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Autore: _ChibiCia_    03/01/2006    4 recensioni
Come si perde un anima? La storia di qualcuno che ha rinunciato alla sua: Tom Riddle. Commentate per favore.
Genere: Dark, Drammatico, Generale, Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tom Riddle/Voldermort
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Anima di ghiaccio

Anima di ghiaccio

Capitolo primo: Fredda indifferenza.

 

Un anima…?Non so se ne sono mai stato in possesso…

In realtà, non credo di sapere nemmeno cosa sia con certezza. E poi… si può possedere un anima?

Non è nulla di tangibile, è un essenza. Qualcosa in grado di racchiudere sentimenti e emozioni, di camuffare piaceri e gioie in dilemmi e preoccupazioni, qualcosa di incerto e paradossalmente potente nella sua debole entità, o almeno, abbastanza per annientare la mente di qualunque essere.

Maggiormente se si tratta di un umano; l’essere più debole. Individuo sciocco, insulso, che si aggrappa a questa nebulosa e sfocata coscienza di se, annebbia i propri sensi nell’oblio che essa concede e abbandona il senno della propria mente per perseguire la fittizia strada che si snoda dalle inutili e false sensazioni che agli uomini piace chiamare:emozioni’.

È una sciocchezza. Solo una sciocchezza.

Una stolta invenzione di cui mi è impossibile sentire la mancanza.

Non ne ho bisogno.

La tua, dunque, è una domanda stupida.

Non ho bisogno di nessun intralcio simile, non ho bisogno di nessun anima.

 

*

 

Pioveva, come sempre del resto. Tra i suoi ricordi le giornate di sole erano rare e sbiadite, almeno come lo erano quelle da lui vissute in quegli anni cupi e gelidi. Probabilmente era inverno; ricordava un freddo pungente avvolgerlo e derubarlo di ogni pensiero. Ne era grato poiché stava piangendo e voleva dimenticarne il motivo che lo spingeva insistentemente a farlo, per porre fine a quell’azione ridicola, che odiava terribilmente.

Aveva sei anni, forse prossimo a compierne sette, orgoglioso e testardo come un uomo adulto, era lì, rintanato, nascosto sotto il pino mediterraneo, che resisteva con prepotenza alle temperature del nord Europa almeno quanto lui stava cercando di respingere le lacrime, premendo con forza le piccole mani sugli occhi nascosti dai capelli lievemente lunghi.

L’imponente albero era affiancato da un altalena vecchia e arrugginita, decadente come lo era l’edificio di fronte ad essa, inerpicato su una lieve collina, spoglio e grigio come il cielo. Le imposte delle finestre, scrostate e rotte, cigolavano accompagnate dal vento, cantando una lenta nenia, triste e dolorosa, mescolandosi con il rumore della pioggia che cadeva. Disturbato da quella leggera brezza che spostò sul terreno le foglie bagnate, lasciate sparse qui e là del trascorso autunno, alzò lo sguardo verso l’entrata.

Rivoli di lacrime rigavano ancora il suo volto dolcissimo, candido, che accoglieva un paio di grandi occhi velati leggermente d’acqua ma pur sempre profondamente assorti nel nero più intenso, come i capelli d’ebano che scendevano fin sopra le delicate guance. Tirò su con il naso, reprimendo un singhiozzo.

Soffermò lo sguardo sulla scritta, ormai praticamente illeggibile, che compariva appena sopra il portone d’ingresso. Le lettere si susseguivano sulla parete crepata e formavano le parole: orfanotrofio regionale. Con un espressione di rammarico e tristezza rituffò la testa tra le braccia e altre lacrime cominciarono a scendere sul viso.

Dannazione! Tutti lo odiavano, lo scansavano, lo guardavano con disprezzo, con superiorità. Gli altri bambini si tenevano alla larga da lui, avevano timore dei strani piccoli avvenimenti che lo riguardavano. Temevano di potersi ferire con i pezzi di vetro dei bicchieri che sembravano rompersi magicamente ogni volta che era di cattivo umore per qualcosa. Tutti i bambini erano spaventati nel veder spegnersi improvvisamente la televisione, o staccarsi tutti i cartelloni dai muri delle aule di scuola inaspettatamente, quando il bel bambino dal comportamento indifferente a tutto e tutti cambiava d’umore.

Tra il direttore e le altre maestre dell’istituto vociferavano perfide voci di irrazionalità stupefacente. Quell’uomo grassottello, dall’espressione seria e autoritaria più di una vola consigliò ai coniugi che venivano a chiedere l’affidamento del bimbo di tornare sui propri passi, ripensarci, di prendere con loro un altro orfanello.

“é figlio del diavolo vi dico, signori miei! Vi sto facendo un favore! Non lo prendete con voi, accadono cose terribili intorno a quel bambino! È frutto di Satana!” ripeteva sempre, con sguardo spaventato e in tono confidenziale, e tutte le coppie scappavano via, scandalizzate, portando con se un altro bambino.

Perché? Cosa aveva fatto di male? Si impegnava in tutto. Aveva sei anni e studiava lezioni di ragazzi delle scuole superiori alle sue. Apprendeva tutto con semplicità e riusciva in ogni cosa. Era educato e con i signori che lo venivano a trovare per parlare con lui era sempre gentile e disponibile. Eppure, nessuno lo voleva.

Era solo. Maltrattato dai ragazzi più grandi, che lo prendevano di mira e lo picchiavano per sfogarsi delle proprie oppressioni. Evitato da tutti. E soffriva. Soffriva maledettamente.

 

- Sei sempre il solito, sapevo di trovarti qui!- esclamò improvvisamente una voce femminile, infantile, che spinse il bimbo moretto ad alzare gli occhi verso la proprietaria, apparsa davanti a lui. Una bambina un po’ più grande di lui gli era davanti. Teneva fra le mani un ombrello color giallo canarino, consunto sul manico di legno, intonato con gli stivaletti arancioni di gomma che indossava ai piedi, nascosti in parte da un paio di jeans lunghi e strappati in più punti. La bimba era coperta da un pesante maglione di lana azzurro, eccessivamente grande per lei, decorato con un orsacchiotto di peluche sul davanti un po’ spelacchiato. Due simpatici codini le spuntavano da sotto un cappello a forma di papero, anch’esso giallo, decisamente rovinato, che si posava con la visiera di traverso sul capo della bimba.

 

- C-cosa vuoi?- singhiozzò di rimando il bambino, mentre si strofinava con veemenza maggiore il volto nel tentativo di nascondere le lacrime.

 

- Ma guarda che moccioso! Come al solito fai finta di niente davanti agli altri, sembra che niente ti tocchi e poi vieni sempre a piangere qui, sotto questo albero!-

rispose lei, saltellando con gli stivaletti in una pozzanghera.

 

- Non chiamarmi moccioso! Hai solo due anni in più di me! E poi io non piango affatto! E comunque non sono affari tuoi!- urlò il moretto, alzandosi in piedi di scatto con le sopracciglia corrucciate.

 

- Ahahah, che faccia buffa che hai! Sei tutto sporco! Hai pianto, si vede!- rise la bimba, guardandolo in viso e indicandolo con il dito.

 

- Dai, andiamo dentro, sei tutto bagnato, e non hai nemmeno un maglione addosso!- soggiunse vedendo gli occhi neri del suo interlocutore irrigidirsi di rabbia.

 

- No! Vai tu se vuoi! Io non ti ho chiesto nulla! Capito? Vattene!- sbraitò osservandola con astio.

 

- Uff… allora rimango qui anche io- concluse con semplicità la piccola, sedendosi sotto l’albero vicino a dove era seduto poco prima il bambino e cominciando a fischiettare spensieratamente. Il bimbo la osservò sempre con la stessa espressione adirata, e si rimise a sedere, qualche passo lontano da lei.

 

- Ehi! Vieni qui vicino così ti riparo con l’ombrello- disse la bimba osservando i capelli nerissimi e bagnati di lui, agitando l’ombrello per fargli segno.

 

- No!-

 

-Ti prenderai un raffreddore!-

 

- Chissene!-

 

- Scemo!-

 

- Stupida!-

 

-Piagnone!-

 

-Non è vero!-

 

Silenzio. Il rumore della pioggia riecheggiava per il piccolo cortile sgombro.

 

- Jane…- interloquì improvvisamente il moretto, dopo qualche attimo di silenzio. L’acqua scorreva gelida su tutto il suo corpo. La bambina si voltò a osservarlo.

 

- Cosa dicono gli altri bambini di me?- proseguì il piccolo, lo sguardo puntato assente verso il suolo fangoso e il tono leggermente ombreggiato di tristezza.

 

- Che sei un tipo strano. Hanno tutti paura di te.- rispose Jane, guardando lontano con assenteismo e battendo i piedini nell’acqua sul terreno.

 

- Paura?- chiese il bimbo, concentrando d’improvviso due occhi sbalorditi sulla volto della bambina di fianco a lui.

 

- Si… sei sempre per i fatti tuoi, in silenzio, fai tutto benissimo e non sbagli mai. E poi alcuni dicono che non sei tutto normale. Dicono che non sei tutto umano.-

continuò a dire la bambina, guardandolo negli occhi, ostentando sempre un espressione di dolce ingenuità.

 

- Ah si…?- domandò il bimbo, colto nuovamente da un espressione di gelo distacco. La bimba non rispose. Lo osservava con la semplicità di un bimbo.

Altri attimi trascorsero in silenzio.

 

- Tom…- esordì Jane, rompendo di nuovo il rumore monotono dell’acqua che cadeva dal cielo.

 

- Io non so se sei normale o no. Ma non fa niente, mi sei simpatico.-

 

- Simpatico, io?- chiese nuovamente stupefatto il bimbo dagli occhi e i capelli corvini, tornando a fissare la bimba con espressione accigliata.

 

- Si. Penso anche che non dovresti piangere per quello che pensano di te gli altri bambini, perché tu sei il più straordinario, sei molto più in gamba e intelligente di tutti loro messi insieme, quindi non devi cedere alle loro prepotenze.-

Il bambino di nome Tom la guardava con la bocca leggermente dischiusa, colta dallo stesso stupore di prima. Poi, cautamente, tornò a fissare con disattenzione la terra davanti a se. Jane era arrivata all’orfanotrofio da pochi mesi, era stata trasferita da un altro che era fuori città, si vestiva sempre con colori appariscenti e vestiti particolari, era solita, quando arrivava i nuovi vestiti per i bambini, tuffarsi a scegliere quelli che Tom giudicava i più strani, e sembrava divertirsi molto nel farlo.

Sorrise tristemente. Poi si alzò e guardò verso l’edificio davanti a loro, sotto lo sguardo indagatore della bimba.

 

- Ho fame, vado a rubare qualcosa dalla cucina- disse, seguitando a guardare avanti.

 

- Sei pazzo? Se ti scoprono? Lo sai che ti puniranno!- chiese sbalordita la bimba mentre lo vedeva incamminarsi sotto la pioggia, verso l’entrata. Tom non rispose, Jane si alzò e fece una piccola corsa per affiancarlo. Sorridendo lo coprì con l’ombrello.

 

- Non pensare a me, sono zuppo ormai!- disse il bimbo sempre con lo stesso tono aspro mentre insieme raggiungevano l’entrata.

 

- Fa niente!- esclamò Jane, sorridente, entrando per prima nell’edificio.

 

Tom si voltò a vedere il punto dove prima si trovava insieme a Jane, sfocato dalla pioggia che cadeva davanti ai suoi occhi.

Non avrebbe più pianto. Lui era superiore, non era come quelle persone intorno a lui, che lo giudicavano dai suoi silenzi.

Era solo… ma in fondo, cosa c’era di male nell’essere soli?

Si voltò nuovamente, entrò nell’ingresso, freddo quanto l’esterno.

 

Era solo… ma l’alternativa sarebbe stata stare insieme a quegli sciocchi che lo scansavano senza nemmeno conoscerlo, che lo giudicavano dalle dicerie del direttore e lo guardavano con disgusto e disprezzo.

Era solo… ed era meglio così.

 

*

 

Presto il piccolo bambino che a quasi sette anni piangeva, distrutto, sotto la pioggia gelida accanto al pino, crebbe.

La fredda indifferenza che persino a sei anni dimostrava verso ogni cosa che gli accadeva intorno, ora era ancor più forte in lui. Aveva imparato ad amare la solitudine, a starsene presso il medesimo pino sotto il quale un tempo versava lacrime, seduto a leggere libri su libri, ad ascoltare il dolce silenzio che era diventato il suo amico più stretto, e ad osservare con superiorità le persone che aveva intorno e che ora avevano imparato ad ammirarlo, oltre che a temerlo.

Il bel volto di Tom non era più stato toccato da nessuna sorta di lacrima, i suoi occhi non si erano più velati di tristezza ne di altri sentimenti. Erano freddi. Freddi e distanti come quelli di un rettile. Sembrava quasi essersi creato un muro tra lui e il mondo, spesso e invisibile, che lo tagliava fuori da tutto e che lo poneva in un posizione di intoccabile indifferenza.

In realtà egli era cosciente che non erano certamente state le parole della bimba dai codini buffi a farlo reagire a quella situazione. Forse erano stati gli sguardi disgustati e accusatori dei genitori adottivi che venivano a prendere gli altri orfanelli, forse quelli del direttore e delle altre insegnanti, forse le voci dei bambini che si sussurravano: “Non è un bambino normale…”. Fatto stava che lui era cambiato, quelle parole non potevano più ferirlo. Niente poteva più.

I ragazzi più grandi che un tempo lo picchiavano, ora non gli si avvicinavano più, non da quando compresero che quel bambino indifeso era scomparso e al suo posto vi era un ragazzo dagli occhi di ghiaccio che era perfettamente in grado di affrontarli e batterli anche da solo. Le insegnanti non potevano fare altro che lodarlo per i suoi risultati e anche se non si dilungavano molto nel farlo, poiché non lo avevano molto in simpatia, a lui non importava. Non importava di essere lodato da quelle stupide donne di mezza età, dedite a accaparrarsi le attenzioni del direttore che passava tronfio per i corridoi dell’istituto esibendo pesanti orologi d’oro, ogni volta diversi. Sarebbe presto andato via da quel posto, ancora qualche anno, e se ne sarebbe andato, a costo di dover vivere per strada.

                                                                                                      

*

 

Era una di quelle tiepide mattine di sole che Tom avrebbe potuto contare sulla punta delle dita e che preannunciava l’arrivo dell’estate. I ragazzi dell’istituto erano tutti fuori, nel cortile, a divertirsi, godendosi i raggi solari che illuminavano la giornata. E lui… bè, lui era lì: semi sdraiato sul letto arrugginito che gli apparteneva fin da quando aveva messo piede in quel posto. Nella grande stanza che accoglieva i letti dei bambini non c’era nessun altro. Tom aveva lo sguardo perso sul soffitto ammuffito, le mani dietro la testa e i capelli davanti il volto. Silenzio. Stavolta nulla lo avrebbe infranto, quella rompiscatole se n’era andata diversi anni prima, due o tre, non ricordava, ma almeno ora  non lo avrebbe più importunato con la sua esuberanza immotivata. Jane infatti era stata adottata da una coppia di signori piuttosto vivaci che erano entrati nell’istituto sorridendo allegramente, indossando abiti appariscenti e molto colorati che concorrevano alla pari con quelli della ragazzina, e che non appena la videro, le si avvicinarono e poco dopo andarono a parlare con il direttore per l’affidamento.

Ricordava vagamente come Jane, a quel tempo di 10-11 anni, si era avvicinata a lui, sorridente e gli aveva detto:

- Spero che ci rivedremo Tom!-. Lui non aveva risposto nulla, l’aveva guardata allontanarsi e sedersi vicino alla porta del direttore, in attesa dei nuovi genitori.

E così anche lei se n’era andata, fortunatamente, una seccatura in meno.

 

- Tom - improvvisamente un tono di voce irrigidito e tradito da un velo di spavento arrivò alle sue orecchie. Il ragazzo non sobbalzò, non si sorprese per nulla, si mise a sedere e guardò negli occhi il direttore che era sulla porta con una lettera in mano e che lo guardava con gli occhi umidi e tremando vistosamente.

Una seccatura in fine era arrivata comunque. Il ragazzo continuò a guardare con sicurezza e senza muoversi il direttore avvicinarsi a lui e rimanere in piedi, davanti il suo letto, a qualche passo di distanza.

 

- Posso esserle utile, direttore?- chiese con tono piatto ed educato Tom, seguitando a fissarlo negli occhi.

Il direttore sembrò assumere un espressione di disapprovazione che venne meglio identificata con puro e semplice spavento. Quel ragazzo era davvero imperturbabile, non si era nemmeno scomposto nel vederlo arrivare d’improvviso. Con riluttanza porse a Tom la lettera che teneva fra le mani, non avvicinandosi più del dovuto.

Il ragazzo la prese e, anziché stupirsi, alzò le sopracciglia infastidito, non perdendo il volto calmo e atono.

 

- è uno scherzo di cattivo gusto- commentò con semplicità, posando la lettera sul letto.

 

- Tu dici? Io non credo.- rispose il direttore, guardandolo stavolta con durezza e rabbia repressa. Tom lo scrutò da sotto i capelli corvini.

 

- Comunque sia sarebbe meglio se tu andassi a questo appuntamento…- disse, prendendo già ad allontanarsi dal letto e guardandolo torvo di lato sempre con quell’espressione dura e autoritaria.

Il ragazzo gli lanciò uno sguardo gelido che lo fece bloccare sullo stipite per un momento con la bocca spalancata, poi deglutì, si ricompose e scomparve attraverso la porta il più rapidamente possibile.

Tom posò la sua concentrazione sulla pergamena gialla che accoglievate le parole della lettera in color verde bottiglia. Così il direttore aveva avuto occasione di liberarsi di lui. Avrebbe potuto trovare una scusa più valida, però. Che stupidaggine. Scuola di magia, risposta via gufo... comunque sia ci sarebbe andato. Anche lui in fin dei conti voleva liberarsi del direttore e di quel posto, e qualsiasi cosa avrebbe trovato alla stazione di King’s Kross  avrebbe potuto in ogni modo prendere un treno per andarsene in qualche altro posto.

 

 

CONTINUA…

 

Spero di aver colto la vostra attenzione^^

Vi chiedo per favore di lasciare un commento, si tratta di una fan fic che ho scritto di getto, l’idea è quella di raccontare fatti e avvenimenti che hanno influito sulla personalità di Tom Riddle, molti naturalmente saranno inventati altri tenterò di basarli sulle informazione dei libri.

Credo che il prossimo capitolo arriverà solo tra una settimana, infatti ho saputo che nel sesto libro, che come tutti sappiamo uscirà fra pochissimi giorni, ci saranno moltissime informazioni riguardo Voldemort e la sua vita quindi aspetterò di leggerlo per scrivere una storia più veritiera.

Insomma sabato e domenica per leggermelo e via^__- Grazie a tutti di aver letto!

Bacio! E uno speciale alla mia cuginetta Cry_90! ;)                    

                                                                               -CHIBICIA-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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