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Autore: ballerinaclassica    13/02/2011    8 recensioni
«Non ti piacciono? Perché non ti piacciono?»
«Cosa non mi piacciono?»
«Le fidanzate.»
«Sì che mi piacciono.»
«E perché non ne hai una?»
«Non ne ho una adesso, l'ho dimenticata in metropolitana. Mi piacciono, sì. Non faccio un passo fuori casa senza portarmene dietro una.»
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Come ti chiami?»
Il giovanotto sussultò e lasciò perdere i suoi pattini. Alzò la testa e rivolse un'occhiata lunga ed eloquente alla bambina che c'era in piedi di fronte a lui e che riusciva a guardare negli occhi senza problemi, dato che stava seduto e chino in avanti.
Erano le sette di sera circa, quel momento della giornata in cui la musica nel parco veniva spenta e si sentiva soltanto il suono di qualche sassofono o di qualche chitarra degli artisti di strada che si aggiravano alla ricerca di un paio di dollari. L'aria era tranquilla, anche se il giovanotto sentiva di avere il naso gelato e ci avrebbe scommesso tutti i suoi averi sul fatto che avesse assunto anche una tonalità piuttosto rossiccia. Anche le mani erano gelate, dato che a Febbraio inoltrato lui aveva avuto la brillante idea di dimenticare i guanti sul sedile della metropolitana.
La bambina, invece, era coperta dalla testa ai piedi da un pesante poncho blu scuro, portava un cappello di lana con dei pon pon e un paio di guanti color magenta. Sembravano anche piuttosto caldi.
«Io mi chiamo Noah, e tu?»
«Io mi chiamo Miranda Wilson. Ho sette anni. Mio padre fa il nanestesista e mia madre è una psicologa. Sono nata in Connecticut ma adesso viviamo a Lexington Avenue. Come fai tu ad essere solo Noah?»
Il giovanotto recuperò i lacci del suo pattino e fece spallucce. Voleva fare un fiocco come quello che aveva appena visto ai piedi di Miranda, ma non ci riuscì, quindi si accontentò di farci un nodo doppio e poi di infilare quella parte di lacci che avanzava dentro al pattino, facendoli fermare un poco sopra alla caviglia.
«Mia madre e mio padre sono proprio lì – disse la bambina, e indicò un puntò, appena qualche metro più avanti, dove una coppia stava appoggiata al parapetto e armeggiava con una macchina fotografica – tua madre e tuo padre dove sono?»
Noah si alzò in piedi, cercando di stare in equilibrio sulla lamina dei pattini che aveva noleggiato, e per un attimo cercò pure lui i suoi genitori con lo sguardo, illudendosi di poterli trovare. Poi, però, ricordò che i suoi genitori non lo vedevano pattinare da una decina di anni, almeno, e che quindi non potevano essere lì (pure perché lui non gliel'aveva detto, che stava andando a pattinare al parco).
«Ci sono mille posti dove potrebbero essere. A casa, dal parrucchiere, a comprarsi una macchina nuova, su un aereo diretto in California. Chi lo sa.»
«I tuoi genitori ti mandano a pattinare da solo? Non sei troppo piccolo per pattinare da solo?»
«No, ho ventitré anni.»
«Ma sembri piccolo, se vuoi puoi pattinare con me, così quando i tuoi torneranno dalla Cralifonia gli dirai che non hai pattinato da solo.»
«Va bene. Si può sempre provare.»
Noah raccolse le sue scarpe e le nascose sotto la panchina, perché molte volte gli era capitato che qualcuno le scambiasse, soprattutto a quell'ora, quando cominciava a fare buio. Il problema era che, ogni volta, trovava sempre un paio di scarpe messe peggio delle sue e di un numero più piccole, così che fino a che non arrivava a casa e non se le toglieva doveva patire un gran dolore a tutte quante le dita. Non le trovava mai migliori, né leggermente più grandi, né uguali alle sue o del suo numero.
Coprì le orecchie per tenerle al caldo e porse la mano a Miranda.
«Davvero non sai dove sono?»
«Chi?»
«I tuoi genitori.»
«Ah, i miei genitori – disse Noah – no, non lo so.»
«Hai la fidanzata?»
«No.»
«Io sì, ho un fidanzato. Si chiama Thomas, ha nove anni. È uno di quarta.»
Miranda gli lasciò andare la mano e lo sorpassò, poi si poggiò con tutto il peso alla palizzata che circondava il laghetto ghiacciato e poggiò il primo pattino sulla superficie scivolosa. Noah la raggiunse poco dopo, e aspettò che fosse lei la prima.
«Allora? Come ti pare oggi il ghiaccio?»
«Oggi mi pare più scivoloso del solito. Vuoi venire a controllare?», e gli fece spazio per farlo controllare.
«Hai proprio ragione, Miranda – Noah si chinò, toccando il ghiaccio con la punta delle dita – è anche molto freddo, sai?»
Prese di nuovo le mani di Miranda, questa volta tutte e due, e mentre lui avanzava all'indietro sul ghiaccio (e pregava che qualche newyorchese in sovrappeso non lo investisse in pieno) la trascinava con sé. Aveva le gambe sottili, molto magre, più magre dei pattini bianchi. La bambina aveva uno sguardo trasognato, pieno di gioia e piuttosto che cercare i suoi genitori, guardava le mani di Noah.
«Non ti piacciono? Perché non ti piacciono?»
«Cosa non mi piacciono?»
«Le fidanzate.»
«Sì che mi piacciono.»
«E perché non ne hai una?»
«Non ne ho una adesso, l'ho dimenticata in metropolitana. Mi piacciono, sì. Non faccio un passo fuori casa senza portarmene dietro una.»
«Posso essere la tua fidanzata, se vuoi.»
«E Thomas?»
«A lui piace Emily Snell. Emily Snell dice che lui la fa sedere sempre nel posto vicino al suo, a scuola.»
«Chi?»
«Emily Snell.»
«Emily Snell ha un fidanzato?»
«No, lei sta sempre a tirare i capelli a tutti. Anche a me, una volta.»
«Non mi piacciono le fidanzate che tirano i capelli.»
«Io non te li tiro. Quindi posso essere la tua fidanzata.»
Arrivarono più o meno al centro del laghetto. Noah stringeva una delle mani di Miranda, l'altra la teneva infilata in tasca per evitare che le sua dita si congelassero. I genitori della bambina la salutarono circa tre volte durante i cinque metri che avevano percorso, e scattarono come minimo venti foto. Miranda era tutta sorrisi.
Continuarono a pattinare finché non arrivarono al lato opposto del laghetto, a quel punto la bambina lasciò andare la mano e poggiò entrambe le sue sulle ginocchia, chinandosi in avanti.
«Stavo cadendo – disse la bambina, nervosamente – hai visto?»
«Non se n'è accorto nessuno.»
«Oh, . Se ne sono accorti tutti. Adesso mi guarderanno tutti.»
«E noi faremo finta che non ci siano. Li snobberemo.»
Prese Miranda dai polsi e la sollevò leggermente da terra, fino a farle staccare i piedi di un paio di centimetri al massimo. La dondolò in avanti e poi la rimise al suo posto.
«Vuoi fare una gara?»
«Una cosa? Una gara?»
«Sì – disse la bambina, guardando la superficie del laghetto – una gara. Non sai che cos'è una gara?»
«Sì che so cos'è una gara. Ho ventitré anni.»
«Sai cos'è un aspirapolvere mannaro?»
«No.»
«Avere ventitré anni non significa sapere tutto.»
Miranda batté un piede a terra, i residui di ghiaccio che erano rimasti attaccati alla lamina del pattino caddero. Lei rimase concentrata mentre li schiacciava per benino e senza dimostrare un minimo di pietà. Poi si impegnò a scrivere qualcosa con il piede, ma si fermò quasi subito, perché non aveva le gambe abbastanza lunghe per poterci riuscire senza spostarsi dal punto in cui si trovava.
«Allora, questa gara?»
«Non voglio farla.»
«Pisciasotto. Hai paura.»
«Hai ragione, Miranda, ho più paura di quanto io sia disposto ad ammettere.»
«Non lo dirò a nessuno.»
«Cosa non dirai a nessuno?»
«Che hai più paura di una di sette anni.»
«Di che cosa avrei paura?»
«Non so – la bambina fece spallucce, poi tirò i pon pon del capello, che stava per cadere via, e si voltò – mi sembri uno che ha paura di un sacco di cose, non voglio più essere la tua fidanzata!»


Nella metropolitana c'erano sempre più turisti che newyorchesi. Gente che chiedeva di continuo informazioni, che scendeva alle fermate sbagliate o che prendeva treni che andavano da tutt'altra parte. Il giovanotto aveva capito da tempo come evitarli e come risparmiarsi di tradurre nella sua lingua le domande che gli venivano poste in un inglese spesso improbabile. Non rimaneva mai con le mani in mano. Si infilava le cuffie nelle orecchie, leggeva il giornale, si fingeva un turista pure lui. Quando il suo cellulare squillò veramente Noah aveva appena finito di mangiucchiare le unghie della mano sinistra.
«Pronto», disse, distendendo le dita ben lontane dalle sua bocca.
«Noah, tesoro, sei tu?»
«Sì, mamma.»
«Ero in pena da morire, ma perché non mi avverti mai, quando esci di casa? Mi stavo preoccupando. Dove sei adesso?»
«Sto andando a teatro», buttò giù.
«Torni per cena?»
«Non credo.»
«Stai bene?»
«Sto benissimo, mamma. Sono stato a pattinare.»
«Davvero? E con chi, tesoro?»
Il giovanotto rimase in silenzio per un po'. Analizzò con attenzione la ragazza che era seduta di fronte a lui. Aveva un cappottino di orsetto, una macchina fotografica appesa al collo. Portava degli enormi occhiali da sole in testa, a quell'ora non le sarebbero serviti a molto, e dei jeans attillati.
«Con una ragazza. Aspetta un attimo.»
Appoggiò il cellulare sulle gambe e la mano scivolò nella tasca del suo giubbotto, per prendere le sigarette. Ne accese una, senza nemmeno curarsi di chiedere se a qualcuno desse fastidio, e riprese il telefono.
«Mamma?»
«Chi è questa ragazza?»
«Una carina. L'ho conosciuta al parco.»
«Chi è? Come si chiama?»
«Miranda. Suo padre fa il nanestesista e sua madre la psicologa. È originaria del Connecticut.»
«Che lavoro fa suo padre?»
«Oh, che importa», tagliò corto il giovanotto, aspirò una boccata di fumo e accavallò le gambe. Continuava a guardare di sottecchi la ragazza seduta di fronte a lui.
«Scommetto che ti piacerebbe. Ha la bocca come un forno, non riesci a infilare una parola nemmeno di traverso. In un certo senso mi ricorda te.»
«Tesoro, stai bene?»
«Sì mamma, sto benissimo.»
«Che cosa vai a vedere, a teatro?»
Noah rimase in silenzio, a fumare la sua sigaretta. Non cambiò espressione, come se fosse abituato a dover inventare una bugia dopo l'altra fin da quando era in fasce. Scostò lo sguardo dalla ragazza e si concentrò e guardare il proprio riflesso nel finestrino, oltre la spalla di una signora con un cane microscopico chiuso nella borsetta.
«Vado a vedere – cominciò, aspirò altro fumo – Peter Pan.»
«Non sapevo dessero Peter Pan a teatro, in questa stagione.»
«Mamma, tu sai cos'è un aspirapolvere mannaro?»
«Se so cosa è cosa
«Un aspirapolvere mannaro.»
«No che non lo so!»
«Vedi, non puoi mica sapere tutto.»
«Noah, sei sicuro di star bene? Perché mi sembri-»
«Mai stato meglio. Non passa un minuto del mio tempo che io non pensi a quanto stia bene oggi», le rispose in tono seccato. Prese di nuovo il pacchetto di sigarette, mentre il mozzicone di quella che aveva appena fumato veniva brutalmente lasciato cadere per terra, all'uscita della metropolitana. Teneva il cellulare incastrato tra l'orecchio e la spalla destra, mentre con le mani cercava di far funzionare il suo accendino da due soldi.
«Maledizione», mormorò.
«Cosa? Che hai detto Noah?»
«Niente mamma, sono arrivato.»
«Dove? Dove sei arrivato, tesoro?»
«A teatro mamma, dove volevi che arrivassi? Sono davanti al teatro proprio adesso.»
«Va bene tesoro. Buona serata. Prendi un taxi al ritorno, è più sicuro.»
«D'accordo. Ciao, mamma», la salutò in tono assente.
Noah infilò il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni, salì gli scalini della metropolitana due alla volta, con una certa soddisfazione, come se salire le scale fosse, in quel momento, un'azione tremendamente piacevole. Una volta fuori, con lo sguardo cercò il cartello per Lexington Avenue e la strada da seguire. Teneva la sigaretta accesa tra il medio e l'indice. Poi prese a camminare velocemente. Non sapeva nemmeno spiegarsi perché fosse sceso proprio lì. Poteva benissimo andarsene a teatro a guardarsi la sua brava parte di spettacolo e poi raccontare a sua madre una mezza bugia, spiegando che doveva aver confuso Peter Pan con Il Barbiere di Siviglia o La Signora delle Camelie. Il guaio era che ormai era sceso.
Dopo considerevoli ricerche – circa due chilometri con quel freddo cane e una pausa ad ogni palazzo, per leggere i nomi sui citofoni – riuscì a trovare il cognome Wilson. Suonò una volta. Quando non rispose nessuno entro i primi trenta secondi, suonò una seconda volta. Era il tipo di ragazzo che non lasciava le cose a metà. Dall'apparecchio, dopo un minuto o due, arrivò una voce metallica di donna.
«Sì?»
«Buonasera signora. Miranda è tornata dal suo pattinaggio?»
«Chi?»
«Miranda. Miranda Wilson. Lei è sua madre? La psicologa?»
«Credo che lei abbia sbagliato, non c'è nessuna Miranda, qui.»
Seguì il click del citofono che veniva riattaccato e passò all'analisi del palazzo successivo. Nessun Wilson, questa volta. Così come in quello dopo.
Un isolato più in là, Noah rilesse in nome Wilson sull'elenco, ma nessuno andò a rispondergli. Per un attimo fu tentato di tornare indietro e di andare a casa. Magari poteva telefonare sua madre e dirgli direttamente che lo spettacolo era stato annullato perché a Capitan Uncino era venuto un improvviso attacco di mal di pancia. Mentre ci pensava, attraversò la strada e cercò degli altri Wilson. Magari le poteva dire che gli attori non erano poi così bravi come attori, o che il signore della fila dietro di lui aveva cominciato a russare così forte che non si sentiva nemmeno una battuta.
Wilson, dopo tre buoni quarti d'ora. Noah suonò al citofono.
«Sì?», rispose la voce, dopo meno di dieci secondi.
«Buonasera. Miranda è in casa?»
«No, i signori non sono ancora tornati. Lei chi è?»
«Sono Noah. Sono un amico di Miranda, o meglio, sono il suo fidanzato. Lei come si chiama?»
«Sono la signora delle pulizie, la signora Graff.»
«Dovrebbe dirmi il suo nome per intero.»
«E perché?»
«Non lo so. Credo che questa sia la regola, signora Graff.»
«Senta, non so che cosa voglia. Ma farebbe meglio a passare quando i Wilson saranno ritornati. Arrivederci», e riattaccò anche lei.
Noah, imperterrito, suonò al citofono, ma non rispose nessuno. Così andò avanti fino a che la signora Graff, seccata, non rispose una seconda volta, esordendo con uno sbuffo che non si preoccupò minimamente di trattenere.
«Ancora lei?»
«Precisamente. Dovrei chiederle soltanto un favore, signora.»
Una pausa.
«Potrei venire su a vedere il vostro aspirapolvere mannaro?»


   
 
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