Il giovanotto sussultò e lasciò perdere i suoi
pattini. Alzò la testa e rivolse un'occhiata lunga ed
eloquente alla
bambina che c'era in piedi di fronte a lui e che riusciva a guardare
negli occhi senza problemi, dato che stava seduto e chino in avanti.
Erano le sette di sera circa, quel momento della giornata in cui la
musica nel parco veniva spenta e si sentiva soltanto il suono di
qualche sassofono o di qualche chitarra degli artisti di strada che
si aggiravano alla ricerca di un paio di dollari. L'aria era
tranquilla, anche se il giovanotto sentiva di avere il naso gelato e
ci avrebbe scommesso tutti i suoi averi sul fatto che avesse assunto
anche una tonalità piuttosto rossiccia. Anche le mani erano
gelate,
dato che a Febbraio inoltrato lui aveva avuto la brillante idea di
dimenticare i guanti sul sedile della metropolitana.
La bambina,
invece, era coperta dalla testa ai piedi da un pesante poncho blu
scuro, portava un cappello di lana con dei pon pon e un paio di
guanti color magenta. Sembravano anche piuttosto caldi.
«Io mi
chiamo Noah, e tu?»
«Io mi chiamo Miranda Wilson. Ho sette
anni. Mio padre fa il nanestesista e mia madre
è una
psicologa. Sono nata in Connecticut ma adesso viviamo a Lexington
Avenue. Come fai tu ad essere solo Noah?»
Il giovanotto
recuperò i lacci del suo pattino e fece spallucce. Voleva
fare un
fiocco come quello che aveva appena visto ai piedi di Miranda, ma non
ci riuscì, quindi si accontentò di farci un nodo
doppio e poi di
infilare quella parte di lacci che avanzava dentro al pattino,
facendoli fermare un poco sopra alla caviglia.
«Mia madre e
mio padre sono proprio lì – disse la bambina, e
indicò un puntò,
appena qualche metro più avanti, dove una coppia stava
appoggiata al
parapetto e armeggiava con una macchina fotografica – tua
madre e
tuo padre dove sono?»
Noah si alzò in piedi, cercando di
stare in equilibrio sulla lamina dei pattini che aveva noleggiato, e
per un attimo cercò pure lui i suoi genitori con lo sguardo,
illudendosi di poterli trovare. Poi, però,
ricordò che i suoi
genitori non lo vedevano pattinare da una decina di anni, almeno, e
che quindi non potevano essere lì (pure perché
lui non gliel'aveva
detto, che stava andando a pattinare al parco).
«Ci sono mille
posti dove potrebbero essere. A casa, dal parrucchiere, a comprarsi
una macchina nuova, su un aereo diretto in California. Chi lo
sa.»
«I tuoi genitori ti mandano a pattinare da solo? Non sei
troppo
piccolo per pattinare da solo?»
«No, ho ventitré anni.»
«Ma sembri piccolo, se vuoi puoi pattinare con me,
così quando i
tuoi torneranno dalla Cralifonia gli dirai che non
hai
pattinato da solo.»
«Va bene. Si può sempre provare.»
Noah raccolse le sue scarpe e le nascose sotto la panchina,
perché
molte volte gli era capitato che qualcuno le scambiasse, soprattutto
a quell'ora, quando cominciava a fare buio. Il problema era che, ogni
volta, trovava sempre un paio di scarpe messe peggio delle sue e di
un numero più piccole, così che fino a che non
arrivava a casa e
non se le toglieva doveva patire un gran dolore a tutte quante le
dita. Non le trovava mai migliori, né leggermente
più grandi, né
uguali alle sue o del suo numero.
Coprì le orecchie per tenerle
al caldo e porse la mano a Miranda.
«Davvero non sai dove
sono?»
«Chi?»
«I tuoi genitori.»
«Ah, i miei
genitori – disse Noah – no, non lo so.»
«Hai la
fidanzata?»
«No.»
«Io sì, ho un fidanzato. Si chiama
Thomas, ha nove anni. È uno di quarta.»
Miranda gli lasciò
andare la mano e lo sorpassò, poi si poggiò con
tutto il peso alla
palizzata che circondava il laghetto ghiacciato e poggiò il
primo
pattino sulla superficie scivolosa. Noah la raggiunse poco dopo, e
aspettò che fosse lei la prima.
«Allora? Come ti pare oggi il
ghiaccio?»
«Oggi mi pare più scivoloso del solito. Vuoi
venire a controllare?», e gli fece spazio per farlo
controllare.
«Hai proprio ragione, Miranda – Noah si
chinò, toccando il
ghiaccio con la punta delle dita – è anche molto
freddo, sai?»
Prese di nuovo le mani di Miranda, questa volta tutte e due, e
mentre lui avanzava all'indietro sul ghiaccio (e pregava che qualche
newyorchese in sovrappeso non lo investisse in pieno) la trascinava
con sé. Aveva le gambe sottili, molto magre, più
magre dei pattini
bianchi. La bambina aveva uno sguardo trasognato, pieno di gioia e
piuttosto che cercare i suoi genitori, guardava le mani di Noah.
«Non ti piacciono? Perché non ti
piacciono?»
«Cosa non mi
piacciono?»
«Le fidanzate.»
«Sì che mi piacciono.»
«E perché non ne hai una?»
«Non ne ho una adesso,
l'ho dimenticata in metropolitana. Mi piacciono, sì. Non
faccio un
passo fuori casa senza portarmene dietro una.»
«Posso essere
la tua fidanzata, se vuoi.»
«E Thomas?»
«A lui piace
Emily Snell. Emily Snell dice che lui la fa sedere sempre nel posto
vicino al suo, a scuola.»
«Chi?»
«Emily Snell.»
«Emily Snell ha un fidanzato?»
«No, lei sta sempre a tirare
i capelli a tutti. Anche a me, una volta.»
«Non mi piacciono
le fidanzate che tirano i capelli.»
«Io non te li tiro.
Quindi posso essere la tua fidanzata.»
Arrivarono più o meno
al centro del laghetto. Noah stringeva una delle mani di Miranda,
l'altra la teneva infilata in tasca per evitare che le sua dita si
congelassero. I genitori della bambina la salutarono circa tre volte
durante i cinque metri che avevano percorso, e scattarono come minimo
venti foto. Miranda era tutta sorrisi.
Continuarono a pattinare
finché non arrivarono al lato opposto del laghetto, a quel
punto la
bambina lasciò andare la mano e poggiò entrambe
le sue sulle
ginocchia, chinandosi in avanti.
«Stavo cadendo –
disse la bambina, nervosamente – hai visto?»
«Non se n'è
accorto nessuno.»
«Oh, sì. Se ne sono accorti
tutti.
Adesso mi guarderanno tutti.»
«E noi faremo finta che non ci
siano. Li snobberemo.»
Prese Miranda dai polsi e la sollevò
leggermente da terra, fino a farle staccare i piedi di un paio di
centimetri al massimo. La dondolò in avanti e poi la rimise
al suo
posto.
«Vuoi fare una gara?»
«Una cosa? Una gara?»
«Sì – disse la bambina, guardando la
superficie del laghetto –
una gara. Non sai che cos'è una gara?»
«Sì che so cos'è
una gara. Ho ventitré anni.»
«Sai cos'è un aspirapolvere
mannaro?»
«No.»
«Avere ventitré anni non significa
sapere tutto.»
Miranda batté un piede a terra, i residui di
ghiaccio che erano rimasti attaccati alla lamina del pattino caddero.
Lei rimase concentrata mentre li schiacciava per benino e senza
dimostrare un minimo di pietà. Poi si impegnò a
scrivere qualcosa
con il piede, ma si fermò quasi subito, perché
non aveva le gambe
abbastanza lunghe per poterci riuscire senza spostarsi dal punto in
cui si trovava.
«Allora, questa gara?»
«Non voglio
farla.»
«Pisciasotto. Hai paura.»
«Hai ragione,
Miranda, ho più paura di quanto io sia disposto ad
ammettere.»
«Non lo dirò a nessuno.»
«Cosa non dirai a nessuno?»
«Che hai più paura di una di sette
anni.»
«Di che
cosa avrei paura?»
«Non so – la bambina fece spallucce, poi
tirò i pon pon del capello, che stava per cadere via, e si
voltò –
mi sembri uno che ha paura di un sacco di cose, non voglio
più
essere la tua fidanzata!»
Nella metropolitana c'erano
sempre più turisti che newyorchesi. Gente che chiedeva di
continuo
informazioni, che scendeva alle fermate sbagliate o che prendeva
treni che andavano da tutt'altra parte. Il giovanotto aveva capito da
tempo come evitarli e come risparmiarsi di tradurre nella sua lingua
le domande che gli venivano poste in un inglese spesso improbabile.
Non rimaneva mai con le mani in mano. Si infilava le cuffie nelle
orecchie, leggeva il giornale, si fingeva un turista pure lui. Quando
il suo cellulare squillò veramente Noah
aveva appena finito
di mangiucchiare le unghie della mano sinistra.
«Pronto»,
disse, distendendo le dita ben lontane dalle sua bocca.
«Noah,
tesoro, sei tu?»
«Sì, mamma.»
«Ero in pena da
morire, ma perché non mi avverti mai, quando esci di casa?
Mi stavo
preoccupando. Dove sei adesso?»
«Sto andando a teatro»,
buttò giù.
«Torni per cena?»
«Non credo.»
«Stai bene?»
«Sto benissimo, mamma. Sono stato a
pattinare.»
«Davvero? E con chi, tesoro?»
Il
giovanotto rimase in silenzio per un po'. Analizzò con
attenzione la
ragazza che era seduta di fronte a lui. Aveva un cappottino di
orsetto, una macchina fotografica appesa al collo. Portava degli
enormi occhiali da sole in testa, a quell'ora non le sarebbero
serviti a molto, e dei jeans attillati.
«Con una ragazza.
Aspetta un attimo.»
Appoggiò il cellulare sulle gambe e la
mano scivolò nella tasca del suo giubbotto, per prendere le
sigarette. Ne accese una, senza nemmeno curarsi di chiedere se a
qualcuno desse fastidio, e riprese il telefono.
«Mamma?»
«Chi è questa ragazza?»
«Una carina. L'ho conosciuta al
parco.»
«Chi è? Come si chiama?»
«Miranda. Suo padre
fa il nanestesista e
sua
madre la psicologa. È originaria del Connecticut.»
«Che
lavoro fa suo padre?»
«Oh, che importa», tagliò corto il
giovanotto, aspirò una boccata di fumo e
accavallò le gambe.
Continuava a guardare di sottecchi la ragazza seduta di fronte a
lui.
«Scommetto che ti piacerebbe. Ha la bocca come un forno,
non riesci a infilare una parola nemmeno di traverso. In un certo
senso mi ricorda te.»
«Tesoro, stai bene?»
«Sì
mamma, sto benissimo.»
«Che cosa vai a vedere, a teatro?»
Noah rimase in silenzio, a fumare la sua sigaretta. Non
cambiò
espressione, come se fosse abituato a dover inventare una bugia dopo
l'altra fin da quando era in fasce. Scostò lo sguardo dalla
ragazza
e si concentrò e guardare il proprio riflesso nel
finestrino, oltre
la spalla di una signora con un cane microscopico chiuso nella
borsetta.
«Vado a vedere – cominciò,
aspirò altro fumo –
Peter Pan.»
«Non sapevo dessero Peter Pan a teatro, in questa
stagione.»
«Mamma, tu sai cos'è un aspirapolvere
mannaro?»
«Se so cosa è cosa?»
«Un aspirapolvere mannaro.»
«No che non lo so!»
«Vedi, non puoi mica sapere tutto.»
«Noah, sei sicuro di star bene? Perché mi
sembri-»
«Mai
stato meglio. Non passa un minuto del mio tempo che io non pensi a
quanto stia bene oggi», le rispose in tono seccato. Prese di
nuovo
il pacchetto di sigarette, mentre il mozzicone di quella che aveva
appena fumato veniva brutalmente lasciato cadere per terra,
all'uscita della metropolitana. Teneva il cellulare incastrato tra
l'orecchio e la spalla destra, mentre con le mani cercava di far
funzionare il suo accendino da due soldi.
«Maledizione»,
mormorò.
«Cosa? Che hai detto Noah?»
«Niente mamma,
sono arrivato.»
«Dove? Dove sei arrivato, tesoro?»
«A
teatro mamma, dove volevi che arrivassi? Sono davanti al teatro
proprio adesso.»
«Va bene tesoro. Buona serata. Prendi un
taxi al ritorno, è più sicuro.»
«D'accordo. Ciao, mamma»,
la salutò in tono assente.
Noah infilò il cellulare nella
tasca posteriore dei pantaloni, salì gli scalini della
metropolitana
due alla volta, con una certa soddisfazione, come se salire le scale
fosse, in quel momento, un'azione tremendamente piacevole. Una volta
fuori, con lo sguardo cercò il cartello per Lexington Avenue
e la
strada da seguire. Teneva la sigaretta accesa tra il medio e
l'indice. Poi prese a camminare velocemente. Non sapeva nemmeno
spiegarsi perché fosse sceso proprio lì. Poteva
benissimo andarsene
a teatro a guardarsi la sua brava parte di spettacolo e poi
raccontare a sua madre una mezza bugia, spiegando che doveva aver
confuso Peter Pan con Il Barbiere di Siviglia o La Signora delle
Camelie. Il guaio era che ormai era sceso.
Dopo considerevoli
ricerche – circa due chilometri con quel freddo cane e una
pausa ad
ogni palazzo, per leggere i nomi sui citofoni –
riuscì a trovare
il cognome Wilson. Suonò una volta. Quando non rispose
nessuno entro
i primi trenta secondi, suonò una seconda volta. Era il tipo
di
ragazzo che non lasciava le cose a metà. Dall'apparecchio,
dopo un
minuto o due, arrivò una voce metallica di donna.
«Sì?»
«Buonasera signora. Miranda è tornata dal suo
pattinaggio?»
«Chi?»
«Miranda. Miranda Wilson. Lei è sua madre? La
psicologa?»
«Credo che lei abbia sbagliato, non c'è nessuna
Miranda, qui.»
Seguì il click del citofono che veniva
riattaccato e passò all'analisi del palazzo successivo.
Nessun
Wilson, questa volta. Così come in quello dopo.
Un isolato
più in là, Noah rilesse in nome Wilson
sull'elenco, ma nessuno andò
a rispondergli. Per un attimo fu tentato di tornare indietro e di
andare a casa. Magari poteva telefonare sua madre e dirgli
direttamente che lo spettacolo era stato annullato perché a
Capitan
Uncino era venuto un improvviso attacco di mal di pancia. Mentre ci
pensava, attraversò la strada e cercò degli altri
Wilson. Magari le
poteva dire che gli attori non erano poi così bravi come
attori, o
che il signore della fila dietro di lui aveva cominciato a russare
così forte che non si sentiva nemmeno una battuta.
Wilson,
dopo tre buoni quarti d'ora. Noah suonò al citofono.
«Sì?»,
rispose la voce, dopo meno di dieci secondi.
«Buonasera.
Miranda è in casa?»
«No, i signori non sono ancora tornati.
Lei chi è?»
«Sono Noah. Sono un amico di Miranda, o meglio,
sono il suo fidanzato. Lei come si chiama?»
«Sono la signora
delle pulizie, la signora Graff.»
«Dovrebbe dirmi il suo nome
per intero.»
«E perché?»
«Non lo so. Credo che
questa sia la regola, signora Graff.»
«Senta, non so che cosa
voglia. Ma farebbe meglio a passare quando i Wilson saranno
ritornati. Arrivederci», e riattaccò anche lei.
Noah,
imperterrito, suonò al citofono, ma non rispose nessuno.
Così andò
avanti fino a che la signora Graff, seccata, non rispose una seconda
volta, esordendo con uno sbuffo che non si preoccupò
minimamente di
trattenere.
«Ancora lei?»
«Precisamente. Dovrei
chiederle soltanto un favore, signora.»
Una pausa.
«Potrei venire su a vedere il vostro aspirapolvere
mannaro?»