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Autore: My Pride    10/02/2011    9 recensioni
Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo che il bruco è divenuto farfalla.

In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published» indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Scena Drammatica al contest «The Thousand and One Nights» indetto da Prior.Incantatio ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Un oscuro angelo_1
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published»
indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]


Titolo: Labhair dorchadais aingeal ris
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long fiction [ 5 capitoli ]
Genere: Romantico (Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di romantico), Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: Slash, Probabilmente Non per stomaci delicati, Lime
Nota1: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura. Tenendo inoltre conto del luogo e dell'anno in cui la storia è ambientata, esse sono un’ottima scelta linguistica, proprio come lo stile utilizzato.
Nota2: Le immagini presenti e con cui si apre la storia sono tratte dalle doujinshi da cui prendono spunto i titoli, tutti spiegati accuratamente in ogni nota presente nei capitoli successivi
Nota3: Gli incipit con cui si aprono i capitoli sono di mia esclusiva creazione, dunque i credits vanno a me medesima

Introduzione: In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.



DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



LABHAIR DORCHADAIS AINGEAL RIS [1]


ATTO I: INVERNESS › SCOZIA, 1888
GRACEFUL DEGRADATION [2]
 
Rigoglioso germoglia
il frutto del mutamento,
perdendosi tra i flutti

d’antiche memorie.
 
    La pioggia autunnale cadeva fitta ormai da parecchie ore, abbattendosi sui mille colori della brughiera mentre vorticava nel vento che si innalzava da essa.
    In quell’antica magione, s’udivano suoni cupi ogni qual volta uno spiffero d’aria s’insinuava nei cunicoli, disturbando la solitaria figura accomodata su una poltrona accanto al caminetto; con distratta svogliatezza, osservava il whisky dorato che lambiva il bordo del bicchiere in cui era contenuto, con il palmo d’una mano poggiato sulla copertina consunta d’un libro che aveva abbandonato sulle cosce, entrambe nascoste dal pesante tessuto in tartan che usava per riscaldarsi.
    L’uomo sospirò pesantemente e accostò il cristallo alla bocca, bevendo giusto un sorso prima di storcere il naso mentre lo sguardo si perdeva fra le fiamme che scoppiettavano allegre nel camino. Il piacevole calore che trasmettevano si disperdeva con il lieve venticello e con qualche goccia di pioggia che entrava nel salotto, simbolo che una delle grandi vetrate era stata lasciata socchiusa; notò difatti le tende danzare in quella brezza, simili a oscuri fantasmi che si perdevano nella penombra circostante e che creavano, come le pieghe dei più pregiati abiti d’una dama, invisibili archi rigonfiandosi sul davanti, quasi fossero l’enorme ventre d’una bestia famelica.
    Non si scomodò, però, per andare a chiudere la porta-finestra, abbandonando semplicemente il bicchiere per immergersi ancora una volta nella propria lettura. Gli occhiali che indossava erano in bilico sul naso, ma parve non prestarvi poi molta attenzione; se li alzò appena con l’indice della mano destra, ascoltando il dolce sottofondo che la pioggia creava per lui e pochi altri che, in quel maniero, potevano sentirla. Dai piani inferiori, gli giungevano alle orecchie i suoni delle vettovaglie e i richiami di qualche capo cuoco, intento a dar direttive alla restante servitù. Mancava poco all’ora di cena e, poco prima che venisse servita a tavola, uno dei suoi domestici sarebbe salito a chiamarlo per scortarlo nella grande sala da pranzo, ne era certo. Voltò pagina e si ravvivò dietro alle orecchie qualche ciuffo di capelli scuri, castigati in una lunga coda che gli ricadeva morbidamente sulla spalla opposta a quella nascosta dallo scialle. Sbadigliando, accavallò con disinvoltura le gambe, vedendo, con la coda dell’occhio, il barlume d’un lampo lontano solcare il cielo.
    Lo sciabordio della pioggia divenne più fitto e scrosciante, picchiettando insistentemente contro i vetri di tutta la magione. Quando minacciò d’inondare il pavimento del salone, l'uomo si alzò, lasciando il libro e gli occhiali sul tavolino, proprio accanto al bicchiere mezzo pieno. Non fece caso alla coperta in tartan che cadde in terra, avviandosi verso il balcone senza fretta, dove scostò le tende e si innamorò di quella vista spettacolare e terribile al tempo stesso. Ogni chioma, ramo o cespuglio era sferzata dal vento che soffiava furente, mentre le goccioline d’acqua mulinavano in una danza infinita insieme alle foglie che si staccavano dagli alberi; la visibilità non era né scarsa né ottima, ma si riuscivano vagamente a scorgere le luci delle lanterne della città lontana. Carrozze cercavano di risalire le stradine scoscese e fangose, tutte simili a piccole formiche che si muovevano laboriose.
    Per qualche minuto, la figura si concentrò su quel trionfo di suoni e cupi colori, perdendosi a sua volta in esso. Gli sembrava che fossero passati anni da quando si era ritrovato ad osservare, con una tranquillità che non avrebbe mai creduto possibile, la bellezza terrificante della natura: il rombare dei tuoni, il sibilo sferzante del vento tra gli anfratti e i cunicoli, le folgori che squarciavano la volta oscura del cielo; tutto ciò gli riportava alla mente un solo ed unico istante, vecchie memorie e rimembranze d’un ragazzo che ancora non sapeva nulla della vera vita e delle crudeltà che essa aveva in serbo continuamente.
    Un sorriso amaro gli si disegnò sulle labbra sottili, poi chiuse la vetrata del balcone con lo sguardo ancora perso nel vuoto. Un suono dietro di sé richiamò la sua totale attenzione, facendolo voltare, anche se di poco, verso la soglia del soggiorno. Proprio lì, immobile, si trovava un ragazzo dalla capigliatura mora che, in silenzio, l’osservava con i suoi occhi profondi e azzurri, come se attendesse un suo consenso per qualsiasi cosa. Fu difatti con esitazione che fece qualche passo avanti, entrando completamente nella stanza solo quando gli venne fatto appena un cenno con la testa. Indossava il suo stesso vestiario, ma con una o più varianti: non portava con sé lo sporran [3], né tanto meno portava drappeggiato sulla spalla il suo solito scialle, facendo sì che la bianca camicia non fosse nascosta alla vista. Il kilt [4], tenuto fermo da una cintura borchiata dalle rifiniture in argento, era invece in tinta unica, privo dei ricchi ornamenti e senza i colori che indicavano l’appartenenza del ragazzo a quel nobile e antico casato. Proprio lui si stava tormentando le mani, quasi avesse timore di parlare. Anche la vena pulsante del collo, che l’altro osservava con velato interesse dal punto in cui si trovava, sembrava dare la stessa identica impressione. «Vi stiamo attendendo per la cena, m’Athair [5]», disse sottovoce, il tono simile al pigolio d’un pulcino abbandonato nel nido.
    Le iridi dell’altro, gelide e austere, lo fissarono attento e gli fecero correre un brivido lungo la schiena; gli venne quasi spontaneo chinare il capo e indietreggiare, come se la sua sola presenza potesse irritare il possessore di quegli occhi che continuavano ad osservarlo in silenzio. A malapena sentì i passi leggeri che aveva compiuto per avanzare verso di lui, accorgendosi della sua vicinanza solo quando una gelida mano gli sfiorò appena il viso. Tremò senza poterne fare a meno, socchiudendo le palpebre. Ma non gli sfuggì l’esitazione che si impadronì subito dopo di quell’arto, allontanato dal suo proprietario che parve quasi sospirare sebbene non avesse emesso alcun suono. «Vi raggiungerò fra poco, Jason», rispose infine, semplicemente, voltandosi ancora una volta verso il balcone come se nella stanza fosse solo.
    Senza aggiungere altro, il ragazzo si congedò frettolosamente, ritrovandosi in poco nel corridoio freddo e parzialmente illuminato. Si gettò giusto uno sguardo alle spalle, quasi temesse d’esser seguito. Fu deglutendo che tornò a guardare avanti, massaggiandosi le braccia per riscaldarsi come poteva. Ormai da un paio d’anni, l’uomo che aveva considerato alla stregua d’un padre non era più colui che aveva conosciuto ed imparato ad amare.
    Ricordava bene il giorno in cui l’aveva preso con sé, allontanandolo da Londra per portarlo in quel vecchio maniero ai limitari di Inverness; quel giorno, per lui, era stato come ricominciare a vivere. Senza casa e senza famiglia, si era rassegnato a quella vita passando da orfanotrofio ad orfanotrofio. Un’infanzia infelice e grama, per un bambino di appena sei anni. E poi era arrivato, inaspettatamente, quel giovane uomo che l’aveva accolto e trattato come un figlio dato che non avrebbe potuto mai averne, nemmeno risposandosi. Da quel momento aveva imparato a sorridere davvero, ad amare ogni singola cosa del mondo circostante: si divertiva ad andare a caccia con lui durante la stagione della lepre, lo ascoltava attentamente quando gli narrava imprese eroiche o gesta d’uomini che erano passati alla storia; tutte piccole cose che assimilava e apprendeva, beandosi del calore e dei sorrisi sereni che riscontrava nel suo volto e in quello della servitù. Ma, come ogni cosa bella, non poté durare. Fu durante la sua quattordicesima estate, poco più di tre o quattro anni addietro, che le cose cominciarono radicalmente a cambiare. Le mattinate o i pomeriggi passati insieme si ridussero a non più di qualche ora, così come le gran feste di gala a cui, di tanto in tanto, amavano partecipare per conoscere uomini di culto e gente nuova che si riuniva ogni anno prima dell’inverno. Il suo tutore passava infinite giornate chiuso nel suo studio, ordinando ai domestici di non disturbarlo assolutamente se non necessario. Ne usciva solo quando era ormai sera tarda, cenando velocemente in sua compagnia prima di lasciarlo nuovamente solo e tornare a rinchiudersi in quella stanza che era ormai divenuta il suo mondo.

    Tutto ciò era cominciato dopo un incontro di lavoro, quando un uomo dall’aspetto giovane e aristocratico aveva fatto loro visita in quell’antica dimora. S’era presentato come un annoso amico di famiglia - sebbene non dimostrasse più di ventidue anni -, affermando d’esser lì per riscuotere un vecchio debito. Dopo varie ore passate fra una chiacchiera e l’altra, s’era scoperto che tale giovane aveva conosciuto il padre dell’attuale padrone di casa, anche se la cosa risultava quasi impossibile. Fatto stava che, da quando era comparso quel giovane nelle loro vite, nulla era rimasto più come un tempo. Il ragazzo vedeva il padre adottivo passare svariate ore in compagnia di quel misterioso ospite, rivolgendo unicamente a lui le sue attenzioni o i suoi sorrisi. E tutto ciò avveniva senza che si capacitasse del perché. Nemmeno i domestici, che lo conoscevano sin da quando era bambino, riuscivano a spiegarsi questo repentino cambiamento. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, il loro signore diveniva sempre più pallido e stanco, sebbene conservasse quello sguardo fiero e quei lineamenti decisi che l’avevano sempre caratterizzato. Avevano sperato che, con il passar del tempo, tutto sarebbe tornato come una volta, ma tutt’ora quegl’incontri non erano affatto diminuiti; non passava un mese o un mese e mezzo senza che quell’uomo venisse a far loro visita. Ed era quasi giunto il giorno del suo arrivo. Forse era per tale motivo che, al ragazzo, il tutore appariva più distaccato e lontano.
    A sguardo chino, il giovane discese le scale che lo separavano dai piani inferiori, attraversando quel vasto disimpegno mentre gli sembrava di sentire su di sé lo sguardo degli uomini raffigurati nei quadri lì presenti. Deglutì ancora, adocchiandone uno di sfuggita; mai come quella notte, forse a causa del temporale che stava avendo luogo, quegli occhi obliqui - così simili a quelli del padre adottivo - gli sembravano freddi e saccenti, quasi dotati di vita propria. Aumentando il passo, stornò lo sguardo, concentrando l’attenzione solo e unicamente sulla strada che stava percorrendo. Alle orecchie gli giungevano, lievi, gli ultimi preparativi dei domestici, affaccendati a mettere in tavola calici e posate. Arrivato alla grande sala, vide uno di loro riempire il bicchiere che un uomo già accomodato gli stava porgendo, prima di chinare il capo e dileguarsi alla volta delle cucine.
    Il ragazzo s’avvicinò al tavolo e salutò con un cenno del capo, vedendo suo zio Seamus alzare lo sguardo dal giornale che aveva dinanzi per puntarlo su di lui. Sembrò squadrarlo, forse saggiando il suo vestiario. «Quanto ci farà attendere, stavolta?», domandò, quasi disinteressato, lasciando su una piccola catasta d’altri giornali quello che stava studiando per allungare una mano verso il calice. Non bevve, osservando solo il vino oscillare al suo interno.
    Con un sospiro, Jason si sedette a sua volta, poggiando le mani sulla tovaglia che nascondeva il pregiato legno d’ebano nel quale la tavola era intagliata. Senza guardare il suo interlocutore, sebbene fosse conscio della sgarbatezza, si concentrò solo sui movimenti dei domestici che vedeva di tanto in tanto. «Non lo so, nobile zio», rispose in un mormorio mesto, alzando lo sguardo per osservarlo.
    L’uomo si carezzò i baffi curati con fare pensoso, prima di portarsi il bicchiere alle labbra e bere un sorso; lanciò un’occhiata al giovane e soppesò ancora una volta il suo abbigliamento
, poggiando una mano sui giornali posti a lato del tavolo prima di togliersi gli occhiali che indossava. «Come mai ti sei cambiato d’abito?», gli porse un altro quesito - forse per cambiare argomento -, attento a nascondere i titoli che svettavano con inchiostro nero.
    Il giovane si strinse nelle spalle, sistemandosi la camicia. «M’Athair preferisce che applichi le vecchie usanze almeno in casa, nobile zio. Dovresti saperlo», rispose con semplicità, voltando appena lo sguardo quando sentì l’avvicinarsi d’una cameriera che portava con sé i primi piatti. Li poggiò in tavola rivolgendo ad entrambi un cenno formale del capo, allontanandosi mentre un’altra donna portava le restanti porzioni.
    Nuovamente soli, Seaums fissò il nipote. «Come sta?», chiese, lasciando trapelare dalla voce la preoccupazione che cresceva, in modo viscerale, dentro di lui. Era da oltre un anno che lasciava la tenuta che possedeva a Londra per passare uno o due mesi in loro compagnia, forse per tener sotto controllo le instabili condizioni del padrone che, di tanto in tanto - nonostante i suoi domestici l’implorassero più volte di non muoversi, preoccupati per la sua salute -, si recava a sua volta in quella zona per chissà quali affari di lavoro. Come tutti in quella casa, anche lui conosceva il padrone sin da quando erano entrambi bambini; avevano passato insieme già i primi anni della loro infanzia, divenendo nel corso del tempo più simili a due fratelli che a degli amici. Crescendo, poi, il loro rapporto si era consolidato. Sebbene a quel tempo - e tuttora, c’era da aggiungere - abitassero lontani l’uno dall’altro, si scrivevano molto spesso, quasi suscitando l’ilarità, ma anche la gioia, dei loro genitori. Il rivedersi durante eventi mondani o cene di famiglia erano i momenti che più attendevano; dopo cena salivano nelle stanze ai piani superiori e, proprio come fratelli, si raccontavano ogni cosa, tenendosi informati su tutto. Avevano condiviso pianti, risate. Giorni felici ormai divenuti un ricordo sbiadito. Perso com’era nei suoi tristi pensieri, quasi non sentì la risposta del ragazzo, scusandosi immediatamente per la sua distrazione.
    «Sta come tutti gli altri giorni», ripeté paziente lui, rigirandosi una posata fra le dita. «A volte mangia, altre no... sembra che nemmeno gli interessi il fatto che salta i pasti». Aveva tenuto gli occhi azzurri bassi, senza avere il coraggio di incontrare lo sguardo dell’uomo. Il solo trovarsi lì, per lui, equivaleva a dare allo zio spiegazioni che avrebbe preferito fossero rimaste sepolte. La sua attenzione cadde, per chissà quale motivo, sui giornali che proprio lo zio cercava di tener nascosti come poteva.  «Li hai portati da Londra o da Inverness, nobile zio?», fu il suo turno di chiedere e cambiare argomento, alzando finalmente lo sguardo sul volto intristito di lui. Quando lo zio era arrivato, poco più di qualche ora prima, il ragazzo non aveva fatto poi tanto caso a ciò che aveva con sé. S’era semplicemente soffermato sulla valigia, non potendo chiedergli nulla dato che era stato accompagnato dai domestici nelle sue stanze. Ma adesso che aveva trovato un pretesto per distrarsi, la curiosità e il sapere avevano sostituito per poco la solita maschera preoccupata che indossava da anni.
    Seamus, seppur colto un po’ alla sprovvista dal quesito, si limitò ad annuire, cercando comunque di occultare i titoli. «Purtroppo sono tutte cattive notizie, Jason», gli rispose con voce spenta, prendendo la catasta di giornali per poggiarsela sulle gambe. Così facendo evitò al ragazzo di leggere anche per sbaglio, ma gli fece corrugare le fini sopracciglia scure dall’angoscia.
    «Quali cattive notizie?», chiese immediatamente, insistente. Lì, ai limitari del nulla, non avevano i mezzi per tenersi informati su ciò che accadeva nel mondo. Era raro che i loro domestici, quando lasciavano il maniero per rifornire le dispense e dirigersi ad Inverness, pensassero a comprare un giornale o a chiedere qualcosa alla popolazione. Le notizie, quindi, riusciva ad assimilarle solo quando, come in quel momento, era lo zio a pensare a ciò.
    Ancora una volta, però, l’uomo scosse la testa; non sembrava intenzionato a parlarne. «È una faccenda molto delicata», asserì con una nota flebile e accorata, decidendo infine di cominciare a mangiare.
    «Ed è per questo che te lo chiedo», rimbeccò Jason, senza darsi per vinto. Gli occhi azzurri scintillavano di preoccupazione e, allo stesso tempo, di voglia di sapere. Ci impiegò tutta la sua forza di volontà per riuscire a far cedere l’uomo. Nonostante continuasse a ripetere che non era il caso di venire a conoscenza di tali fatti, lui insisteva il più possibile, forse comportandosi come un bambino capriccioso. Quando infine, probabilmente esasperato, glielo disse lasciandogli uno dei giornali, il ragazzo si limitò ad osservare il titolo, scioccato. Si sentiva le labbra secche, e dovette umettarle più volte e deglutire prima di riuscire a parlare con un po’ di disinvoltura. «Un assassino?», domandò con voce spezzata, come se si fosse dimenticato della crudeltà che imperversava nel mondo. Nell’agio e nella felicità di quella sua esistenza, divenuta da troppo, ormai, un suo sogno dorato, aveva lasciato al di fuori di tutto ciò la vita vera, ritrovandosi poi sbattuto con forza contro tale terrificante realtà, come un naufrago in balia delle onde.
    «Lo chiamano Jack lo squartatore [6]», rispose suo zio, interrompendo il flusso disarticolato dei suoi pensieri. «Ironico quanta malvagità possa risiedere in un solo uomo, vero? Alcuni dicono che sia opera del Diavolo, altri pensano che siano riti pagani tornati agli albori... io credo che sia solo uno psicopatico che ha trovato il modo di far parlare di sé. Persino Scotland Yard non ha nessuna pista e sta ancora investigando».
    Il ragazzo ci mise un po' per riprendersi, sentendo la gola quasi impastata. «È... una cosa terribile», riuscì a dire con voce incrinata, senza aggiungere altro. Rilesse più volte quel paragrafo, rendendosi sempre più conto della verità dei fatti. Eppure, sebbene la sua mente avesse ormai immagazzinato quelle informazioni, il suo cuore ancora si rifiutava di crederci. Chi poteva mai essere così folle da ammazzare a quel modo delle persone? Erano delle prostitute, certo, ma non per questo si erano meritate quella fine. Cosa poteva mai spingere un altro essere umano ad agire contro natura? Immerso com’era nei suoi pensieri, Jason sussultò quando sentì la mano dello zio posarsi sulla sua spalla, accorgendosi solo in un secondo momento che si era ripreso il giornale. Sconvolto com’era dall’aver appreso quella notizia, aveva quasi estraniato il mondo circostante.
    «Non farne parola con tuo padre», gli raccomandò, con una lieve inclinazione preoccupata nel tono di solito composto della sua voce. «Tali notizie non giovano alla sua salute».

    Jason annuì automaticamente, a sguardo chino. «Non l’avrei fatto di sicuro, nobile zio», lo rassicurò, fissando con poca convinzione il cibo ancora presente nel piatto mentre sentiva l’altro tornare al suo posto. Cincischiò con la forchetta senza portarsi nulla alla bocca, versandosi del vino in un calice ma senza prenderlo per bere. Sembrava semplicemente che facesse quei piccoli gesti solo per distrarsi. Gli unici suoni che si sentivano erano i loro respiri e l’insistente ticchettio della pioggia sui vetri o, a volte, qualche scricchiolio del vecchio maniero. «Nobile zio», lo chiamò d’un tratto il ragazzo, quasi insicuro, abbandonando per l’ennesima volta la posata nel piatto. Ma non continuò finché gli occhi marroni non si puntarono su di lui, attente. «Cosa ne pensi dell’omicidio?» chiese a bruciapelo, vedendo il suo interlocutore dilatare gli occhi, come se non avesse intuito il perché di tale domanda.
    Prima che potesse anche solo provare a rispondere, tuttavia, fu un suono proveniente dal vano della porta a richiamare l’attenzione d’entrambi. «Gradirei che non si parlasse di tali cose, alla mia tavola», esordì il padrone di casa, appena giunto nella sala da pranzo. Aveva sciolto i lunghi capelli d’ebano, creando così un forte contrasto sulla bianca camicia bordata e sul pallido viso.
    Entrò e ignorò i loro sguardi e la loro palese sorpresa, forse perché, proprio a causa di quel suo presenziare o alla luce più forte lì presente, il pallido colore del viso risaltava ancor di più. Quasi con eleganza prese posto a capotavola, facendo vagare i suoi occhi cerulei sull’abbondante cena prima di scoccare veloci occhiate ad entrambi. Con altrettanta grazia agitò piano una mano, come ad invitarli a consumare la loro cena. «Mangiate, mangiate. Non preoccupatevi», disse in tono ammaliante. E, quando incurvò le labbra in un piacevole sorriso, gli altri due commensali non seppero spiegare la provenienza del brivido che sentirono all’unisono, legato probabilmente anche al tono con cui il padrone di casa pronunciò ben altre parole. «La notte è ancora lunga».





[1] Letteralmente significa “Un oscuro angelo parlò a lui” ed è gaelico scozzese.

[2]
Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 19 marzo del 2006.
Indica la degradazione a cui il protagonista principale va incontro, sebbene al principio lui non sembri pensarla esattamente in questo modo.

[3] Borsetta che si indossa sopra il kilt. Realizzato in pelle o pelliccia, l’ornamentazione del sporran è determinato dalla formalità del vestito indossato con esso. Viene indossato su un cinturino in pelle o a catena, convenzionalmente posizionato di fronte all’inguine di chi lo indossa.
Poiché il kilt non ha tasche, lo sporran funge da raccoglitore e contenitore per tutti gli oggetti personali.


[4] Indumento maschile scozzese, composto da tessuto in tartan indossato insieme ad uno sporran (la borsetta di cuoio posta sul davanti) e portato senza nulla sotto.
Anticamente veniva confezionato con un pezzo di stoffa molto lungo, così da poter essere assicurato alla spalla con una spilla dopo averlo legato intorno alla vita, dando la sensazione voluminosa che richiamava quasi i drappi.
In tempi non molto lontani era disprezzato da chi considerava gli Highlanders dei selvaggi, chiamati con l’appellativo dispregiativo “redshanks” a causa del colorito paonazzo che assumevano a causa del clima e delle condizioni atmosferiche alle quali erano esposti.

[5] Padre mio, gaelico scozzese.
Abbreviazione ottenuta dal pronome possessivo “Mo” (Mio) dinnanzi alla vocale di “Athair” (Padre)

[6] Serial Killer che, durante l’autunno del 1888 (Anno in cui la storia si svolge, quindi), commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa.
Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte le persone che cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.






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