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Autore: nitro    12/02/2011    2 recensioni
Questa storia ha partecipato al contest What-if the war.. di .Trick, classificandosi quarta.
Nel giorno della battaglia decisiva la Rowling ha ucciso Voldemort, io ho ucciso Harry e ho provato ad immaginare la vita dei vincitori e dei vinti a distanza di due anni.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Hermione Granger
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Cinque maggio

 

Il cielo inglese non era mai stato particolarmente luminoso e azzurro, nemmeno nelle estati più calde. La nebbia e l’umidità avevano frequentemente occultato la volta celeste. Negli ultimi due anni, tuttavia, il sole non si era fatto vedere nemmeno una volta. Nuvole dense e scure coprivano le città e le campagne di tutta l’isola.
L’aspetto più strano che quel clima particolare ostentava, non era la perenne pioggerella che inumidiva tutto ciò su cui si posava, ma era l’apparenza delle nuvole.

Erano nere, sempre pronte a esplodere in un temporale, ed erano spesso illuminate da bagliori di una sgradevole tonalità di verde.
Sotto quel cielo, troppo buio per una mattinata primaverile come quella, una strega dai lunghi capelli corvini uscì dalla sua dimora e sorrise al nuovo giorno.
La perenne foschia che aleggiava su Londra la metteva di buon umore. La semioscurità, che avvolgeva anche il giorno di colori cupi e macabri, le rasserenava le giornate. Da molto tempo la città non poteva mutare per effetto del lento scorrere delle stagioni. Due anni di grigio e monotono autunno.
Erano passati già due anni dalla straordinaria vittoria del suo Signore.
Bellatrix Lestrange passeggiava con portamento fiero e austero per i sentieri di Hide Park. Quella mattina si era svegliata stranamente raggiante e la sua bocca era deformata da un ghigno di pura soddisfazione. I suoi occhi neri brillavano di una luce sinistra e correvano a destra e a sinistra come impazziti.
Adorava il cinque maggio.
La felice ricorrenza della loro vittoria era accolta da Bellatrix con orgoglio e passione.
Si mise comoda su una panchina e si sistemò i lunghi capelli neri mossi dal vento. Osservò il cielo plumbeo che annunciava l’imminente pioggia e sorrise. Si allietò per qualche momento della sensazione di umidità e bassa pressione che l’atmosfera le regalava.
Due Babbane le passarono davanti. Si stringevano l’una all’altra e camminavano veloci, lo sguardo piantato a terra.
Bellatrix ringhiò in direzione delle due donne e rise alla loro reazione spaventata. Si alzò e si smaterializzò sotto i loro occhi, lasciandole stupite e intimorite.
Presto i Babbani avrebbero occupato il loro posto nella piramide gerarchica e avrebbero servito i potenti com’era loro destino da sempre.
I maghi erano stati perseguitati per secoli dagli umani, processati e bruciati sul rogo, nonostante la loro innocenza. Era tempo che gli umani affrontassero le conseguenze delle loro azioni. Chi gioca con i draghi, alla fine muore ustionato.
Si materializzò nel cortile della villa che un tempo era appartenuta alla famiglia Malfoy, quartier generale dei Mangiamorte e nuova sede del Ministero della Magia.
Non c’era traccia degli antichi fasti di quella costruzione. La magione era trasandata e sporca. Il giardino, un tempo ricco di fiori e statue, era coperto da un triste strato di erba secca.
Entrò nell’ampio atrio e salutò un gruppo di suoi compagni con ricercata noncuranza. Le loro spalle erano incurvate e le loro braccia giacevano immobile ai fianchi, chiari indizi di noia. Li guardò con disprezzo e si diresse verso i sotterranei.
Quelle persone non erano degne di servire il loro Signore. Continuavano a coprirsi il capo con maschere macabre e con i cappucci neri dei loro mantelli; sembrava quasi che si vergognassero a mostrare la loro vera identità, che non avessero il coraggio di eseguire gli ordini dell’Oscuro Signore a viso aperto. Stolti.
Molti si erano uniti ai Mangiamorte soltanto dopo la loro vittoria e, secondo l’opinione di Bellatrix, lo avevano fatto più per convenienza che per trasporto verso le idee di Voldemort.
Non erano come lei.
La strega camminava a testa alta, fiera di mostrare il suo volto e di fornire prova del suo intimo attaccamento per la causa del suo Padrone.
Bussò piano alla porta della sala riunioni e attese.
I due battenti si aprirono con un sinistro cigolio, mossi da un muto incantesimo. Qualunque orecchio umano avrebbe sofferto nel sentire quell’assordante stridio di cardini, ma Bellatrix ascoltò con un ghigno quel rumore per lei così dolce.
La sala era avvolta dalla penombra. Il lungo tavolo di legno massiccio, attorniato da sedie rivestite di pelle nera, era vuoto. Soltanto una sedia in fondo alla sala era utilizzata, ma non si poteva vedere chi la occupasse perché era girata in modo da mostrare lo schienale al tavolo.
- Mio Signore, vorrei augurarle un felice anniversario. – Gli occhi pazzi della Lestrange rotearono, sopraffatti dall’eccitazione.
Dal fondo della sala non giunse alcuna risposta.
- Signore, mi chiedevo quando potremo attaccare il mondo Babbano... -
Bellatrix si avvicinò con cautela alla sedia del suo Padrone.
- Oggi potrebbe essere la giornata propizia. Il piano è già stato perfezionato. Sarebbe un onore festeggiare la nostra vittoria, soggiogando al nostro potere anche i Babbani. -
Una sferzata di potere magico le fece perdere l’equilibrio, andò duramente a sbattere contro il muro di grigia pietra. Accolse l’ondata di forza con una risata deviata, compiacendosi della magnificenza del suo Signore. La sua risata isterica si ammansì per permetterle di ascoltare il suono di quella voce, che nella sua strana mente sembrava tanto mielata.
Un timbro basso e nasale parlò con rabbia, sembrava provenisse dall’interno di una tomba.
- Non c’è nulla da festeggiare in questa infausta giornata. Due anni fa ho perso la mia serva più fedele! -
Una figura alta e gracile uscì dalla penombra in cui si era rifugiata e si avvicinò a Bellatrix con movimenti striscianti. Il viso grigio e traslucido di Voldemort fu illuminato dalla fioca luce delle torce appese al muro.
L’espressione di rabbia si distese lentamente, sostituita prima dalla tristezza e poi dalla determinazione. Gli occhi animaleschi scintillarono al pensiero della dolce rivalsa, che un giorno avrebbe potuto degustare.
La sua voce diventò melliflua, tossica come il fiele.
- Prima di distruggere gli esseri privi di potere magico, voglio avere la mia vendetta. -
Bellatrix aprì la bocca con un’espressione interrogativa.
- Ma Signore, le abbiamo già consegnato i coniugi Paciock! Non si ricorda quanto si è divertito nell’annientarli in modo definitivo? Se posso permettermi, ha terminato degnamente ciò che io e…-
Due occhi ferini la dissuasero dal finire la frase.
- Io voglio lui! Voglio il ragazzo! Ha osato privarmi della mia Nagini! -
Le spalle della strega si abbassarono deluse, ma bastarono poche parole del suo Signore per rimetterla di buon umore.
- Tuo marito ha catturato un gruppo di Mezzosangue. Quegli esseri indegni si sono rifiutati di consegnare le loro bacchette. Ti aspettano nel cortile per l’esecuzione. -
Bellatrix sogghignò e si precipitò fuori dalle segrete, non prima di essersi esibita in un profondo inchino reverenziale.
I suoi gridolini di eccitazione echeggiarono tra le pareti spoglie della magione.
L’atrio si era svuotato, tutti si erano radunati nel cortile per assistere alla tortura degli immeritevoli.
Grida di terrore riempivano l’aria. Urla strazianti allietavano i timpani dei Mangiamorte incappucciati.
Rodolphus Lestrange, con il volto scoperto, stava infierendo su una giovane Sangue Sporco.
Lo sguardo di puro orrore che le deformava il viso risvegliò la crudeltà mai sopita, che dimorava del petto della moglie del suo aguzzino.
Bellatrix fremeva, la bacchetta tremava come una corda di violino troppo tesa, scossa dai sussulti delle lunghe dita che la impugnavano.
I suoi occhi pazzi si alzarono verso il cielo, osservarono i cupi lampi che rischiaravano di verde le nuvole nere e sorrisero a quella macabra coperta che ricopriva il loro mondo perfetto. Le sue labbra si sfigurarono in un ghigno malevolo.
Adorava la sua vita.
 
Quello stesso cielo lugubre e pericoloso copriva un paesaggio altrettanto tetro e funereo.
Le rovine di Hogwarts torreggiavano come un titano ferito sul Lago Nero.
Le pietre dei piani più alti, nel passato finemente depositate una sopra l’altra a formare quella maestosa costruzione, giacevano abbandonate ai fianchi delle mura, crollate come se fossero i granelli di una duna di sabbia.
La Foresta Proibita era cresciuta fitta e rigogliosa fino ad addossarsi alla costruzione decadente. In soli due anni, grossi alberi e piante rampicanti si erano inerpicati fino al castello, mossi da una forza incantata, ma oscura. Le radici si erano nutrite degli abbondanti fiumi di sangue che erano scolati in quel terreno.
Nessuno aveva mai osato avvicinarsi a quel cimitero a cielo aperto. Gli abitanti di Hogsmeade avevano abbandonato la loro cittadina, che ora giaceva immobile e triste, come un giocattolo abbandonato da un bambino.
Persino i Mangiamorte si tenevano alla larga da quel luogo di morte e disperazione. La vista di quell’imponente istituzione spezzata incuteva timore reverenziale e insediava nel cuore una tristezza profonda.
La fuga disperata e precipitosa dei perdenti aveva impedito di dare una degna sepoltura ai molti morti che giacevano a terra. La foresta era la loro tomba, i cespugli di rovi erano i loro feretri.
Il castello di Hogwarts vigilava sui suoi morti come una madre avrebbe vegliato sulle bare dei propri figli, affranta e rannicchiata.
Quelle che un tempo erano state le torri gotiche più maestose del mondo magico, erano ridotte a miseri monconi. La punta della Torre di Astronomia non svettava più sulla dolce collina del cortile, era stata tranciata di netto dai colpi senza pietà degli eserciti in guerra.
Sulle sue rovine un corpo gracile e raggomitolato si teneva stretto alle ginocchia, giaceva immobile e silenzioso sotto uno scuro mantello, come se un piccolo movimento fosse bastato per spezzare la sua esile figura.
Una cascata di boccoli bruni e crespi si stendeva sulle pieghe del mantello sgualcito.
Un tuono, improvviso e assordante, fece sussultare le spalle della ragazza.
Hermione alzò il capo per scrutare il cielo, il suo movimento fu meccanico e innaturale, come se non provenisse da un corpo vivo e caldo, ma da una dura statua fatta di pietra.
Grosse gocce di pioggia si scontrarono con le sue guance fredde e pallide, si mescolarono con le tristi lacrime che le rigavano il viso, confondendo i solchi malinconici scavati dallo scorrere delle stille.
Non era il leggero acquazzone primaverile che in quel periodo dell’anno avrebbe dovuto dissetare i fiori appena sbocciati, ma era un violento temporale, di quelli che si potevano ammirare soltanto in autunno.
Un gemito straziante uscì dalle sue labbra contratte. Per la seconda volta aveva dovuto alzarsi dalle sue coltri e affrontare la mesta ricorrenza della morte del suo migliore amico.
Detestava il cinque maggio.
Ricordi insopportabili le affollavano la mente, le tempie le pulsavano ritmicamente, in sincrono con i battiti nervosi del suo cuore. Davanti ai suoi occhi scorrevano immagini tristi e dolorose.
“Harry, qualsiasi cosa succeda, non fare stupidaggini! Non andare a combatterlo da solo. Noi saremo al tuo fianco. Promettimelo.”
“Lo prometto.”
Bugiardo!
Altre lacrime amare velarono gli occhi castani di Hermione. In quelle iridi scure e profonde non c’era più traccia della determinazione che un tempo le aveva animate e illuminate.
Hermione Granger non era più l’orgogliosa e coraggiosa Grifondoro che camminava a testa alta per i corridoi di quella scuola, conscia e fiera delle sue potenzialità.
Hermione Granger era diventata un sacco di carne e ossa, era un involucro vuoto come un bozzolo abbandonato.
Si era trasformata in qualcosa che aveva sempre disprezzato. Si sentiva superflua e impotente.
Con un moto di rabbia improvvisa lanciò una pietra verso il muro della torre crollato per metà.
L’enorme spaccatura della parete permetteva alle gocce violente di raggiungere il corpo rannicchiato di Hermione. L’acqua sferzava senza pietà il pavimento ricoperto di polvere e detriti, trasformandolo presto in una pozza di fango melmoso. Persino la pioggia si prendeva gioco di lei, scagliandole contro la dura realtà, mostrandole come la sua vita si era trasformata in un denso pantano.
“Queste stanze sono umide e fredde, ma almeno avremo un tetto sulla testa.”
“Non possiamo vivere qui. Questo posto era il covo di tutta la feccia che ha causato questa guerra!”
“Non permetterò che la mia famiglia vagabondi come un senzatetto, non vi lascerò dormire con un occhio sempre aperto per la paura di essere scoperti.”
Il signor Weasley era stato irremovibile. Dopo quasi sei mesi di fuga aveva deciso di portare la sua famiglia al sicuro tra le mura dell’unico posto che aveva sempre cercato di proteggerli. Hogwarts.
Purtroppo la torre di Grifondoro era ridotta a un misero mucchietto di detriti, i piani superiori al secondo erano stati letteralmente spazzati via e i piani inferiori erano inagibili. La loro unica possibilità era stata insediarsi nei vecchi sotterranei del castello. Vivevano in quello che nel passato era stato il dormitorio Serpeverde.
Un antro buio e inospitale. Non erano mai riusciti a sentirsi a proprio agio tra quelle mura gelide, sembrava che li percepissero come degli intrusi e li ospitavano con ostinata ostilità.
Lo spirito di Salazar Serpeverde si rifiutava di tendere la mano al fantasma di Godric Grifondoro, che era venuto a chiedere aiuto umilmente.
La loro “casa” sembrava un macabro scherzo. Grifondoro nel dormitorio Serpeverde. Illegittimo colore rosso al posto del più lecito colore verde.
Hermione derise quell’improbabile scherzo del destino, le sue labbra si aprirono in una risata nervosa e malinconica. Il suo petto fu scosso da violenti sussulti, non era più abituato a ridere. Il dolore al plesso solare si trasformò presto in nausea e Hermione fu costretta ad alzarsi in piedi per permettere ai suoi polmoni di riempirsi correttamente d’aria. Si appoggiò alla fredda parete di roccia e lasciò che l’umidità le penetrasse attraverso i vestiti, fino alle ossa.
La bacchetta le cadde dalla tasca del mantello, la giovane strega la guardò con uno sguardo di repulsione, come se fosse stata uno scarafaggio irsuto. Provò un forte istinto a calciarla lontano da sé, giù da quelle mura diroccate.
Hermione Granger era cambiata, ma purtroppo erano cambiati tutti.
I Weasley stavano ancora cercando di ritrovare un po’ di pace dopo la perdita di Fred.
Molly e Arthur facevano appello a tutta la loro forza di volontà per tenere unita la famiglia. Molly era la solita mamma severa ma bonaria. Arthur era il solito padre permissivo e ottimista. I due genitori vegliavano sui loro figli con amore, ma se si guardava attentamente nei loro atteggiamenti e nelle loro espressioni, si notava quanto entrambi fossero sull’orlo di una crisi.
Hermione strinse gli occhi per impedire alle lacrime di bagnarle ancora le guance.
Fred aveva lasciato un vuoto enorme nella vita dei suoi fratelli, ma George era quello che soffriva di più. Da quel giorno non aveva più sorriso, i suoi occhi vispi e allegri non avevano più riso a nessuno. Era diventato triste e apatico, ma non si lamentava mai, soffriva in silenzio. Sembrava avesse perso una parte di sé, e con essa la voglia di vivere.
Purtroppo c’era un’altra Weasley che provava un dolore smisurato.
Ginny aveva perso un fratello e subito dopo anche l’amore della sua vita. I suoi capelli rossi, simbolo della sua giocosa vivacità, ormai erano spenti e opachi.
Hermione stava sveglia ogni notte per cercare di calmare le urla di dolore di Ginny. S’infilava nel suo letto e la teneva stretta al petto, cercando di consolarla con futili frasi fatte. Il dolore della più giovane dei Weasley però non si placava, sembrava una bambola rotta e un ciuccio di plastica non era più sufficiente per farla smettere di piangere.
Un singhiozzo strozzato riuscì a evadere dalle labbra di Hermione. La ragazza alzò il capo verso il cielo e cercò sollievo nella pioggia fredda.
Il sollievo non arrivò. Hermione intravide nel cielo un lampo verdastro che le ricordò il colore dei capelli di Nymphadoraquando era arrabbiata.
Quel maledetto cinque maggio si era portato via anche le vite dei coniugi Lupin, lasciando orfano un bambino di pochi mesi.
Andromeda Tonks aveva perso molto in quella guerra, quasi tutti i suoi famigliari erano stati uccisi, e si era ritrovata a dover crescere per la seconda volta un piccolo metamorfmagus, con un caratteraccio amplificato da un leggero gene mannaro.
Andromeda aveva chiesto asilo ai Weasley e faceva parte, assieme al nipote Teddy, di quella triste compagnia di profughi. Non mostrava mai in pubblico il suo dolore, era pur sempre una Black e la fierezza, che qualificava quella stirpe, le impediva di mostrare le sue debolezze.
Hermione avrebbe voluto consolare tutte quelle anime spezzate, ma aveva difficoltà a consolare pesino se stessa. Era inutile e inerme.
Harry avrebbe saputo cosa fare.
Si era detta quella frase un milione di volte. Harry avrebbe potuto trovare una soluzione a ogni cosa, ma Harry non c’era più e Hermione poteva contare solo sulle proprie deboli forze.
Una mano delicata si posò sulla sua spalla magra.
Dopo un breve momento di panico, in cui si accorse di non avere la bacchetta a portata di mano, Hermione si voltò e vide il viso dolce e lentigginoso di Ron.
- Hai i nervi a fior di pelle oggi? -
Se c’era una cosa in cui Ronald Weasley non era cambiato per niente, era la sua avvilente capacità di parlare a sproposito.
- Molly ha bisogno del tuo aiuto. Fleur strilla come un animale al macello. Se non la raggiungi subito, temo che troverai soltanto un mucchietto di capelli veela dorati. -
Erano due anni che Fleur Delacour non aveva contatti con i suoi famigliari in Francia e la sua condizione di donna gravida non aiutava a renderle più sopportabile questa lontananza.
Tutti in quella guerra avevano perso qualcuno, ma Hermione sentiva di aver perso tutto.
I suoi genitori non si ricordavano nemmeno di aver avuto una figlia, anche se alla luce degli sviluppi della guerra ringraziava spesso le sue capacità magiche di averle permesso di allontanarli da lei.
Con la sua famiglia adottiva, purtroppo, non si sentiva più a suo agio come una volta.
Raccolse la bacchetta e fece un breve cenno di assenso al ragazzone dai capelli rossi, che la scrutava preoccupato.
Mentre lo seguiva lungo la scala tortuosa e sdrucciolevole, osservava le spalle larghe di Ron. Quelle braccia forti la avevano stretta tante volte negli ultimi anni.
In molte occasioni si erano lasciati andare tra i cumuli di macerie che offrivano un amaro riparo e si erano concessi lunghe ore di lontananza da quel mondo infelice.
Ben presto però si erano accorti che sfogare le frustrazioni sul corpo di qualcun altro non portava nessun sollievo. Il calore che i loro corpi emanavano nei lunghi amplessi non serviva a riscaldare i loro cuori gelidi. Non c’era traccia dell’amore che era sbocciato nei lunghi anni della loro amicizia.
Harry era stato il loro collante. Harry aveva sempre saputo riavvicinarli dopo i periodi difficili.
Stando vicini pensavano di poter mantenere vivo il ricordo dell’amico perduto, ma la verità era che si stavano usando reciprocamente per dimenticare il dolore.
Senza Harry non avevano più nulla in comune e nonostante non si fossero mai detti addio apertamente, entrambi sapevano che la loro storia aveva raggiunto la sua fine ancora prima di poter avere un inizio.
Abbassò lo sguardo a terra, incapace di osservare le spalle curve e apatiche di Ron. Erano le spalle di uno che si lascia trascinare al largo dalla marea dispotica che era la vita. I due giovani erano due naufraghi in fin di vita, ormai trascinati troppo lontano dalle sponde di salvezza.
Anche nel cuore di Hermione era andata rimpicciolendosi la voglia di vivere, come una fiammella lasciata senza ossigeno.
Detestava la sua vita.
  

 

   
 
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