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Autore: Phantom_Miria    16/02/2011    4 recensioni
Nemmeno nell'Istituto Psichiatrico di Radiant Garden, gli incubi smettono di prendere forma nelle tenebre. Arriveranno anche lì, davanti a te, e ti ruberanno il cuore.
A notizia finita, la giornalista picchiettò distrattamente il suo blocco di fogli sulla sua scrivania immacolata e annunciò brevemente che dall’indomani fino a tre giorni dopo, si sarebbero susseguiti una serie di violenti temporali estivi su tutta la regione
[Roxas/Sora]
Genere: Introspettivo, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kairi, Naminè, Riku, Roxas, Sora
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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The Two Princes' Club

Un tempo l’introduzione a questa fic era più lunga.

L’ho dovuta cancellare perché risalente a due estati fa HAHAHA ed era scritto con un patetico linguaggio da fanghèrl in calore (ora dovrei essermi evoluta).

Mi sento così sarcasticamente concludente. E dopo due anni che tenevo sto pezzo di fic in grembo, ricordandomi che io difatti HO un account su efp (ricordandomi dell’esistenza di efp ingenerale), ho deciso che è il caso di finirla una volta per tutte – decisione presa principalmente per l’avvicinarsi della terza prova, da cui voglio distrarmi il più possibile.

Perciò, tanto per dilungarmi inutilmente, questa fic la iniziai secoli orsono e, come molte altre fic, mai la finii. Però ora sono decisa a finirla perché non mi dispiace come stava venendo. Volevo farla oneshot ma tanto vale postare questo primo pezzo per vedere cosa ne pensa la ggiuènte nel mondo. Avviso che in futuro, quando uscirà la seconda parte, se tale seconda parte sarà anche la fine, forse le metterò insieme (‘vabbè ma chissene frega?’ Giusto) e inoltre potrebbero esserci delle modifiche a questa parte. Ma ora chissenefrega, ce ne preoccuperemo tutti insieme più tardi, ouiea.

(ah, in questo capitolo non si capisce nulla, YO)

 

Disclaimer: è davvero necessario? Voglio dire, si chiamano FANfictions, e la logica della parola stessa dice che sono fatte dai FANs, perciòòò… Vabeh, non possiedo Sora, non possiedo Roxas,  non possiedo nulla di Kingdom Hearts se non il cosplay di Sora. Se lo possedessi, l’Organizzazione XIII esisterebbe per un altro scopo e spiegherei il motivo per cui di solito si abbrevia in ‘Orgy XIII’. Possiedo, però, un account su FFnet che mi ha permesso di sviluppare, tramite la lettura di migliaia di fic, il perfetto carattere che secondo me Roxas avrebbe se la Square Enix si fosse preoccupata di approfondire un po’ il suo personaggio (prima di 358/2, a cui non ho giocato. Un po’ mi faccio schifo.)

 

Hah, ho accennato al fatto che io sfortunatamente non ho mai giocato a Kingdom Hearts, Final Fantasy e nessun gioco per playstation? *scappa* Avanti con la fic :D! MARLUSCIA!

x-x-x

Tutto iniziò con quell’incidente.

Fu strano sentire la notizia al telegiornale della sera, ascoltare la voce, tinta di preoccupazione, della giornalista, mentre annunciava con forzata calma che il volo diretto a Parigi e partito alle quattro e un quarto di quel pomeriggio era improvvisamente scomparso dai radar della stazione aerea verso le sette e dieci  mentre sorvolava il Pacifico, che si temeva fosse precipitato in acqua, e che, proprio in quel momento, si stava cercando di capire dove fosse caduto esattamente.

Fu strano avvertire la sua presa sul piatto, pieno di cibo appena cucinato, allentarsi sempre di più, e sentirsi scivolare il bicchiere tra le dita, ma non udire il suono della ceramica e del vetro che si infrangevano contro il pavimento.

Fu strano ritrovarsi per terra, coi brividi lungo la schiena, gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso sul televisore e un vago dolore alle ginocchia e solo dopo capire che le sue gambe avevano inaspettatamente ceduto sotto il suo peso, e che nella sua mente c’era spazio solo per una parola, ripetuta all’infinito, in un’unica, dolorosa litania, e sentire il suono di quella parola intorno a lui, raggiungere le sue orecchie e inghiottirlo, e poi rendersi conto che le sue labbra si stavano muovendo.

No. No. No. No. NO.

A notizia finita, la giornalista picchiettò distrattamente il suo blocco di fogli sulla sua scrivania immacolata e annunciò brevemente che dall’indomani fino a tre giorni dopo, si sarebbero susseguiti una serie di violenti temporali estivi su tutta la regione.

x-x-x

I corpi dei passeggeri non furono ritrovati.

Rimasero per sempre prigionieri di quegli abissi scuri, e nessuno seppe mai cosa era davvero successo, dato che non fu localizzato neanche l’aereo – se non per un’ala e la coda. Esistevano solo supposizioni.

“Mi dispiace molto, ragazzo,” gli avevano detto con tono rammaricato, dopo avergli riferito che, sì, i suoi genitori e sua sorella erano saliti su quel maledetto aereo quel pomeriggio e, sì, era da dar per certo che fossero tutti morti.

Morti. Morti. Morti. Morti. MORTI.

Ma non poteva essere così.

Sua mamma gli raccontava sempre dei fantastici mondi che andava a visitare durante i suoi viaggi di lavoro, delle sue eccitanti esperienze, degli esotici posti in cui era stata, e in cui un giorno sarebbe ritornata con lui e sua sorella, perché anche loro, diceva, avevano il diritto di vederli. Gliel’aveva promesso.

Era come sognare a occhi aperti; ogni sua parola si stagliava nella sua mente come una vivida immagine, tanto distinta e perfetta da sembrare reale.

Ma niente di tutto quello era reale. Non aveva visto ancora niente.

Gliel’aveva promesso.

Promesso.

Gli adulti dovevano mantenere le promesse.

Sul muro bianco davanti a lui, una mosca continuava a fluttuare, sfiorando la superficie intonacata ogni pochi secondi e rialzandosi in volo altrettanto velocemente.

“Hai dei parenti che si possano prendere cura di te?” avevano domandato a un certo punto nel flusso costante del loro discorso a senso unico. La loro voce era quasi un sospiro, come se avessero avuto paura di svegliarlo dalla sua trance silenziosa. Distolse lo sguardo dalla parete.

Sul pavimento di legno era inciso un graffio abbastanza profondo, e una macchia leggermente più scura del resto lo affiancava a pochi centimetri di distanza.

“Bene, andremo subito a chiamarli,” avevano concluso, prima di voltarsi e allontanarsi dalla loro sedia di ferro, avendo, a quanto pareva, ricevuto una risposta che non si era accorto di aver dato. Le sue mani strinsero i bordi della sedia convulsamente. Le sue nocche diventarono bianche.

Bene. Bene. Bene. Bene.

Cosa diavolo stava andando bene?

Sotto le sue dita, c’era una vite che sporgeva leggermente verso l’esterno. Era appuntita, fredda, quasi gelida, come l’aria troppo ventilata di quella stanza. Premette il dito contro il ferro affilato e il dolore pungente pulsò nella falange.

C’è qualcosa che non va’, pensò, prima che tornassero da lui per dirgli che i suoi zii stavano arrivando.

x-x-x

La sua famiglia non aveva mantenuto un buon rapporto con gli zii dopo che sua mamma si era sposata, nonostante abitassero nella stessa, piccola città. Lui non aveva mai capito perché. Si erano visti poche volte dopo la sua nascita, e non era neanche sicuro di ricordarsi bene il loro aspetto. L’unica volta che aveva tentato di scoprire qualcosa su passati avvenimenti, sua mamma era rimasta zitta per un’intera mezz’ora, prima di riprendere a sorridere come suo solito.

Non aveva mai più tirato fuori l’argomento.

Perciò, quando la sorella di sua madre si presentò nell’ufficio sempre più gelido, accompagnata dal marito, un uomo basso e robusto che indossava un cappello alla francese – ‘C’è qualcosa che non va, sul serio –, quasi non la riconobbe.

“Vieni a casa con noi ora,” la voce di sua zia era tagliente e, come il suo aspetto, non aveva niente, niente in comune con quella di sua mamma.

E fu quella stessa notte, dopo essere arrivati nella sua nuova casa, che realizzò cosa non andava.

Mentre si infilava sotto il letto nella stanza degli ospiti, spalancò gli occhi e si irrigidì. Balzò sul pavimento e cominciò a tastare i suoi vestiti, sparsi per terra, e quando trovò il cellulare, lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e lo aprì febbrilmente.

L’immagine di una stilizzata paperella bianca gli sorrideva deridente dal piccolo schermo e gli illuminava fiocamente il viso nella semioscurità della stanza.

“Non hanno chiamato,” aggrottò le sopracciglia. Compose rapidamente un numero, per poi schiacciare il tasto ‘chiama’. Subito, dall’altra parte della linea, la monotona voce registrata della segreteria telefonica gli comunicò che il telefono della persona chiamata era spento o irraggiungibile.

“Non sono ancora arrivati?” si domandò perplesso.

Non sapendo che altro fare nell’attesa di ricevere notizie, si infilò nel letto, e si tirò le coperte fin sotto il mento.

“Dove sono mamma e papà?”

x-x-x

Quando i suoi parenti gli chiesero, con tono leggermente scocciato, se voleva provare a rivolgersi a uno psicologo, lui rise e rispose: “Per cosa?”

Avrebbero dovuto capirlo.

x-x-x

La prima volta, capitò al mare.

La casa della zia distava pochi chilometri dalla spiaggia.

Lui si era alzato dal suo asciugamano steso sulla sabbia, ed era entrato in acqua con insolita calma, un passo alla volta, lo sguardo fisso sulla linea dell’orizzonte. Si era immerso fino al collo, dopodiché avevo messo sotto anche la testa, tenendo chiusi gli occhi.

E una volta riaperti in acqua, ignorando il dolore pungente, i suoi profondi occhi blu si erano illuminati, e un sorriso si era schiuso sulle sue labbra.

Ed era rimasto immerso. Ancora. Ancora. Ancora. E ancora.

Quando riprese i sensi, si accorse di essere disteso sulla sabbia bollente, e da sopra di lui parecchie paia di occhi lo fissavano, preoccupati, attoniti, infuriati.

E quando sentì due larghe mani sul suo petto, realizzò di non poter respirare. Cominciando a tossire violentemente, cercò di girarsi, ma non ce l’avrebbe fatta se due braccia forti non l’avessero aiutato e sostenuto. Con la testa ora verso il basso, prese a vomitare e sputare acqua su acqua, così tanta che si chiese se non avesse bevuto l’intero oceano, il gusto di salsedine che gli bruciava la gola e i polmoni.

Venne bruscamente tirato su, la sua vista offuscandosi per un attimo, per ritrovarsi faccia a faccia con sua zia.

“Cosa diavolo stavi tentando di fare?!” le parole uscirono da quella bocca ad un volume troppo alto, gli rimbombarono nella testa per qualche secondo, mentre con sguardo vacuo osservava gli occhi castani che sembravano esprimere solo disprezzo. E constatava, per l’ennesima volta, che, no, quella donna non assomigliava in niente a sua madre.

Intorno a lui, gli sembrò vagamente di sentire qualcuno rimproverare la zia ferocemente, ma non riusciva a seguire il discorso.

L-Lei… mi ha detto che… potevo respirare…” la sua voce era rauca, e la gola bruciava più che mai, mentre i polmoni si rifiutavano di funzionare correttamente, e il suo respiro usciva in rantoli affannati.

Gli occhi castani si spalancarono, mentre la bocca si muoveva di nuovo, le labbra tremanti, ma questa volta lui non udì alcun suono, e continuò a parlare.

“Potevo respirare sott’acqua come lei, la sirena dai capelli rossi… Io potevo, io stavo respirando…

L’ultima cosa che vide prima di svenire fu l’espressione terrorizzata di sua zia.

x-x-x

Per settimane, i parenti ignorarono ogni cosa che succedeva proprio davanti ai loro occhi, in casa loro.

Non parlarono mai dell’incidente, e di quello che era successo dopo. Non parlarono mai di nulla. Ignorarono l’evidenza con tutte le loro forze.

D’altronde lui l’aveva sempre detto che zia e madre non avevano niente in comune.

x-x-x

La seconda volta, capitò a casa.

Era seduto sulla sedia girevole davanti alla scrivania, in camera, a riempire con furia le pagine del suo diario di inchiostro e parole. E, all’improvviso, aveva sollevato la testa, lasciandosi scivolare la penna dalle dita. Aveva guardato verso la finestra, la luce del pomeriggio che passava da uno spiraglio tra le tende tirate. Si era alzato, tenendo gli occhi fissi su quel sottile raggio di sole che illuminava una piccola frazione del tappeto. Aveva allungato le mani, e spinto con incertezza le tende a lato del vetro.

Il sole, alto nel cielo, riscaldava piacevolmente la pelle delle sue guance e si rifletteva in occhi blu oceano, davanti a cui ricadevano alcune ciocche di disordinati capelli color cioccolato. Aveva aggrottato la fronte, e scrutato all’esterno, prima di mettere la mano sulla maniglia e tirarla verso il basso. La finestra si era spalancata. E lui aveva sorriso di nuovo, con l’espressione eccitata di un bambino che la mattina di Natale scopre sotto l’albero una marea di regali indirizzati solo a lui.

Aveva messo un piede sul davanzale, aggrappandosi agli stipiti per tenersi su, e al primo piede era seguito il secondo, finché, con un ultimo sorriso e un sospiro, aveva steso le gambe e si era lanciato in avanti.

x-x-x

All’ospedale dissero che se fosse caduto da un punto più alto della finestra della sua stanza, collocata al primo piano della casa, sarebbe quasi sicuramente morto.

Sua zia questa volta non chiese nulla; furono i dottori a farlo, mentre controllavano la gamba e il braccio appena ingessati.

“Lei mi ha rivelato che il segreto per volare è crederci veramente,” rispose sorridendo, il volto illuminato da una gioia mal repressa, “E ho volato! Avete, visto, no? Ho volato!”

I dottori lo guardarono stupefatti, poi preoccupati, ansiosi, e infine uscirono dalla sua stanza, rimanendo nel corridoio del reparto per discutere, e invitando i suoi tutori ad unirsi.

Per tutto il tempo, la zia aveva tenuto nascosti i suoi occhi con la mano guantata di nero, come se si fosse vergognata anche solo a guardarlo.

x-x-x

I dottori avevano alla fine deciso di non considerarlo un tentato suicidio, ma chiesero alla zia di contattare uno psicologo, per essere sicuri che un incidente del genere non capitasse ancora una volta – calcarono la parola ‘incidente’ in modo fastidioso.

“Non parla, non si vuole far aiutare. Posso fare solo supposizioni. Rifiuta di tentare il trattamento con l’ipnosi,” confessò lo psicologo dopo le prime sedute tenute in ospedale. “Ma posso dire con certezza che questo problema non è appena nato, ed è fondato credere che la sua comparsa risalga persino alle settimane consecutive all’incidente in cui, mi avete detto, è stata coinvolta la sua famiglia. Mi stupisce che non abbiate preso provvedimenti prima di ora…”

Sua zia fece una smorfia di disgusto, ma rimase zitta.

“L’unica cosa che si è lasciato sfuggire,” continuò l’esperto, “è che ha promesso di ‘tenere la bocca chiusa’, poiché questo mondo non deve venire a sapere dell’esistenza degli altri.”

x-x-x

La zia iniziò a raccogliere informazioni dai suoi amici. Una mattina, gli chiese l’elenco telefonico di classe.

Dall’umore che aveva quando, alla fine della giornata, smise di fare telefonate a tutti i compagni, o almeno a quelli che non erano già partiti per le vacanze estive, era certo che non apprezzava quello che aveva scoperto. O che non aveva scoperto. O che le conversazioni avevano confermato. Parlò a lungo con suo marito, quella sera, e lui, da dietro la porta semichiusa alla base delle scale, ascoltò ogni parola.

“Nessuno sa ancora dei suoi genitori, dato che è successo più di due settimane dopo la fine della scuola. Svariati immagino siano già partiti, dato che non rispondono; quelli che sono ancora in città, mi han detto che l’hanno chiamato spesso al cellulare per invitarlo ad uscire con loro, ma lui ha accettato solo le prime due volte, e a quanto pare non ha fatto parola dell’incidente. Hanno detto che quando era con loro era sempre allegro e vivace come suo solito, anche se… ogni tanto sembrava parlare da solo. Ma dopo quelle due volte, non sono più riusciti a contattarlo, il suo cellulare era spento e a casa non rispondeva nessuno.”

“Non si sono insospettiti di nulla?” chiese lo zio.

“Ovvio che sì,” sospirò la donna. “Erano preoccupati, probabilmente non sapevano neanche che avesse una zia qui in città. Alla fine hanno cominciato a chiedermi se gli è successo qualcosa, e se sta bene. Io ho risposto di sì, che non è a casa sua perché i suoi genitori sono dovuti andare in Europa per qualche tempo con Selphie. Non ho dovuto dire altro, credo abbiano dedotto il perché da soli. Se non l’ha detta lui la verità, non capisco perché dovrei dirla io. Hanno chiesto il nostro indirizzo, ma non gliel’ho dato… Vada lui da loro,” finì con stizza.

Lo zio si grattò il mento con espressione pensosa: “Questo quindi non risponde alla nostra domanda, allora: cosa va a fare in giro quando dice di uscire con i suoi amici?”

Sua zia cominciò a stringersi le dita di una mano con quelle dell’altra, mentre si mordeva il labbro inferiore in un gesto di ansia: “Io… non lo so. Però oggi ho incontrato la nostra vicina, che lavora alla gelateria e sa perché il ragazzo si è trasferito qui. Mi ha chiesto come sta, e se avesse dei problemi. Io le ho domandato cosa diavolo intendeva, e mi ha raccontato…” lasciò la frase in sospeso, stringendo e allentando convulsamente i pugni. Suo maritò la incitò con un’occhiata eloquente.

“Mi ha raccontato che l’altro giorno, lui è andato a comprare un ghiacciolo e, una volta uscito, si è seduto su una panchina isolata ai lati del parco. Ma da dov’era, lei poteva vedere chiaramente che il ragazzo, per tutto il tempo, ha parlato, riso e scherzato da solo.”

Il silenzio riempì la sala da pranzo, per qualche minuto, durante il quale suo zio aggrottò la fronte e guardò minacciosamente verso il soffitto, nella direzione della sua camera da letto, e la zia spostò lo sguardo un po’ dovunque per la stanza, non soffermandosi mai su niente, rendendosi conto che, se si fosse fermata e avesse accettato quello che era appena uscito dalla sua bocca, sarebbe scoppiata a piangere.

“E io e te sappiamo che non è la prima volta che questo accade,” concluse, con voce tremante.

E in pochi secondi, la zia era lì che piangeva e singhiozzava disperatamente, e lo zio aveva fatto il giro del tavolo in un attimo per andare ad abbracciarla e confortarla.

“Io non so cosa fare, quel ragazzo è pazzo, pazzo! Cosa devo fare, non lo voglio in casa mia, non lo voglio!” La donna stava quasi urlando, tra le braccia di suo marito, i palmi delle mani contro il suo petto, “Non voglio, non voglio! Dannati, siano tutti dannati loro!”, lacrime scivolavano lungo le sue guance arrossate e andavano a bagnare la camicia dell’uomo.

Lui levò lo sguardo dalla fessura, risalì le scale silenziosamente e tornò in camera sua, richiudendo la porta dietro di sé.

Nel buio della notte, senza alcuna luce a fargli compagnia, sorrise soddisfatto e alzò la mano in segno di saluto: “Ehi.”

x-x-x

“Spiegandolo in modo riassuntivo, il ragazzo ha frequenti allucinazioni, visive e uditive, se non anche di altro genere. A quanto sappiamo, sembra in grado di vedere mondi meravigliosi e interagire con le persone che vi trova, parlare con loro e farsi condizionare. Direi che con queste… sue visioni, ha un buon rapporto – intendo dire, non si tratta assolutamente di incubi, anzi, al contrario, di cose così piacevoli che, come abbiamo visto negli ultimi tempi, lui preferisce e colloca al di sopra di amici e famiglia. Posso dire con sicurezza che, mentre ha queste allucinazioni, lui crede di essere felice. E non si tratta di una vera e propria malattia mentale come temevate, bensì di un problema psicologico nato in conseguenza alla morte dei suoi familiari. Quando, in una delle sedute, gli chiesi di parlarmi di sua madre, lui non ebbe la classica reazione che ci si aspetterebbe da un bambino che l’ha persa meno di tre mesi prima: si è lanciato eccitatissimo e con tono adorante in una spiegazione sulla bellezza caratteriale di sua madre. Mi ha parlato del fatto che ella usava narrare storie di posti stupendi visitati in giro per il mondo.”

“Nonostante nelle ultime sedute abbiamo acquisito più confidenza, è ancora evidente la sua riluttanza nel parlarmi a fondo della situazione che ora sta vivendo e che lui stesso sa essere ‘nuova’ e per certi versi problematica. Per ora ho potuto elaborare solo alcune ipotesi, che ci terrei ad esporvi.”

x-x-x

La terza volta, in realtà non avvenne.

Sarebbe avvenuta, se non fosse stato per il tempestivo intervento dei suoi due migliori amici.

Quella sera era particolarmente afosa, sia lui che gli altri due indossavano canottiere e pantaloncini, e tutti tenevano in una mano il loro skateboard e nell’altra un ghiacciolo azzurro cielo.

“Ah, finalmente ti sei deciso a uscire con noi! Non ci avevi detto che ti eri rotto una gamba e un braccio!” rise il ragazzo dai capelli biondo sabbia, sedendosi sulla panchina e dando una leccata al ghiacciolo, che già si scioglieva a causa del caldo. “Non ci hai neanche raccontato come è successo! Voglio dire, se non ti avessimo incontrato oggi per caso mentre passavamo per il parco, non avremmo saputo di te fino alla fine delle vacanze! Perché non accendi più il cellulare?” chiese, mettendo il broncio e mostrandosi offeso.

Il ragazzo dai capelli color cioccolato rise, e si grattò la nuca imbarazzato: “Ah, mi sa che l’ho perso… Comunque non ho fatto molto quest’estate, non sono andato da nessuna parte dato che sto con mia zia e, ecco, lei non è il tipo da fare vacanze altrove quando c’è il mare così vicino… Inoltre, non credo che abbia intenzione di spendere per me più del minimo necessario.”

Hah, tua mamma ti ucciderà per la storia del cellulare,” scherzò l’amico coi capelli arancioni, anche lui lasciandosi cadere sulla stessa panchina, “…Comunque è vero, tua zia mi sa un po’ di arpia, lo sai? Una volta mi ha telefonato, e non è stata molto amichevole. E poi, da come ne parli… A proposito, quando tornano i tuoi?”

Lui sospirò, sorridendo malinconicamente e alzando gli occhi al cielo, dove la luna piena si stagliava con limpida chiarezza sullo scuro manto stellato: “Non so,” leccò la punta del suo ghiacciolo, “Li sto ancora cercando.”

Entrambi gli amici si scambiarono un’occhiata perplessa.

Un attimo prima che chiedessero spiegazioni, però, si bloccarono, notando le strane azioni dell’altro ragazzo.

Era in piedi, davanti a loro, con un’espressione tra l’incuriosito e il disgustato dipinta sul volto giovane, e una mano alzata davanti ai suoi occhi, con il palmo aperto in direzione della luna, che inondava di luce argentea i disordinati capelli scuri.

Il ghiacciolo nell’altra mano scivolò a terra senza alcun rumore.

Mosse le dita, una dopo l’altra , lentamente, davanti alla sua faccia, e due iridi blu intenso seguivano ogni loro movimento, come affascinate. Alzò anche l’altra mano, e fece la stessa cosa, dimenticando completamente la presenza dei due amici al suo fianco. Piano, i suoi occhi si abbassarono, seguendo la sagoma delle sue stesse braccia, superando i gomiti, e puntandosi finalmente sul suo petto.

I suoi occhi si spalancarono in stupore, e un sorriso malsano, di felicità e spavento allo stesso tempo, si allargò sul suo viso.

I suoi amici non sentirono il suo debole sussurro, e lui non udì il loro tono preoccupato quando chiesero: “Ehi, stai bene?”

Ma lui non rispose: portò rapidamente una mano nella larga tasca laterale dei pantaloni, e dopo pochi secondi la estrasse, impugnando un coltellino svizzero, che scattò aperto. I ragazzi vicino a lui sgranarono gli occhi terrorizzati.

“Allora proviamo,” rise lui, divertito, puntando il coltellino verso il cuore.

 E mentre l’oggetto, la cui lama luccicava sinistra sotto la luna, scendeva e si avvicinava sempre di più al suo petto, due mani fermarono all’improvviso le sue braccia e un altro paio lo strinsero da dietro, bloccando i suoi movimenti.

“Cosa state facendo?!” ruggì con rabbia, dimenandosi per liberarsi dalla presa ferrea, “Lasciatemi! Lasciatemi!”

“Cosa cazzo stai facendo tu, idiota!” urlò il biondo, che ancora tentava di strappargli l’arma dalle mani. “Ti stavi per ammazzare! Che diavolo volevi ottenere?! ‘Proviamo’?! Sei pazzo?!”

“Non mi stavo ammazzando, io non posso morire, imbecille!” continuò a scalciare, a divincolarsi, a riavere il controllo del suo coltello. “Non vedevi?! Io non posso morire di notte, sono uno scheletro! Sono maledetto! Non posso! LASCIAMI! Lui mi ha detto che è la nostra maledizione!”

E allora si accorse delle facce sconvolte dei due amici disperati che lo tenevano fermo e che tentavano di tirare fuori i cellulari per chiamare aiuto.

x-x-x

“Io temo, signora… che il ragazzo abbia subito un tale trauma che la sua mente ha cancellato il ricordo della morte dei suoi parenti.”

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Lo psicologo gli prescrisse dei medicinali.

“È per farti stare calmo, ragazzo,” gli fu spiegato.

Nei giorni seguenti si sentì particolarmente vuoto e privo di energie.

All’ospedale i suoi amici avevano scoperto dove viveva, insieme ad altre cose.

“Ci dispiace per i tuoi, noi… non lo sapevamo,” mormorò il biondo, con la testa china verso il basso.

Occhi blu oceano scrutarono le due persone sedute sul letto: “Cosa?”

Il biondo alzò la testa, lo sguardo triste: “Lo sai... Non…  Non so cosa dire, se hai… bisogno di qualcuno, noi siamo qui per—”

“Andate via,” sussurrò, abbassando lo sguardo e fissando il suo tappeto come se meritasse la sua piena attenzione.

…eh?” entrambi i ragazzi lo guardarono ansiosi.

“Andate via. Andate via. Andate via. Andate via,” ripeté più volte con maggior forza.

Il biondo aprì e chiuse la bocca, senza emettere alcun suono, indeciso su cosa dire: “Ehi, noi volevamo solo—”

“Andate. Via.”

I due gli lanciarono un’ultima occhiata preoccupata, prima di alzarsi e uscire silenziosamente dalla stanza. Il ragazzo si alzò dalla sua sedia vicino alla scrivania, e si lasciò cadere pesantemente sul letto, la schiena contro il materasso.

Lentamente, sorrise. Alzò una mano verso il soffitto e allargò le dita: “Ah, alla fine siamo davvero rimasti solo io e voi a cercarli,” ridacchiò.

Ma sentì subito un’inusuale stanchezza invaderlo per l’ennesima volta, e fu costretto ad abbassare il braccio. Rimase in quella posizione per parecchio tempo, e il suo sorriso cominciò a scivolare via, sostituito da una smorfia di paura.

Nella solitudine della sua stanza, i sogni si tramutarono lentamente in incubi.

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“È come se il fatto di non essere riuscito a compiere la dimostrazione di ciò che le sue allucinazioni gli assicuravano, a differenza dei successi delle altre volte, l’avesse ulteriormente tramortito. E sembra non abbia più certezze, gli stessi mondi che vedeva prima, ora più spesso gli appaiono come reali minacce. Probabilmente, allo sblocco di questa fase del suo problema, ha contribuito la presenza all’evento dei due amici, inizialmente all’oscuro di tutto. Ora come ora si trova in uno stato di totale vulnerabilità psicologica. Da quello che mi hanno riferito i ragazzi, sembra non solo convinto che i suoi genitori siano ancora vivi, ma anche che si trovino in qualche… mondo esotico e fantastico, che lui sta disperatamente cercando. Ma allo stesso tempo, l’inconscio, a differenza del suo attuale stato mentale, è consapevole della morte dei genitori; perciò, su quel livello, credo stia sfruttando questa ricerca come ‘scusa’ per raggiungerli… In parole povere, il desiderio che inconsapevolmente nutre nel suo cuore è quello di morire.”

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C’era una mela rossa davanti al suo piatto, sul tavolo da pranzo.

La cena era stata trascorsa in silenzio, come ogni singola cena, se non per i piccoli dialoghi tra la zia e lo zio. Stava canticchiando a bassa voce, con un sorriso stampato in faccia, quando sua zia era tornata dalla cucina con il vassoio di frutta. Arrivata la frutta, era arrivata anche quella mela.

Cominciò a urlare.

“Cosa diavolo ti prende?!” strillò sua zia, tenendosi ancora una mano al cuore per lo spavento, “Smettila, ragazzo! Smettila, ora!”

Si coprì le orecchie. Lo zio si precipitò dal suo posto fino a dietro di lui in pochi secondi, prendendogli il braccio e strattonandolo giù dalla sua sedia.

“È avvelenata! È avvelenata! Non mangiarla, zia!” urlò disperato, tendendo un braccio verso la donna, mentre l’altro veniva tirato verso le scale.

“Non dire idiozie! Smettila di gridare, i vicini ti sentiranno!” ribatté violentemente l’uomo, dietro di lui, prima di voltarsi brevemente verso sua moglie, “Gli hai dato le medicine oggi?!”

“Non sto scherzando, quella mela è avvelenata, lo giuro! Lei l’ha creata apposta!” continuò, non dando il tempo di rispondere, mentre lacrime minacciavano di scendere dagli occhi. “Zia, ti prego!” scongiurò.

Sorprendentemente, alla base delle scale, riuscì a liberarsi per un attimo dalla presa dello zio, e sfruttò il momento per scattare in avanti verso il tavolo, afferrare la mela, e lanciarla verso la finestra del soggiorno.

La finestra si infranse con un rumore assordante, e migliaia di frammenti di vetro, taglienti come lame di spada, precipitarono a terra uno dopo l’altro, alcuni sul tappeto e altri sull’aiuola sottostante. Smise di gridare, e cominciò ad ansimare per la fatica. Non fece in tempo a realizzare che, sì, dannazione!, era riuscito a liberarsi di quella mela, quando sentì un dolore bruciante alla guancia. E finalmente le prime lacrime caddero.

“Non ti azzardare. Mai più. A fare una cosa del genere. Ne ho abbastanza di te e dei tuoi giochetti da moccioso, è chiaro?” sua zia era davanti a lui, con la mano ancora alzata, e stava piangendo, se dallo spavento o dalla rabbia non l’avrebbe saputo dire. Le sue labbra era chiuse in una linea sottilissima, e i suoi occhi castani ardevano come braci, colmi di odio.

Dopodiché, lui venne trascinato finalmente in camera sua. Lasciando la luce spenta e ignorando deliberatamente il letto, si rannicchiò in un angolo, si portò le ginocchia al petto e stette lì, tutta la notte, tremando.

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Quella non era stata la prima volta, e di certo non fu l’ultima.

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“Ci stiamo trasferendo,” annunciò secca la zia, “Tuo zio ha ricevuto un’offerta di lavoro, e l’ha accettata. Partiremo tra qualche settimana.”

Lui non rispose, non diede alcun segno di aver sentito, e proseguì la sua colazione.

E… ho trovato un posto, cercando su Internet. Nella città in cui ci trasferiamo c’è un centro psicologico, dove accettano persone con problemi psicologici gravi. Se verrai accettato, cosa che accadrà con una visita e la richiesta del tuo attuale psicologo, l’anno prossimo non andrai a scuola. Starai nel centro, pagheremo per un anno intero. Vedi di sfruttare l’occasione per mettere la testa a posto.”

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“Sora Hikari,” lesse la dottoressa sul primo foglio del fascicolo che teneva in mano.

Aerith Gainsborough era una donna bella, elegante, raffinata. Aveva i capelli lunghi e castani, una pelle liscissima e degli occhi verde smeraldo che riflettevano un’immensa gentilezza. Sedeva composta sulla sua sedia dietro la scrivania, e sorseggiava ogni tanto del caffè bollente da una tazza di ceramica bianco perla. Ne aveva offerto anche ai due adulti che accompagnavano il ragazzo, che avevano rifiutato scuotendo la testa con fare stizzito.

“Allora, vi siete appena trasferiti, a quanto ho capito,” continuò Aerith. “Com’è la tua prima impressione di Radiant Garden, Sora? Ti piace?”

Sora scrollò le spalle: “Non so proprio, non mi hanno quasi dato il tempo di vedere la nuova casa.”

La dottoressa si passò un dito affusolato lungo il mento, non distogliendo lo sguardo da lui, ma lasciandosi sfuggire una lieve smorfia: “Capisco. I tuoi zii mi hanno brevemente parlato di te,e ho già ricevuto informazioni dallo psicologo da cui andavi. L’idea di stare qua ti spaventa?”

“Può venire a partire da questa stessa sera?” li interruppe bruscamente la zia.

La dottoressa le lanciò un’occhiata stupita, ma si ricompose, sollevando ancora una volta la tazza di caffè: “Ma certo, non ci sono problemi… Sora, potresti andare un attimo di là e sederti su uno dei divanetti e aspettare qualche minuto? Voglio scambiare un’ultima parola con i tuoi zii.”

Il ragazzo si alzò senza dire una parola, si voltò e uscì dallo studio, richiudendo la porta dietro di sé. I divani della saletta d’attesa erano piccoli, ma comodi, ricoperti in morbida pelle rossa.

Qualche minuto dopo, la porta si riaprì, e ne uscirono tutti e tre gli adulti, prima gli zii, e in seguito la dottoressa, che aveva stampata sulla faccia un’espressione palesemente insoddisfatta.

Su zia si rimise sulla spalla la borsetta, e con movimenti bruschi si riaggiustò lo scialle intorno al collo. Dopodiché si voltò verso di lui, degnandolo di uno sguardo indecifrabile.

“Sora, noi andiamo. Comportati bene. Non fare nulla che possa spaventare la gente. Ci vediamo tra… qualche settimana.”

Detto ciò, prese la mano di suo marito, e si incamminò verso l’uscita.

Sora sentì una mano posarsi sulla sua spalla, un tocco gentile e una stretta incoraggiante. La dottoressa era in piedi accanto a lui, che gli sorrideva, tendendogli l’altra mano e invitandolo ad alzarsi.

Ella camminava per i lunghi corridoi dai muri appena imbiancati con lentezza, i suoi tacchi ticchettavano sul pavimento freddo di piastrelle, ma era un suono rilassante, cadenzato. L’odore di vernice invadeva le narici, e la mano pallida era ancora stretta alla sua. Il camice bianco svolazzava dietro di lei, la treccia di lunghi capelli castani oscillava delicatamente tra una scapola e l’altra.

“Mi dispiace per l’odore,” disse lanciando un’occhiata apologetica verso di lui, “Spero non ti dia troppo fastidio, hanno finito di riverniciarli proprio ieri.”

“Non è un problema.”

La dottoressa Gainsborough sorrise leggermente, dopodiché si fermò davanti a una porta, liscia e anonima, dotata di una finestrella che mostrava un spicchio d’interno e di un numero, ‘14’, affisso ad  essa in sottili ed eleganti caratteri argentati.

“Dato che immagino tu sia stanco, inizieremo domani pomeriggio con le nostre attività, d’accordo?” chiese gentilmente. “Quindi, questa è la tua stanza, i tuoi bagagli sono già dentro. Domani ti porteranno a fare un giro del Centro e a conoscere alcuni altri ragazzi che sono qui e hanno più o meno la tua stessa età.”

Frugò in una tasca del camice, e tirò fuori una chiave d’argento. La infilò nella serratura, la quale scattò aperta dopo un unico giro. La porta si aprì sotto la spinta della mano sulla maniglia, mostrando l’interno della camera. La dottoressa si spostò di lato per lasciarlo entrare: “La sveglia è alle 8.00, la colazione alle 9.00. Verrà una ragazza ad aiutarti a trovare la strada quindi non preoccuparti. Ora puoi fare quello che vuoi, andare a letto subito o iniziare a disfare le valigie, alle 23.00 qualcuno arriverà a controllare che sia tutto a posto, d’accordo?”

Annuì velocemente. La dottoressa si appoggiò allo stipite della porta con la schiena, incrociando le braccia sul petto. Il suo perenne sorriso gentile si fece improvvisamente più triste, ma scomparve subito sostituito da una serenità forzata: “Sora… non ci conosciamo ancora, e tu sei appena arrivato, ma voglio che tu sappia che andrà tutto bene. Non preoccuparti ora, qui staremo sempre con te, se mai avessi bisogno di qualcosa, vieni a cercarci senza esitazioni.”

Sora annuì con poca convinzione. La dottoressa sorrise ancora una volta, e se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.

Le pareti della stanza erano bianche, e il pavimento era ricoperto di piastrelle bianche e alcuni tappeti dalle trame semplici. Una libreria e un armadio erano collocati lungo il muro, mentre un comodino fiancheggiava un lato del letto. Camminò verso il letto, lasciandosi cadere sulle coperte. L’unica finestra della stanza era posta in alto, e da essa si intravedevano folte chiome verdi.

Quella notte, gli incubi oscurarono ogni luce nella stanza.

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Sora pensava che non ci fosse nulla di più inquietante e, contemporaneamente, affascinante della Sala Comune.

Dopo il breve giro turistico per il Centro, intrapreso in compagnia di una vivace e saltellante ragazza giapponese dai corti capelli corvini e il fisico agile e snello, – “Versione Corta della presentazione del Centro che devo fare ai nuovi arrivati. Se vuoi, puoi sempre partecipare alle segretissime spedizioni esplorative che organizzo con altri ragazzi, effettuabili ad ogni ora del giorno e della notte. Quando senti il bisogno, chiamami! Ma non dirlo ad Aerith. Comunque…  Sora aveva scoperto che l’edificio non era poi così complicato come sembrava dall’esterno. Vi era un’ala completamente occupata da corridoi e porte numerate – “Qui ci sono tutte le stanze, e all’inizio di ogni corridoio c’è un tabellone con segnati i nomi corrispondenti a ogni camera. Tu sei nella stanza 14, nel corridoio dei giovani” –, un’altra che la Ragazza Saltellante aveva definito l’‘Area Dottori’ – “Area poco interessante. Non vale neanche la pena di esplorarla. E c’è sempre odore di disinfettante. Lascia perdere, ci sono posti migliori. Tipo la mensa!” –, la mensa in questione, - “Se riesci, cerca di beccare come inserviente la donna grassottella: dà porzioni di cibo più abbondanti” – e, tralasciando il cortile all’esterno, c’era infine la Sala Comune.

Era una vasta sala prevalentemente bianca, con tavoli rettangolari, sedie e divani sparsi qua e là, persino un tavolo da pingpong e una televisione piuttosto grande fissata in alto nell’angolo tra due pareti, con un divano a cinque posti rivolto verso questa.

Ma non era la l’arredamento della stanza che la rendeva interessante, quanto le persone che l’abitavano.

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Riku Honda, diciassette anni, era un ragazzo che Tidus e Wakka avrebbero definito, con la loro tipica finezza, ‘schifosamente perfetto’. O almeno, se incontratisi in un contesto differente.

Aveva capelli argentei che gli sfioravano le spalle, e due occhi affusolati di un luminoso verde acqua, tanto belli e rari da togliere il fiato. Come se non bastasse, aveva anche un fisico apparentemente perfetto: sufficientemente alto, snello, muscoli scolpiti. Sora sospettava fortemente di un suo passato da modello.

Passava la maggior parte del tempo in cortile, soprattutto sul campo da basket, dove partecipava anche a dieci partite consecutive e, se non soddisfatto, si arrangiava giocando da solo. Si muoveva con un’agilità sconvolgente, ogni sua azione era secca, studiata, mai eccessiva, perfetta. La squadra in cui lui si trovava vinceva inevitabilmente.

Lui e il suo ghigno erano assolutamente inseparabili, una cosa sola. Ma la sua manifestazione di aperta superiorità, Sora notò con piacere, si limitava a quel sorriso malizioso.

Durante il periodo mensa, Sora cominciò a chiedersi se Riku non si trovasse lì per sbaglio. Era forse stato incastrato nel Centro da un complotto contro di lui, ordito da gente invidiosa della sua perfezione? Era un attore in incognito che stava studiando il comportamento dei pazzi per calarsi al meglio nel ruolo richiestogli? Era—

Un vassoio di plastica volò al di sopra di alcuni tavoli, atterrando con un rumore assordante nell’improvviso silenzio calato sull’intera sala, rotto solo dalle urla selvagge di qualcuno.

Sora voltò la testa verso la fonte del rumore, come d’altronde fecero tutti i presenti.

Vicino a una ragazza dai capelli rossi dallo sguardo spento, Riku Honda era in piedi sul tavolo della mensa, la faccia livida, lo sguardo traboccante d’odio, i muscoli tesi come quelli di una bestia in posizione di attacco, con una mano occupata a tenere sollevato per il bavero un paziente e con l’altra, stretta a pugno, pronta a sferrare un destro mortale.

Mentre due giovani infermieri, alti e, se possibile, più muscolosi del ragazzo dai capelli argentei, si facevano largo nel trambusto appena scoppiato e si fiondavano addosso all’aggressore, Sora realizzò, con un certo sollievo, che la perfezione non esisteva.

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Kairi Utada, quattordici anni, era una ragazzina dall’aspetto dolce, dalla corporatura esile e lisci capelli color mogano che contornavano, in un taglio corto, il viso dai tratti delicati. Aveva grandi occhi espressivi, dall’iride castana sfumata di un particolare viola ametista. Quando Sora la incontrò per la prima volta quella mattina, di primo impatto le sembrò una ragazza normale. Non perfetta, come Riku, ma semplicemente normale. ‘Normale’ andava ancora bene.

Camminava per la Sala Comune con un pigro sorriso steso sulle labbra, si avvicinava con disinvoltura agli altri pazienti e parlava loro con una naturalezza sorprendente, riuscendo occasionalmente a strappare una risatina. Se non fosse stato per l’età, il ragazzo l’avrebbe facilmente scambiata per un’infermiera.

Amava il cielo. Era chiaro, da come, seduta sulla panchina di legno a bordo campo da basket, con i piedi dondolanti e la testa leggermente reclinata verso l’alto, lasciava i suoi occhi socchiusi vagare per quell’immensità azzurra che si stendeva infinita sopra di lei, e lo stesso sorriso di prima tornava, splendente, a segnare la sua espressione.

Lei e Riku erano amici. Dovunque lui fosse, poco distante, vi era sicuramente anche Kairi. Era affascinante il loro modo di vivere in dipendenza l’uno dall’altro: un momento si trovavano nella stessa stanza, a fare cose completamente diverse, un attimo dopo uno si alzava e si spostava, e l’altro, quasi immediatamente, interrompeva qualsiasi cosa di cui si stesse occupando per seguirlo con estrema scioltezza. E nonostante questo, Sora non li aveva visti scambiarsi una sola parola.

A questo punto era naturale chiedersi quale fosse il grave difetto di Kairi che minacciava la sua facciata di ragazza normale.

La risposta arrivò nell’istante in cui quel maledetto vassoio di plastica volò nella Sala Mensa e atterrò sul candido pavimento freddo, mentre contemporaneamente le urla di Riku si levavano dal tavolo vicino al suo e altre, femminili, da un punto più lontano.

Immobile come una statua, di fianco al ragazzo non più perfetto, Kairi Utada sembrava completamente imperturbata da ciò che la circondava, dalle grida e dai rumori: i suoi occhi viola erano spenti, vitrei, e puntavano uno sguardo vuoto dritto davanti a loro. Il viso non mostrava la minima espressività, e le labbra, dapprima piegate in quel piacevole sorriso, erano ora semiaperte e mute.

Rimase in quello stato anche mentre gli infermieri intervenivano per portare via Riku, e la stessa ragazza che l’aveva portato a fare il giro del Centro accorreva sul posto, comparendo dal nulla e spingendo Kairi con gentilezza fuori dalla sala.

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Namine Duane, quattordici anni, ricordava un angelo.

Aveva un suo spazio personale nella Sala Comune. Nell’angolo più lontano dalla porta che dava sul cortile, un piccolo pezzo di muro risultava pesantemente sfigurato da infantili disegni grotteschi di colore nero.

Una scatola di pastelli giaceva a poca distanza dalla piccola figura inginocchiata sul pavimento. Più pastelli neri di lunghezze differenti erano sparsi qua e là, mentre quelli colorati erano ancora ordinatamente disposti per ordine cromatico nella piccola confezione.

Indossava delle pantofole azzurre e un vestito bianco di stoffa, senza maniche, con solo dei semplici ricami a fiori lungo l’orlo della gonna. Per gran parte del tempo rimaneva col viso girato, quindi Sora poteva solo scorgere la pelle delle gambe e delle braccia, tanto pallide da confondersi con il vestito stesso, e la chioma di capelli biondi che le ricadeva in un taglio scalato lungo la schiena. In tutto quell’accostarsi di bianco bianco bianco, Sora temeva, provando un certo senso di colpa, che se non fosse stato per la macchia nera in continua espansione lungo il muro, forse non avrebbe notato la ragazza.

Quella si reggeva con una mano a terra, mentre con l’altra, alzata, stringeva un piccolo pastello, nero anche quello, che era in perenne movimento e continuava a tracciare un turbinio di linee scure sulla parete.

Sora passò molti minuti a guardarla disegnare, persa nella sua silenziosa bolla di solitudine, e a cercare di immaginare il suo viso. Notò il modo affabile con cui alcuni infermieri si avvicinavano e si sedevano vicino a lei, le parlavano, le sorridevano, mentre lei rimaneva rivolta verso la parete, continuando a disegnare figure dai corpi sempre più umani, e si limitava a scuotere la testa ogni tanto in risposta. Se avesse detto qualcosa durante quei momenti, Sora non poteva aver sentito, dalla sua postazione seduta al tavolo su cui alcuni pazienti l’avevano coinvolto in un gioco di carte che poco lo interessava al momento.

E ancora, tutto quel bianco si addiceva soltanto a un angelo. Il nero non era il suo colore. Perché i pastelli neri?

 Andandosene dalla Sala Comune, Sora non riuscì ancora a scorgerne la faccia, ma mentre in mensa Riku saltava su dalla sua sedia per afferrare, urlando, il paziente davanti a sé, e gli occhi di Kairi perdevano la loro luce, e con essa ogni traccia di vita, un altro grido si levava chiaro e agghiacciante nella vasta stanza, prima che scoppiasse il putiferio.

Vicino al vassoio caduto a terra, ne cadde un altro. Namine, in piedi, era rivolta verso i tavoli, la sua faccia finalmente in mostra. Sora aveva indovinato, sembrava proprio un angelo: la pelle innaturalmente pallida, i lineamento dolci, le ciocche di capelli che le scendevano gentili sulla fronte, e grandi occhi azzurro cielo.

Ma, ripensandoci, il ragazzo avrebbe preferito non vederli affatto, se quegli occhi dovevano essere sbarrati e semplicemente terrorizzati, le dita sottili tra i capelli biondi che minacciavano di strapparli da un momento all’altro, e la bocca dalle labbra rosate aperta in un grido che sembrava infinito.

Gli angeli non dovrebbero soffrire.

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“Domani comincerai a partecipare alle sedute di gruppo, oltre che alle sedute con me. Parleremo a lungo, quindi cerca di abituarti a me velocemente, Sora, sarò il tuo peggiore incubo.” La dottoressa Gainsborough ridacchiò e gli fece l’occhiolino. Abbassò la sua tazza di tè sulla scrivania e accavallò le gambe, portando una mano sotto il mento e lanciandogli un’occhiata meditativa.

 “Oggi ti ho seguito un po’,” cominciò dopo qualche secondo, “Ho visto che hai passato un bel po’ di tempo con Yuffie, ma neanche oggi hai parlato tanto agli altri ragazzi, anzi, direi che, sorprendentemente, stai interagendo più con gli adulti. Non che questo sia un problema. Però ho notato che hai osservato molto.” Il suo tono sembrava compiaciuto. “Sei il tipo silenzioso che osserva e ascolta?”

“No, non particolarmente,” ammise Sora, “Di solito sono quello che fa rumore, ma che ascolta i consigli.”

La dottoressa rise: “Che definizione concisa, Sora.”

Sora tentò un sorriso di rimando: “Così mi definì un mio amico una volta.”

“Allora aspetto con ansia di poter ammirare questo tuo lato che mostra gioia nel vivere.” Nonostante la donna avesse appena riso, la serietà di quelle parole non sfuggì a Sora.

Perché c’è di nuovo qualcosa che non va.

“Ah, Sora, quasi dimenticavo,” lo richiamò la dottoressa, “Oggi il ragazzo della camera 13 non c’era, dovrebbe ritornare stasera tardi. Domani avrai l’occasione di conoscerlo. Volevo solo dirti che… sa essere rumoroso quando vuole. Quindi, se senti qualcosa o ti trovi in bisogno di aiuto, non esitare a chiamare qualcuno.”

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Quella sera, poco dopo l’orario del coprifuoco, Sora sentì dei rumori provenire dal corridoio. Alcune voci rimbombarono nel corridoio altrimenti vuoto e silenzioso, una porta si aprì e si richiuse.

Il paziente della camera 13 era tornato.

 

   
 
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