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Autore: crimsontriforce    19/02/2011    0 recensioni
1750: Gehn fugge verso D'ni. 1755: Gehn torna reggendo Keta morente. Il cielo sopra la Fenditura è sempre sereno.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1. Gente che viaggia nei libri'
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“Sereno” per un challenge a squadre per il quale la mia partecipazione conterà quanto quella di una formica in una gara di tiro alla fune, ma tant'è. Lo prendo come un incentivo a sgomberare vecchie trame, come questa, che mi restava sul gozzo dai tempi de Il ferito nella terra.










Vivere in una fine


We have left all the rest behind, one after another.
It seems almost like a dream that has slowly faded.”
Not to me”, said Frodo.
To me it feels more like falling asleep again.”
JRRT





Per la seconda volta nella sua vita, Anna si svegliò in una casa vuota. Suo padre se n'era andato. D'ni se n'era andata. Gehn se n'era andato. Lei rimaneva. E tutte le conclusioni che si era lasciata precariamente alle spalle, senza mai tempo per guardarsi indietro, tornarono a salutarla accalcandosi negli spazi della Fenditura. Avrebbe avuto bisogno di una cascata d'acqua per lavare tutta quella distruzione che le si stringeva addosso, pesante come polvere nei polmoni, ma il cielo rimaneva terso e immobile nei colori tenui del primo mattino, quindi Anna si mise in ginocchio sulla terra e pianse la sua cascata d'acqua.
“Aitrus”, mormorò la sera, esausta. “Nostro figlio se n'è andato. Dove ho sbagliato?”





Aveva tutto il tempo del mondo, ora: era rimasta sola sotto un unico cielo azzurro.
Pianse tutte le sue lacrime per Gehn, anche se ogni mattina, intrecciandosi i capelli, si raccontava che è sceso con la mappa di suo padre ed è al sicuro. D'ni è la sua casa e lo proteggerà, gli parlerà come avrei fatto io, gli farà capire. Finite quelle, pianse tutte quelle che aveva nascosto a se stessa durante gli ultimi anni con Gehn, quelli di insulti e silenzi e recriminazioni per cui un'abitante di superficie non aveva diritto di essere sua madre. Avrebbe dovuto capire che presto le avrebbe preferito le rovine, ma lo vedeva ancora come un bambino. Era ancora un bambino. Infine, ancora a ritroso, pianse tutte quelle che aveva sempre saputo di avere in corpo ma che aveva dovuto nascondere al figlio ancora troppo piccolo per poter vedere la mamma in lacrime. Le premevano ancora in gola.
Si era chiesta se proprio quel mostrarsi forte non avesse cementato in Gehn l'idea del suo personalissimo peccato originale. Col passare dei giorni e delle settimane, però, tutto scivolava via perdendo importanza, perché svegliandosi ogni mattina sola, di fronte a un deserto assolato e identico, Anna aveva formulato il pensiero di essere giunta a una fine. Era una sensazione fragile, come se, nel tuffarsi, si fosse trovata ferma a mezz'aria, sbilanciata e senza possibilità di tornare in piedi, ma sempre lontana da terra.
Provò ad accettare quello stato.
“Amore mio”, mormorò un giorno, sentendosi vecchia e stanca, ma incredibilmente leggera nel dare fiato a quell'idea. “Verso niente, ricominciamo.”





Bada, è figlio tuo quant'è figlio mio e te lo affido. Ma trattamelo bene. Dagli un bacio in fronte da parte della sua mamma. Non mancava di salutare così il vulcano, quando i commerci o qualche tocco di manutenzione la portavano fuori dagli spazi protetti di casa. Il sorriso forzato che si stampava in volto in quelle occasioni mise radici fino a presentarsi, non richiesto, fin da prima di salire gli ultimi scalini.
Prese i fili più colorati e ricamò luci azzurre e acqua arancione sulle coperte del suo bambino. Affondò le dita nella creta e vi plasmò un portacandela che l'accompagnasse nella notte (i simboli con cui lo decorò venivano dalla sua infanzia: non ricordava il loro significato, ma confidava che gliel'avrebbero raccontato, un giorno). Sentì la schiena lamentarsi per gli otri d'acqua da portare in cantina, ora che era rimasta sola. Ma ne acquistò due in meno dalla carovana, meno sementi, meno carne essiccata; con i soldi avanzati poté permettersi pigmenti e carta. Sedette all'ombra del vulcano e seguì con occhi socchiusi il trasformarsi dell'unica nuvola all'orizzonte.
“È una buona casa, per una fine”, disse, passando le mani sugli incavi che disegnavano sul muro fiori e uccelli. “Non trovi?”





Le carovane portavano con sé la civiltà. Le loro merci parlavano di insediamenti e fattorie; il chiacchiericcio dei mercanti riferiva di balli, ma anche di dottori e fornai. Anna si era chiesta se i suoi ricami e i suoi intagli sarebbero bastati a comprarle un passaggio, se sarebbe stato più consono dedicare l'ultima parte della sua vita a cercare di cucire dei rapporti con la sua gente, quegli uomini di cui serbava solo ricordi offuscati dell'infanzia. Ti'ana la narratrice, che si era innamorata tre miglia sottoterra e aveva visto un lago tingersi di luce, si era opposta: non avrebbero avuto orecchie per le sue storie e l'avrebbero sommersa con le loro.
Portò le mani al petto, cullando i ricordi. Dietro ai suoi occhi vivevano ancora i giardini di Neref con le loro promesse di altri mondi, i pinnacoli intarsiati di K'veer, la meraviglia a stento trattenuta nel porre piede nelle biblioteche di J'taeri e poi Vamen, il traffico di Ashem'en che andava e veniva dal nulla, Ae'gura tutta come un sogno scintillante. Non poteva venir costretta da vicoli e tetti. La terra riarsa era l'unico suolo su cui quelle memorie potessero crescere senza venir soffocate dal quotidiano e non poteva esserci altro sipario che l'aria vuota, immensa e spazzata dal vento.
Scoprì che la calma della sua fine risuonava negli spazi; che lì, in quella casa, era possibile restare in piedi e inspirare a fondo con le Ere alle spalle e una quieta solitudine davanti.
Era una figlia del deserto. Sarebbe rimasta al deserto.
Si sedette sul bordo di roccia della Fenditura e intonò una nenia della buona notte, assumendo i gesti che ricordava da Tasera, con parole più antiche della patria di suo padre e di tutti i popoli che si affannavano su quelle terre.
“Mi hai consegnato la storia più grande”, si confidò quando la canzone fu finita e in cielo si accendevano vivide le prime stelle. “La tramando al vento, agli sterpi, alla linea blu dell'orizzonte.”





C'era una volta una ragazza che scoprì infiniti mondi. Il suo tocco alieno li fece avvizzire e dovette tornare a casa portando nel cuore le sole memorie rimaste di tutti quei cieli. Era un cuore grande abbastanza da contenerle tutte.
C'era una volta una donna che camminava portando con sé la responsabilità di due uomini, un ragazzo e una civiltà, ma che se anche avesse potuto non avrebbe taciuto le parole di grazia e pietà che della sua colpa avevano costituito l'ultimo innesco.
C'era una volta una vecchia signora che viveva col deserto. Le rocce erano le sue ossa, il cielo limpido il suo respiro. Esisteva nel Tutto, pronta a tornare ad esso senza rimpianti.
L'aria sopra di lei – dentro di lei – era serena.

“Mio caro”, iniziò al termine dei lavori quotidiani, come le era consueto. “Oggi è stata una buona giornata. Ho ricalcolato il passo dell'elica per il generatore e dovrebbe risultare fattibile anche considerando il regresso. La frittata di cipolle è stata un successo. Il nostro arazzo conta due righe in più e...”

























...se vado avanti così finirò a suddividere in cinque e multipli di cinque anche le mele. Niente note stavolta, credo...? Si ambienta nei primi mesi dei cinque anni che Anna passa da sola alla Cleft, da quando Gehn scappa di casa a quando torna e le scodella Atrus (facendole il più grande favore della sua vita, direi).
Se ho scordato di annotare qualcosa ne parliamo su forum, ché tanto lo so che in queste pagine restiam fra conoscenti e amici XD Come so anche che, se ho cannato i riferimenti a muzzo nel quarto paragrafo, qualcuuuno come un falchetto me li corregge X3
   
 
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