. Fu un'ebbrezza improvvisa e potente, ma durò un istante: prima ancora di averla fatta mia, il mio mondo di certezze ovvie e insindacabili mi crollò addosso. 
Cosa diavolo stavo facendo? 


Ovviamente lei non molla la presa. 
Muovo qualche passo indietro, come per allontanarmi, ma chiaramente Irene non ne vuole sapere di lasciarmi andare. 
Dopotutto, per lei non esistono limiti a quello che possiamo fare o non possiamo fare. Lei è oltre alla società umana, 'se ne frega' di qualsiasi regola non scritta, tabù, divieto sensato o insensato. Lei è Natura allo stato puro, mente senziente e limpida, anima immacolata proprio per questo: perchè può permettersi di essere oltre a tutto ciò, perchè per lei esiste solo la vita e l'amore. 
Ma per me è diverso. 


Non si trattava solo di unirsi a un meticcio. 
Qui la cosa stava andando ben oltre. 
Lei era mia sorella. 
Come mi era saltato in mente di poter fare una cosa del genere? 
Non solo di un'altra specie, non solo figlia di mia madre, ma anche un cucciolo. Irene aveva la mentalità di una ragazzina di otto anni scarsi. Certo, essendo meticcia, ragionava meglio ed in maniera diversa, ma era tutto fuorchè adulta. Il suo corpo umano poteva essere maturo, ma lei non lo era. 
Andava contro ogni convenzione della società moderna. 
Dio. Incestuoso e pedofilo. 
In quel momento fui profondamente schifato da me stesso. Mi allontanai di scatto, a tratti preso dalla nausea. 
Lei mi osservava senza capire che mi fosse preso. Il suo sguardo era un enorme punto interrogativo. 
Cercai di tranquillizzarmi, e tornai da lei, ma con atteggiamento del tutto differente. Mentre ancora ogni singolo muscolo del mio ventre si contraeva dal disgusto, mi stesi accanto ad Irene e socchiusi gli occhi. 
Capì che non si sarebbe fatto niente, e rimase profondamente delusa. Indubbiamente il suo istinto di mezzodrago le continuava a dire che dovevamo fare l'amore. 
Si voltò su di un fianco, dandomi la schiena, a dimostrare ch'era ben che arrabbiata. 
Ma meno di un minuto dopo si girò verso di me, e si addormentò guardando il mio volto. 
Qualche ora dopo correvo per le strade buie della città, verso la stazione, pronto a lanciarmi sul primo treno merci di passaggio pur di andarmene. 
Ovviamente lei si accorse subito della mia assenza, mi seguì e cercò di trattenermi. 
Ma alla fine me ne andai. 

In questa stazione, a questo binario, si ripete la scena. 
Solo che Irene è cresciuta un altro po', e ha definitivamente capito. 
“Maximilian. Maximilian, io me ne frego dei tabù.” 
Recita quello che mi diceva nostra madre. 
E mi sembra di sentire davvero mia madre, con la stessa voce, con lo stesso tono. 
Ma c'è tabù e tabù. 
Fosse tutto così semplice, il mondo sarebbe diverso. Non so se migliore o peggiore, ma sicuramente diverso. 
Ma questo è il mondo, questa è l'umanità di questo mondo, in cui sono cresciuto, la Mia umanità. 
Un tabù è una cosa. Tre. Tre non li so gestire. 
E anche se quella sensazione di perfetto ordine e coerenza continua ad assalirmi, anche se sento che l'unica strada possibile è congiungerci, oltre al punto in cui siamo non si può andare.
No. 
Non so cosa sia giusto o sbagliato. 
Io sono un uomo. Non sono un drago, non sono un meticcio. 
“Mi dispiace.” 
Lei inizia a mugolare sommessamente. Arresasi, mi lascia andare. Sente il mio disagio, immagino ci tenga abbastanza da non volermi mettere in ulteriori situazioni spiacevoli. 
E soffre. 
Sono una creatura egoista. 
Stringe leggermente la fede di nostra madre. Mi guarda, mentre continua ad emettere un lamento sommesso. 
Solo sentirla fa male. 
Non è lo stesso grido dell'altra volta, lancinante e acuto: è un mugolio depresso e greve. 
Poso le labbra sulla sua fronte, mentre nella mia testa si rigenera impetuoso il caos di dieci anni fa. 
Devo andarmene. 
Dopo qualche istante, mi allontano. 
Lei non si muove. 
Cammino indietro continuando a fissarla. 
Ho bisogno di un treno. Del primo che parte. Subito. 
E alla fine le volto le spalle. 

Questa sera, in questo cielo, errerà fra la nebbia un drago piangente. 


 

***




Il treno marcia a velocità sostenuta da qualche ora. 
Fisso fuori, ma non c'è poi molto da vedere. La vista è sempre grigia e come ovattata. 
Mi concentro per guardare qualcosa, per trovare qualcosa da guardare, pur di non pensare. 
Ho la sensazione di avere gli occhi lucidi, ma non è il caso che io faccia attenzione a questi dettagli: perchè se mi accorgessi di averli veramente lucidi, ho la sensazione che finirei con lo scoppiare in singhiozzi, e il pianto non è certo una cosa che si addice ad un uomo della mia età. 
Non so nemmeno dove sto andando. Me ne preoccuperò dopo. 
Ora voglio solo uscire dalla città. E quindi, dalla nebbia. 
Sono finito in terza classe. Normalmente viaggio in seconda, ma solo perchè viaggio poco. 
Le panchine di legno mi riportano alla mia infanzia, e questo non aiuta. Ma non ho i soldi per la seconda, non qui. 
Che bella situazione di merda, avrebbe detto il mio capocantiere. 
Io non amo usare queste espressioni, ma il caso chiama. 
L'importante è pensare ad altro, quindi penso ad altro. Sia anche il puzzo del capocantiere. 
Continuo a divagare su argomenti futili ed insensati, finchè un uomo si siede di fronte a me. Non gli farei molto caso, se non fosse che mi guarda fisso. 
Lo studio con la coda dell'occhio. Ha corti capelli neri, una leggera barba, lineamenti abbastanza forti ma non troppo squadrati, ed un portamento che non lascia pensare sia una classica persona da terza classe. 
Petto in fuori, ma con naturalezza. Non so perchè, ma così a prima vista mi viene da dire che sia un conte. E' vestito di nero e grigio, elegante, ma non certo da gala o chissà dio cosa. 
Il Conte mi continua a guardare. Dopo un po', sposta lo sguardo sul finestrino, scrutando fuori a sua volta. 
Così va già meglio. 
Passa un po' di tempo, mi sono praticamente dimenticato della sua presenza. Continuo a cercare pensieri stupidi che riempiano la mia testa. 
“Se vuole piangere, perchè non lo fa?” esordisce il Conte, di punto in bianco. 
Ha una voce profonda e giovane. Sembra un nonsense, e invece è così. 
Mi volto verso di lui, osservandolo a metà fra il perplesso e l'infastidito. 
Sono una persona schiva e riservata. Sono, come si suol dire, affari miei. 
“Non credo sia un suo problema.” rispondo infine. 
Quello mi fissa senza mutare espressione: calmo e disteso. 
“Ho visto che alla stazione stava salutando la sua ragazza.” 
Ho un minuscolo sussulto che blocco appena in tempo. 
Faccio finta di annuire. Non saprei esattamente cosa rispondere. 
“Anch'io ho salutato la mia donna, qualche giorno fa.” continua, con un cenno del capo: sembra che si stia riferendo ai suoi vestiti scuri. 
“Le mie condoglianze.” rispondo. 
“Sono io che le faccio a te.” ribatte lui, senza mutare tono di una virgola. 
Mi guarda, tace, e io galleggio sulla sua ultima affermazione. 
Ed infine rimango infinitamente interdetto. D'istinto vorrei insultarlo, non so nemmeno perchè: ma tanto non sono avezzo a queste cose, e quindi non so nemmeno che parola usare. Stringo la mascella e mi domando il perchè di tanto fastidio da parte mia verso di lui. 
Forse perchè si è mostrato a me solo dopo più di trent'anni. Forse perchè io non ho avuto modo di andare al funerale di mia madre, e lui invece sì. Forse perchè non c'era nulla che me lo impedisse, oltre a dover rivedere Irene. 
In generale perchè la mia testa naviga nel caos. 
“Irene ti ha mai visto?” è l'unica domanda che mi riesce di porgli. 
“Raramente.” 
“Perchè non sei con lei?” insisto. “E' sola, adesso. E' sola in città, un cucciolo che a stento mantiene una forma umana credibile.” 
Parlo con voce adirata e ho la pessima sensazione di sapere da dove nasce tutta questa rabbia. 
“E tu?” domanda pacatamente lui, di rimando. 
Già. 
E io? 
Ma non riesco a non essere avvolto dalla collera, indipendentemente da chi la merita e chi no. 
“Io ho i miei buoni motivi.” ribatto. 
“Anch'io.” 
Rimaniamo in silenzio a fissarci, io che lo scruto con un odio innaturale, lui che mi osserva con altrettanta innaturale calma. 
“Non tornerai.” sentenzia, senza un punto interrogativo. 
“No.” io gli rispondo egualmente. 
“Già, lo so. Non sempre va bene. Anzi, spesso è un guaio. Io e tua madre abbiamo avuto fortuna.” 
Continuo a fissarlo in silenzio. La testa freme. 
E' il drago che vidi a otto anni. 
E' il meticcio che mise incinta mia madre. 
E' il padre dell'unica femmina che mai potrò amare, e che non posso toccare. 
Lui è come Irene, solo che, essendo adulto, è insospettabile e silente. Ma come Irene, legge il mio corpo. E io non so leggere il suo, perchè egli sa essere più che discreto. 
E' un dialogo a senso unico. 
Silenzio, e il rumore del treno che avanza sulle rotaie. 
“Maximilian.” Esordisce, sorridendo con vaga dolcezza. “Il mio nome è Antelao, e da secoli ho rinunciato a contare i miei anni. Nella mia esistenza ho amato molte donne, tutte profondamente. Non sempre è andata bene, non sempre è stato facile: ma ho vegliato su di loro fino alla loro morte, e tutt'ora continuo ad amarle. Come usate fare voi uomini, anche noi meticci 'passiamo oltre'. Ma ci vuole tempo.” 
Mi porto le mani al volto, ascoltandolo mentre stringo le labbra. 
“Ma questo amore che tu provi, non so se si estinguerà in tempo per permetterti di superarlo. E' un amore di drago, dura molto a lungo. Ma posso garantirti che mia figlia vivrà a sufficienza da diventare adulta ed innamorarsi di nuovo. Spero che almeno questo ti sia di conforto.” 
Non so se lo è. La felicità di Irene dovrebbe interessarmi, ma al momento non riesco a pensare che possa amare nessun altro oltre a me. 
“Noi meticci amiamo solo umani, mai altri meticci. Per quanto ci uniamo agli uomini, da un meticcio può nascere solo un altro meticcio. Abbiamo tempi di vita lunghi, e per questo siamo pochi. Le superstizioni, le diffidenze e i comportamenti di voialtri nei nostri confronti non ci tangono, perchè pensiamo in altro modo e difficilmente soffriamo l'emarginazione. E se siamo soli, c'è sempre il cielo. Ma queste credenze e questi atteggiamenti degli umani nuocciono a chi amiamo, e questo ci fa soffrire. Questa è l'unica cosa che ha fatto in modo che Irene ti lasciasse andare. Anche questo significa amare.” 
Socchiudo gli occhi e abbasso il capo. 
“Da un sentimento potente nascono sofferenze che gravano sui nostri cuori, umani o mezzidrago che siano, come incudini.” continua. “Questo è il prezzo da pagare per poter provare così tanto amore.” 
“Non ho deciso io di innamorarmi di lei!” sbotto. No, non piango. Mi hanno insegnato fin da piccolo che i maschi non piangono. Quindi non piango nemmeno volendo farlo. E vorrei farlo, davvero. E mi sembra in ogni istante di stare per scoppiare, ma non scoppio mai. 
E' frustrante. 
“Ed io non ho deciso di nascere meticcio.” risponde Antelao, lieve. 
Scende il silenzio. Cerco di assorbire quanto ha detto. Cerco di far tornare i conti, ma i conti non tornano. Penso. Ma è ancora tutta un'unica matassa aggrovigliata. 
E il treno avanza, mentre la nebbia si dirada lentamente. 
Osservo fuori dal finestrino, mentre Antelao non proferisce parola. 
“La nebbia sono i sogni degli uomini.” dico, a un certo punto, richiamando alla mente quanto aveva detto Irene anni fa. 
Antelao mi osserva lontanamente perplesso. Sembra annuire. 
“Cosa vuol dire?” domando. 
“Lo ha detto Irene?” 
Annuisco. 
“La nebbia.” si sistema sulla panca di legno, come per voler stare più comodo. “E' il risultato del vostro 'progresso', del vostro sogno di controllare il mondo. La nebbia, il freddo, sono causati dalla vostra speranza di poter agire su tutto come preferite. Le città, per quanto molti di voi dicano di non sopportarle, sono le vostre tane, perchè quello è l'unico luogo in cui, con vapore e carbone, riuscite a tenere tutto sotto controllo. La nebbia delle città è il vostro dolce sonno, e noi, quando entriamo in città, cerchiamo di sognare con voi. Ma non è facile.” 
Osservo Antelao, osservo fuori. Inizia a vedersi la campagna. 
Evidentemente questo è quello che sentono i meticci. Non so perchè, ma non è il discorso che mi aspettavo. E non credo di averlo capito. 
La città è il sogno. E' il mio sogno, assieme ad Irene, ed è la casa in cui non tornerò. 
Antelao sembra avere ragione, in qualche modo. Lo torno ad osservare, silente. Lui guarda fuori. 
La campagna non è colorata: è grigiastra, di un giallo e verde smorto. Fa freddo, anche se non come in città. 
Ma il cielo inizia a farsi terso, d'un azzurro abbagliante e limpido. 
E Antelao osserva il cielo. 
Forse è l'aria di quel cielo ciò di cui sono fatti i sogni dei meticci. La loro aria. In cui loro hanno il controllo di tutto. 
Ma non glielo chiedo. 
Non ha importanza. 
Probabilmente nulla ha importanza, oltre la cortina di nebbia della città. 




 

   
 
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