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Autore: Loryblackwolf    18/02/2011    4 recensioni
Oscurità, dolore, rabbia. Questo è ciò che regna nel cuore di uno schiavo che in passato conobbe la libertà, e se la vide strappare via per l'errore di qualcun'altro. Rinchiuso nel mondo soffocante della guerra e della prigionia, ad un Elfo Oscuro non resta che una cosa da fare: uccidere.
Questa è una breve storia che ho scritto su un personaggio che interpreto in un gdr.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un groviglio di suoni si sovrapponeva al caotico rombo lontano di urla e stridio del metallo contro il metallo. L'odore di corpi sudati e di sangue permeava la sala rendendo l'aria irrespirabile, umanoidi di ogni razza e stazza si aggiravano da un angolo all'altro, chi impegnato in terribili allenamenti e chi gemeva col ventre squarciato, e chi attendeva pazientemente l'ora della battaglia.

 

Lui era tra quei pochi che vivevano quell'inferno con la disillusa calma di chi non ha nulla da perdere. Era seduto su una di quelle luride panche affiancate alla parete di pietra, ad affilare la lama della sua scimitarra. Per quanto inusuale fosse la presenza della sua razza in un luogo simile, nessuno gli rivolgeva più di una rapida occhiata, a cui seguiva una smorfia di disgusto o semplicemente un passo più affrettato. Il caldo soffocante dei sotterranei aveva ricoperto la sua pelle nera di un lucido strato di sudore, i capelli ricadevano sciolti e ribelli lungo la schiena e le spalle, di un bianco puro che nemmeno il sangue e la sporcizia avevano potuto sbiadire. Era un Elfo Oscuro, un figlio del Buio Profondo. Si fermò per osservare il proprio riflesso distorto nella lama, nient'altro che l'ombra di ciò che fu. Le guance scarne e le occhiaie dovute alla fatica deturpavano quel volto un tempo armonioso e perfetto, uno dei particolari che l'avevano fatto cadere in quella situazione. Per migliorare il suo aspetto il suo padrone l'aveva condotto in una delle innumerevoli sale dei sotterranei dell'arena dove, legato ad un lettino, aveva sentito gli aghi del tatuatore penetrare nella pelle del petto rilasciando sotto di essa quello strano pigmento bianco. Ora candide ali tribali si spiegavano sulle sue carni, la falsa speranza di libertà per uno schiavo. Nell'incubo, la derisione.

 

Una voce risuonò acuta e sgradevole, richiamando alcuni dei guerrieri. A lui parve il grugnito di un maiale sgozzato, ma non esitò quando essa richiamò anche lui. Raccolse il piccolo scudo e si alzò, diretto verso la piccola stanza dalle pareti annerite dal fumo al cui centro riluceva un piedistallo di lurido marmo, la sala della pozza. Dell'acqua arrossata riluceva del fuoco delle torce, contenuta in un lavabo sulla sommità del piedistallo. Uno per uno, i guerrieri vi immersero le mani e le passarono sul volto e il petto, lavando via parte del sudore che li ricopriva. L'Elfo Oscuro fu l'ultimo ad immergere le mani in quell'acqua oleosa, ripetendo senza pensiero quel gesto divenuto abitudinario. Fece una smorfia quando l'acqua sfiorò la pelle arrossata ed infetta del petto.

 

Uno per uno, i gladiatori vennero chiamati ed uscirono dalla sala da un'insignificante porta di legno che dava su un buio corridoio in salita. L'Elfo si soffermò su quell'ala di legno, quando uno degli uomini uscì. Sul lato esterno era scurita dal sangue di innumerevoli schiavi che come loro si accingevano a salire verso l'arena e confrontarsi con gli stessi poveracci con cui qualche ora prima si erano allenati, avevano diviso il pasto, avevano dormito fianco a fianco. La vita e la morte erano divise da uno sporco pezzo di legno. Alcuni rientravano da quella porta, gementi e feriti, altri rimanevano oltre la soglia. Morti. In quel momento un umano dai capelli brizzolati rientrò, ansante e coi denti rotti, ferito in più punti ma vivo, sottraendo l'Elfo dai suoi pensieri. Lo guardò allontanarsi senza l'aiuto di nessuno, senza che qualcuno si voltasse per chiedergli come stava. Dopotutto, era inutile fraternizzare con dei futuri cadaveri.

« Rhaeja. »

L'Elfo Oscuro si voltò verso l'uomo la cui voce risuonava nella sua mente come lo stridio del vetro contro la pietra. Doveva aver passato da un pezzo l'età della giovinezza, era curvo e basso, il ventre rigonfio per il cibo e la birra annacquata. Pochi arruffati capelli neri si appendevano attorno al suo cranio lucido di sporcizia, una barba incolta spuntava dalle sue guance molli tra le quali si apriva una bocca colma di storti denti ingialliti. Due occhietti porcini osservavano il mondo con disprezzo e ingordigia, lo stesso sguardo che ora rivolgeva al suo schiavo preferito.

« E' il tuo turno, Rhaeja. Vai.»

Lui rimase impassibile per qualche secondo. Odiava quella misera creatura, la odiava con tale intensità da disprezzare persino il suono del suo nome pronunciato da quella bocca infame, lo stesso nome che pochi anni prima aveva fatto tremare i cuori dei suoi sottoposti all'interno del casato Melarn, il terzo di Chèd Nasad. Fu il Patrono del casato, il maschio più potente, il favorito dalla Matrona. Questo finché quella sgualdrina non decise che era meglio sacrificare la propria migliore pedina piuttosto che subire l'attacco dei Barbari, in quel lontano giorno in cui la caccia all'Elfo era stata prevista e contrastata. E lo vendette a quello che poi divenne il suo padrone, in cambio della propria vita. L'uomo che lo spingeva verso la morte.

I suoi occhi color rubino colsero lo scintillio del metallo di una lama estratta a metà, quando una delle due grosse guardie che attorniavano il padrone si mosse verso di lui, nel vederlo esitare. Erano uomini del nord, alti e possenti, con lunghe barbe e grandi spade al fianco, mercenari ben pagati per difendere il negriero dalla sua stessa merce. Lo spintonò con violenza verso la porta, e lui fu abbastanza saggio da non opporre resistenza; la differenza di statura tra un barbaro e un delicato Elfo Oscuro non lasciava dubbi su chi avrebbe vinto un ipotetico scontro, specie se il barbaro in questione aveva copiose ore di sonno alle spalle e numerosi pasti. La mano dell'Elfo Oscuro strinse il chiavistello della porta e l'aprì, liberando una zaffata di vento caldo saturo dell'odore della battaglia e della paura. Senza guardarsi indietro varcò la soglia e richiuse la porta dietro di sé con un tonfo, e fu il silenzio.

 

Era stanco, terribilmente stanco.

 

Il corridoio sembrava immerso nella luce solare, per lui che nel buio era nato e vissuto. Distingueva con brutale chiarezza le macchie e le strisce rosse sulle pareti e sul pavimento, alla sua destra qualcuno aveva toccato la parete con una mano insanguinata, lasciando sulla fredda pietra un segno che nessuno si sarebbe mai più degnato di lavare. L'unica eredità del gladiatore morto. Risalì il corridoio mettendo un piede dietro l'altro, meccanicamente, senza dedicare pensiero coscienti a ciò che faceva. Quante volte aveva risalito quella strada? Più di dieci, ma per come la vedeva poteva anche trattarsi di cento, di mille volte. Quelle battaglie lo avevano reso un'attrazione speciale, la gente pagava per vederlo combattere e un giorno morire, scommettendo sulla sua pelle ingenti somme di denaro. Tutti accorrevano per vedere il Diavolo Nero versare il sangue dei propri avversari.

 

Avanzava. Non pensava. Non valeva la pena perdere le proprie energie a pensare, quando la morte poteva giungere da un momento all'altro. E quando terminò la salita, guardò fuori dalla grata.

Era notte fonda. La calura estiva permetteva agli organizzatori di offrire spettacoli notturni agli scommettitori più zelanti, esponenti di ogni ceto sociale, dal nobile al contadino, uomini e donne assetate di denaro e violenza. Delle grandi torce illuminavano l'arena, un largo cerchio di terra battuta circondato da colonne irte di spuntoni di ferro. Gli spalti erano protetti da file di lance irte di spine, per evitare un'eventuale fuga dei gladiatori. Gli spettatori urlavano ed applaudivano, in attesa del prossimo spettacolo.

Un alito di vento portò una fragranza diversa alle narici dell'Elfo Oscuro. Un odore sconosciuto, che nemmeno l'olezzo dell'arena poteva coprire. Lui non poteva conoscere l'odore degli alberi del bosco che cresceva a pochi passi da quell'inferno. Era dolce, e fresco. Inquietante per un certo verso, eppure lo attraeva come una falena col fuoco. Odore di libertà. E lui tremò, e batté la fronte contro le sbarre, straziato.

 

Quanto ancora sarebbe durato? Tutto quello era peggio, molto peggio di Chad Nasad. Lì aveva combattuto, aveva provato il più puro terrore e aveva gustato il dolce sapore dell'ambizione. Aveva riposato con gli occhi aperti, e più di una volta era sopravvissuto ai tentativi di assassinio dei suoi consanguinei, e li aveva ripagati con la stessa moneta. Era un mondo spietato, ma era molto più vicino alla libertà di quanto non avesse mai potuto sognare. Un caos calmo e controllato, dedito sempre alle stesse leggi. Conquista o muori.

Lì non aveva niente da conquistare. Non aveva senso che fosse lì, per volere di una femmina. Era prigioniero in un universo non suo, questo sembravano ricordargli quelle delicate luci sulla volta di quell'immensa caverna che solo dopo avrebbe iniziato a chiamare cielo. “Tu non sei come noi.”

No, non lo era. Non voleva esserlo.

 

Ritrasse la fronte dalla ruvida superficie della grata, e la sentì stridere quando venne sollevata da pesanti catene. Polvere e ruggine caddero sul pavimento davanti a lui, come fiori gettati sul cammino degli eroi. Il pubblico esultò.

 

E lui avrebbe dato loro quel che volevano.

 

Avanzò sull'umida sabbia che ricopriva il pavimento, accolto dalla brezza fresca e dalle grida estasiate degli scommettitori. Odio, tutto l'odio che aveva provato in una vita tremava nel suo cuore, voglioso di uscire e distruggere qualunque cosa gli si sarebbe parata davanti. Alzò lo sguardo, e vide finalmente il suo avversario venirgli incontro, l'acciaio degli spallacci e dell'ascia riluceva sinistro della luce dei bracieri. Un umano, ma talmente grosso che l'Elfo si ritrovò a chiedersi se avesse sangue di Orco nelle vene.

 

Il silenzio scese come una cappa di velluto sull'arena. Non esistevano altro che loro due, le due bestie che si sarebbero affrontate unicamente per sopravvivere un altro giorno, qualche altra ora. Il Mezzorco si mosse piano verso destra in un ampio cerchio, e l'Elfo fece altrettanto. Era una sorta di rito, quello di studiarsi con calma muovendosi in cerchio, quasi danzassero. Erano perfetti e terribili, l'uno possente e feroce, l'altro elegante e calmo. Si fronteggiarono per lunghi minuti.

Poi, come riportati alla vita, scattarono in avanti all'unisono con le lame sguainate e i volti contratti da smorfie orribili, due cani da combattimento lanciati l'uno contro l'altro. Gli scudi cozzarono l'uno contro l'altro, e gli spettatori ritrovarono la loro voce gridando insulti ed incoraggiamenti. Troppa era la differenza di peso tra i due gladiatori: l'Elfo dovette indietreggiare per far fronte alla massa di muscoli e acciaio dell'avversario ringhiante, che brandì la lunga spada verso di lui. Un angolo dello scudo di legno e cuoio venne scagliato via, spaccato dal semplice peso dell'arma, e lui si abbassò sfruttando il rozzo slancio del Mezzorco per far falciare l'aria con la sua scimitarra, diretta verso il fianco del suo nemico che si ritrovò con un'umida linea rossa a lacerargli la pelle. In un impeto d'ira, l'orrenda bestia calò la pesante mano che ancora reggeva la spada contro la spalla dell'Elfo, che sentì il violento colpo dell'elsa di metallo contro la sua delicata clavicola e fu costretto ad assecondare lo slancio, incespicando di lato per non cadere. Poi fu il suo turno. Forte di una ripresa decisamente più rapida rispetto al proprio avversario, il Figlio del Buio si lanciò in avanti brandendo la scimitarra, la cui lama stridette contro la spada del Mezzorco quando questo intercettò a fatica il suo colpo, ma non i seguenti. Rapide stoccate sibilarono nell'aria, e sentì tagli sanguinanti aprirsi nella sua pelle dura, e ruggì la propria ira per contrastare la letale rapidità di quel dannato, tanto veloce da sembrare poco più di una macchia nera evanescente, un gioco di ombre in quel luogo d'orrore. Ma la forza prevale, in quegli attimi in cui l'agilità si scontra con la possanza. L'Elfo Oscuro si sentì schiacciare quando la spada colpì la sua scimitarra con tanta forza da rendere vana la propria difesa, e sentì il freddo morso del metallo contro la carne calda. La lama del Mezzorco era affondata in profondità nella sua spalla, lì dove era stato colpito in precedenza; ed urlò di quel dolore che velò i suoi occhi di una nebbia rossa, sentì lo stridere del filo contro le ossa e le scariche di acuta sofferenza che gli penetravano nel cervello, cancellando ogni pensiero. D'istinto indietreggiò, e la punta della lama fuoriuscì dalla ferita con un sinistro suono di risucchio, assieme al sangue velenoso che si riversò sul suo corpo, sulla terra dell'arena. Il pubblicò proruppe in urla di selvaggia gioia e stupita disapprovazione, nel vedere le proprie puntate di denaro rassicurate o messe a rischio a seconda del gladiatore su cui era stato scommesso.

 

Ansimò. Sentì la risata sommessa del Mezzorco aleggiare nell'aria tra di loro, colma quella gioia malvagia provata nel vedere il proprio avversario avvicinarsi sempre di più al baratro. La stessa risata che un tempo aveva sentito sulle sue stesse labbra. Lo scudo pendeva inerme dalla sua mano e dal braccio inutilizzabile, tale era l'entità della ferita che quasi lo accecava col suo dolore. Stava per finire. Lo sapeva. Tutto sarebbe finito con un ultimo colpo, l'ultimo gesto di ribellione di una belva che si dibatteva in una gabbia con gli artigli protesi tra le sbarre, per uccidere. Uccidere, nient'altro importava. Batté gli occhi, e per un breve istante l'immagine del suo avversario in procinto di affondare la spada nel suo petto fu chiara come cristallo. E reagì, disperatamente, sollevando la lama per colpire.

Per lunghi attimi, agli spettatori alzatisi in piedi per l'eccitazione parve di vedere una massa confusa di pelle grigia e nera in un groviglio confusionario, e scese il silenzio. Dolore si aggiunse al dolore, quando l'Elfo si rese conto che la lama avversaria aveva aperto due tagli paralleli sul braccio precedentemente ferito e sul suo fianco, e lì si era fermata. Alzò lo sguardo, lentamente, per vedere la sporca lama della propria scimitarra affondata per gran parte nella gola del Mezzorco, e udì il gorgoglio del suo respiro. Il suo stesso sangue lo annegò e lo privò della vita, e il suo immenso corpo si accasciò a terra con un tonfo che fu udito fin sugli spalti più lontani, tale era la tesa assenza di voci.

 

Lui era in piedi. Solo il suo respiro rimbombava nell'arena. E poi vi fu il grido, quell'urlo che seguì la lama insanguinata innalzata per celebrare la sua vittoria al cielo, e ad esso si unì il tonante coro di voci forsennate degli spettatori, folli di gioia ed inebriati di morte, che batterono i piedi sulla dura pietra dell'arena così da trasmettere il loro giubilio alla terra stessa, che tremò in onore della vittoria del Diavolo Nero.

 

La sua voce si spense, mentre la festa di suoni attorno a lui continuava senza affievolirsi, incuranti persino di colui che aveva assicurato a molto ingenti introiti di denaro. Arrancò via, non visto, non più importante. Discese il corridoio, ed il suo sangue si aggiunse a quelli di molti che prima di lui avevano subito la stessa sorte. Aprì la porta sporca, e le parole di lurida soddisfazione del suo padrone gli scivolarono addosso prive d'importanza. Senza aiuto, senza sguardi, tornò nel suo angolo di pietra mentre le sue mani perdevano la presa sullo scudo e sulla scimitarra, che cozzarono contro il pavimento e giacquero inermi. Tornò nel suo angolo, lì dove giaceva un pagliericcio impolverato e sul quale ricadde pesantemente, debole e ferito, inerme come le armi che aveva abbandonato. Gemette, e a fatica si girò sul fianco sano per guardare i volti che lo circondavano, opachi e sfocati, nient'altro che nebulose ombre e suoni ovattati. Un gladiatore si soffermo su di lui, ne incrociò lo sguardo per un momento con curiosità, come se fosse un animale esotico. E distolse lo sguardo, allontanandosi per prepararsi alla battaglia in onore del denaro.

 

L'Elfo oscuro chiuse gli occhi.

 

Era stanco, terribilmente stanco.

 

   
 
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