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Autore: vannagio    21/02/2011    27 recensioni
«Non gli bastano le femmine?», domandò stizzito, mentre con sonore pacche si ripuliva gli abiti costosi dai trucioli di legno, «Cos’è? Un’altra delle sue ridicole collezioni? Del tipo... femmina? Me la sono fatta. Maschio? Idem. Ciuccia-animali? Come sopra», sputò a terra in segno di disprezzo, «Chi sarà la prossima puttana in elenco? Un licantropo con la rogna?».
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Aro, Caius, Edward Cullen, Marcus, Sulpicia
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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"Quando vannagio vaneggia!"



L’idiota





Forks
Ottobre, 2010


Accoccolata contro il petto marmoreo del vampiro più bello che potesse esistere sulla faccia della terra, Isabella Marie Cullen era immersa nella lettura del suo libro preferito: Romeo e Giulietta. Edward la osservava in silenzio - un vampiro può perdere i canini ma non il vizio! -, mentre giocherellava distrattamente con una ciocca dei suoi capelli castani.
«Non ti stancherai mai di rileggerlo, vero?», chiese poi Edward, destandosi da quel momento che lui stesso definiva di Beata Contemplazione.
«È il libro che preferisco». Anche se non lo stava guardando in viso, Bella sapeva con assoluta certezza - ci avrebbe scommesso l’intero guardaroba, costituito per la maggiore da camicie alla boscaiola e felpe sformate -, che suo marito aveva appena sfoderato l’ormai celeberrimo sorriso sghembo. «Ora che ci penso, non mi hai mai detto qual è il tuo».
«Il mio cosa?».
Quasi sicuramente Edward aveva corrucciato le sopraciglia, come quando invano tentava di aggirare il suo scudo mentale e leggerle i pensieri.
«Il libro che ami di più, ovviamente», rispose Bella divertita.
Edward era un grande conoscitore di anime, ma a volte finiva col perdersi in un bicchiere d’acqua. Soprattutto quando si trattava di lei e del suo scudo.
«Ne ho letti tanti, sarebbe più semplice dirti quale non preferisco».
«E quale sarebbe, allora, mio caro Signor Modestia?».
Nonostante il tono scherzoso di Bella, Edward sembrò prendere molto sul serio la domanda. Rispose senza esitare, con una serietà che era al limite della preoccupazione.
«L’idiota di Dostoevskij».



Volterra
Maggio, 1923


Un tonfo assordante e uno schianto stridente annunciarono l’arrivo di Caius. Trenta millesimi di secondo più tardi, un vampiro biondo fuori dai gangheri spalancò con ferocia la porta dello studio e la fece sbattere violentemente contro la parete adiacente.
«Dov’è? Dove si è cacciato?».
Fermo sulla soglia, Caius si guardava intorno con lo sguardo circospetto e vigile di chi si aspetta sempre e solo pugnalate alle spalle. Alla sua destra, la porta emetteva tristi cigoli e dondolava sbilenca, indecisa tra lo scardinarsi del tutto e il resistere impavida. Caius le dedicò un’occhiata sospettosa, come se colui-che-stava-cercando si stesse nascondendo lì dietro, e quella, forse temendo dolorose ripercussioni, smise immediatamente di lamentarsi.
«Allora?». Riportò lo sguardo tagliente su Marcus. «È pretendere troppo sperare in una tua risposta?».
Di fronte alla rabbiosa maleducazione di Caius, Marcus non fece una piega. Si limitò a scrollare le spalle con eleganza e continuò a leggere alcuni documenti informativi sull’allora Presidente del Consiglio dei Ministri.
«Come sarebbe a dire che non lo sai?».
La seconda scrollata di spalle scatenò nell’ordine uno sbuffo spazientito, imprecazioni varie, ruggiti che avrebbero fatto invidia a una tigre in gabbia, un tentativo fallito di riassestamento della porta, altre imprecazioni e una sfilza di “maledetta”, “stupido sacco di tarli”, “inutile ammasso di segatura”, “saresti buona soltanto come legna da ardere”.
Marcus assisteva senza scomporsi alla sfuriata del fratello. Capitava spesso che Caius sfogasse le sue frustrazioni su qualunque cosa fosse a portata di mano, o pugno. O morso. Marcus vi era abituato. E quella volta si riteneva sufficientemente fortunato, poiché le vesti del parafulmine erano toccate alla porta del suo studio e non a una delle loro guardie più giovani.
Un’ultima bestemmia decretò la vittoria di Caius su ciò che rimaneva della porta. Visibilmente più sereno, si lasciò cadere sulla poltrona accanto a quella in cui Marcus era seduto.
«Che cosa ha intenzione di fare tuo fratello, eh?».
Diventava suo - e non loro - fratello, ogni volta che Aro faceva qualcosa che Caius non approvava.
«Non gli bastano le femmine?», domandò stizzito, mentre con sonore pacche si ripuliva gli abiti costosi dai trucioli di legno. «Cos’è? Un’altra delle sue ridicole collezioni? Del tipo... femmina? Me la sono fatta. Maschio? Idem. Ciuccia-animali? Come sopra». Sputò a terra in segno di disprezzo. «Chi sarà la prossima puttana in elenco? Un licantropo con la rogna?».
Marcus non parlava mai, purché non lo ritenesse strettamente necessario. Era sicuro che Caius avrebbe continuato a lamentarsi di Aro anche senza il suo contributo, perciò continuò a leggere e a tacere.
«Sono passati due mesi, diamine!».
Come volevasi dimostrare: Caius se la cavava benissimo da solo.
«Due mesi, da quando i Cullen sono venuti a farci visita. Dietro esplicito invito di Aro, ovviamente. E quei due non fanno altro che passeggiare mano nella mano, appartarsi, imboscarsi. Conversare amabilmente…». Seguì un “See, come no!”, che sottolineò lo scetticismo di Caius. «C’è un regno da portare avanti e sto facendo tutto io! Se non lo conoscessi, direi che Aro si è innamorato sul serio, stavolta».
Marcus inarcò un sopraciglio. Su quel “sto facendo tutto io” qualcosa da dire l’avrebbe avuta.
«Sì, lo so. È impossibile». Caius aveva interpretato male l’espressione perplessa di Marcus. «Ma da come si comporta, converrai con me, pare che voglia scoparselo davvero, quel ciuccia-animali effeminato!».
Con un sonoro plop, Marcus chiuse il fascicolo che stava studiando. Sotto il perenne sguardo sospettoso di Caius, si alzò e andò a posare la carpetta nel suo piccolo archivio personale, sotto la lettera “m”.
«Ti avrà confidato qualcosa in merito…», azzardò Caius.
Senza voltarsi, scosse la testa.
«Ma tu… hai capito qual è lo scopo di Aro, sì?».
Marcus si girò. Fissò il fratello per qualche istante. Poi annuì un’unica volta.
«Ebbene?», lo incoraggiò Caius, impaziente.
Non ebbe altra scelta che parlare, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il talento di Aro era davvero utile in simili circostanze.
«Il suo potere. Aro brama il suo potere. E per averlo, userà tutto il suo ascendente. Questa è la mia opinione».
«Se è così, ci sta già riuscendo benissimo. Hai notato come li guarda il dottorino?».
Marcus non rispose e non fece alcun cenno. Caius non gli avrebbe risparmiato le sue osservazioni, ne era certo.
«Come una moglie cornuta, ecco come!».
Tipica costatazione da Caius. Marcus rivolse gli occhi al cielo in una muta esternazione di esasperazione.
«Ma sai che c’è?».
No, ma lo avrebbe scoperto molto presto. Poco ma sicuro.
«Non mi va! Non mi va di avere un ciuccia-animali nel mio territorio. Tra le mie guardie. Non mi fido. Non mi piace. Non mi convince. No, proprio no! È anche casa mia, questa. Aro non può fare e avere sempre tutto quello che gli passa per la testa».
Marcus tentò di sedare l’animosità di Caius e di rassicurarlo. «Il legame che unisce i Cullen è molto forte, non credo che nostro fratello riuscirà nel suo intento».
Ma purtroppo le sue parole non sortirono l’effetto sperato, perché Caius scattò in piedi come una molla. «A me non frega assolutamente un cazzo se Aro si scopa un Cullen, due oppure tutti e tre contemporaneamente!». Ringhiò e sbatté il pugno sulla scrivania. La poveretta emise uno scricchiolio di sofferenza. A quanto pareva, era stato scritto nel destino che quel giorno il suo studio venisse completamente raso al suolo da Caius. «Voglio solo che torni a occuparsi dei suoi doveri. Sono stanco di lui e dei suoi giochetti. Dopo quasi tremila anni, sarebbe anche ora che cominciasse a crescere, dannazione!». Un altro pugno sul mogano scuro accompagnò l’ultima esclamazione.
“Peccato che Aro non abbia nessuna voglia di crescere”.
Da quasi tre millenni andava avanti in quel modo. Aro giocava. Caius si infuriava e faceva a pezzi parecchie cose. Marcus raccoglieva i cocci e li rimetteva insieme.
Una specie di guaito interruppe le sue riflessioni. Poi la scrivania si spaccò di netto in due pezzi.
Marcus sospirò per l’ennesima volta, con la chiara consapevolezza di stare provando qualcosa di molto simile alla spossatezza umana. In momenti come quelli la mancanza di Didyme si faceva sentire ancora di più.
“Lei avrebbe saputo che cosa fare”, pensò Marcus. “Lei sapeva sempre che cosa fare”.



Passeggiate all’aria aperta, frizzanti giornate primaverili, graziosi giardini rigogliosi, sentieri acciottolati, pergolati ammantati di edera… tutte cose che sua madre adorava, o almeno così credeva. Non sarebbe stata la prima volta che si sbagliava.
Nel periodo immediatamente successivo alla trasformazione, per esempio, Edward aveva vissuto nella convinzione di ricordare le fattezze di Elisabeth Masen: una donna dal vestito candido, con una cascata di riccioli castani a incorniciarle il viso. Poi Carlisle si era intromesso e aveva spazzato via per sempre l’unico appiglio che fino a quel momento aveva tenuto Edward saldamente ancorato alla sua vita passata. Così aveva scoperto che quei riccioli e quel bianco abito non appartenevano a Elisabeth Masen, bensì a un’infermiera dell’ospedale in cui era stato ricoverato prima di morire.
Della madre, oramai, Edward non rammentava nient’altro che due occhi verdi, grandi, sbarrati e spenti. Come quelli che lui non aveva più. Come quelli che non avrebbe rivisto mai più - nemmeno in uno specchio - poiché lui era diventato un vampiro e sua madre marciva sottoterra a Chicago da circa cinque anni.
“Mi spiace per te, mio giovane amico. Vederti soffrire mi rattrista enormemente”.
La voce morbida dei pensieri di Aro strappò Edward da quelle lugubri riflessioni e avvolse la sua mente in una calda coperta protettiva. Era così confortevole e accogliente, che per un istante sperò di potervi rimanere per l’eternità, in quel bozzolo metafisico di calore.
Passeggiavano tra i cespugli e le siepi in fiore del giardino privato di Aro già da diverse ore. Mano nella mano. Perché in quel modo era più facile comunicare, senza perdersi in futili parole e suoni ridondanti che avrebbero disturbato irrimediabilmente la quiete di quel luogo fatato. Questo era il parere di Aro, ed Edward si era subito trovato d’accordo con lui. Era così… rilassante non essere costretto a parlare, spiegare e ripetere per farsi capire. Ad Aro bastava sfiorarlo per comprendere tutto alla perfezione. Sapeva quando parlare, quando era opportuno tacere, quando Edward aveva bisogno di conforto, di appoggio o di isolarsi dal mondo.
Si era creata una straordinaria sintonia tra Edward e Aro. Una sintonia che con Carlisle non sarebbe mai stata possibile, nemmeno se fossero trascorsi cento anni. Aveva imparato più Aro in due mesi sul conto di Edward, che Carlisle in cinque anni.
“Non biasimare tuo padre, Edward. Essere incompresi è parte del destino riservato alle creature speciali come noi”. Aro aumentò la stretta delle sue dita intorno a quelle del ragazzo. “Talvolta anch’io ho l’impressione di essere solo al mondo”.
Stupito da quella rivelazione, Edward si fermò all’improvviso e costrinse Aro a fare altrettanto.
“Voi?”.
Stentava a credere che un essere tanto potente soffrisse la solitudine. Non erano soltanto i loro poteri a renderli simili, dunque.
“Suvvia, Edward”, esclamò inaspettatamente Aro. “Sei un mio ospite - tra l’altro, un ospite molto gradito - e non un mio sottoposto. Puoi benissimo darmi del tu, quante volte ancora devi farti pregare?”.
Un sorriso supplichevole si dipinse sulle labbra del Maestro. Edward si soffermò su di esse per un secondo di troppo. Quando se ne rese conto, distolse immediatamente lo sguardo e con fare impacciato balbettò uno stentato «State… s-stai divagando».
“Così va meglio”. Aro continuava a sorridere compiaciuto. “E… sì, Edward. Che tu ci creda oppure no, anch’io ho fatto la conoscenza di Donna Solitudine. È stata la mia compagna per innumerevoli secoli”. Le sopracciglia adorabilmente corrucciate in un’espressione malinconica, gli occhi cremisi fissi su qualcosa che Edward non riusciva a vedere. “Ma da un po’ di tempo a questa parte, il fato mi pare più dolce e benevolo nei miei confronti e la solitudine meno pressante”. Così dicendo, Aro volse quel suo sguardo mortalmente magnetico verso di lui. “E lo sai il perché, Edward?”.
Prima che il ragazzo potesse scuotere il capo in segno di diniego, Aro lo afferrò per il braccio destro e gli impedì di allontanarsi. L’altra mano gli artigliò la nuca e costrinse la guancia di Edward ad accostarsi alla sua.
L’istinto del vampiro urlava “pericolo!”, “difenditi o scappa!”, ma i pensieri di Aro non sembravano minacciosi. Perciò, nonostante l’imbarazzo e la contraddittoria euforia, Edward chiuse gli occhi e prese due respiri profondi per provare a rilassarsi.
Ma dov’era finita l’aria? Non avvertiva altro che l’odore di Aro, speziato e antico.
Stordito e confuso, colse quasi per caso i pensieri del Maestro, che sussurravano parole proibite in zone recondite nella sua mente.
“Non sono più solo perché…”.
Un brivido caldo percosse la sua schiena, quando Edward avvertì le labbra del Maestro - leggere come ali di farfalla, mozzafiato come un pugno nello stomaco - posarsi sulla sua giugulare.
“… perché adesso ci sei tu, qui con me, mio principe Myškin”.



Al di là del vetro, qualche piano più in basso rispetto a dove si trovava Carlisle, parzialmente celate da alberi e cespugli verdeggianti, due sagome terribilmente familiari erano avvinte in un abbraccio tutt’altro che fraterno. Carlisle le scrutava con la fronte corrugata, tormentato da tristi pensieri e ingombranti sensi di colpa.
Rispondere all’invito di Aro e recarsi a Volterra così presto erano stati due clamorosi sbagli. Gli ennesimi della sua non-vita. Erano trascorsi pochi anni dalla trasformazione di Edward. Suo figlio era troppo giovane e ingenuo. Non era pronto a decidere della sua vita senza lasciarsi influenzare da interventi esterni. Aro ne era consapevole e se ne approfittava per tirare il giovane dalla sua parte.
Carlisle non si dava pace. Come aveva potuto permettere ad Aro di affondare i suoi artigli in Edward per ben due mesi? Debolezza e timore di peggiorare la situazione egli supponeva essere le principali cause del suo fallimento.
Nonostante le rassicurazioni di Esme, Carlisle era inquieto e irrequieto. Aveva fretta di tornare a casa. Di allontanarsi da Volterra e dalle subdole macchinazioni del suo signore. Dovevano andarsene, subito, prima che fosse troppo tardi.
Nel frattempo le due figure avevano ripreso a passeggiare mano nella mano.
“Probabilmente è già troppo tardi”.
«Continuando di questo passo, perderete il senno».
Carlisle non si voltò verso la vampira che gli aveva appena rivolto la parola e che si era posta accanto a lui di fronte alla finestra, ma le concesse un lieve cenno del capo. Immobili e silenziosi come le statue che li circondavano e che adornavano la sfarzosa sala, continuarono a fissare le sagome dei loro cari per diverso tempo.
«Come riuscite a sopportare tutto questo?», chiese all’improvviso Carlisle. E nel porre quella domanda, insolitamente indiscreta per un… uomo del suo stampo, si stupì nel costatare quanto stesse faticando a trattenere la rabbia e la frustrazione.
Carlisle amava Esme più di ogni altra cosa al mondo. L’adulterio era un concetto estraneo e alieno alla sua natura. Perciò il rapporto che si era instaurato tra Aro e Sulpicia in quei lunghi millenni era un vero mistero per lui. Come poteva Aro tradire la donna che sosteneva di amare? E come poteva Sulpicia tollerare un simile comportamento da parte del marito?
Vi era una sola risposta possibile per Carlisle: quello non era amore.
«Lo amo e sopporto in silenzio perché so che Aro mi ama a sua volta e che, nonostante tutto, lui tornerà da me. Sempre».
«Sembrate molto sicura delle vostre parole», replicò Carlisle con scetticismo.
«Sì, lo sono». Attraverso il vetro, Sulpicia seguiva ossessivamente i movimenti delle due sagome. «A suo modo Aro mi ama». Il suo viso era una maschera imperturbabile. «Perché se così non fosse». Si voltò a guardarlo. «Dopo quasi tremila anni non sarei qui».
Ma se non era amore, si domandò Carlisle, allora che cos’era?



“Ci stanno osservando”.
Nonostante l’avvertimento, Aro non sciolse l’abbraccio. Edward gliene fu immensamente grato, perché non si era mai sentito così accettato e al sicuro come in quel frangente tra le braccia del Maestro.
“Eppure nei tuoi pensieri leggo turbamento”, gli fece notare Aro, mentre le sue dita scorrevano pigramente su e giù lungo la schiena del ragazzo.
“Mio padre non approva”, rispose Edward.“E neanche tua moglie”.
Una risata guizzante gli solleticò lo zigomo e gli fece provare una strana sensazione allo stomaco. Aro si allontanò da lui quanto bastava affinché potesse guardarlo dritto negli occhi. Un sorriso sornione solcava quel volto aristocratico.
“Sei geloso, mio principe Myškin?”.
Gli angoli della bocca erano maliziosamente arricciati all’insù, le mani saldamente ancorate alle spalle del giovane.
“Certo che no!”, replicò Edward sulla difensiva. “Le mie riserve vanno a Carlisle e ai principi che si ostina a impormi. Lo sai bene. Ne parliamo quasi ogni giorno, ormai”.
Il Maestro concesse una rapida occhiata alla finestra che si trovava in alto, alle spalle di Edward. Sorrise cordiale e poi tornò a fissarlo.
“Ma certo”. Gli accarezzò una guancia in un gesto che sembrava trasudare affetto e qualcos’altro di molto poco innocente.“Perdona il mio pessimo senso dell’umorismo”.
Aro non doveva farsi perdonare alcunché, stava pensando Edward. Carlisle, invece, con la sua presunzione di essere nel giusto, sempre e comunque, e con quelle idee utopistiche, aveva molto di cui scusarsi. Grazie al suo potere, Edward poteva vedere la bontà delle intenzioni del padre. Ne percepiva i sensi di colpa e il sincero desiderio di redenzione. Perciò era in grado di comprendere il suo punto di vista. “Ma noi siamo quel che siamo. E nessuna buona azione potrà cambiare questo agli occhi di Dio”.
“Parole sagge, mio caro. Parole molto sagge”.
Edward era così coinvolto emotivamente da quel ragionamento che quasi non si accorse delle dita di Aro. Lente e dal tocco impalpabile, percorrevano le vene bluastre e sporgenti sul polso del giovane.
“Potrebbero esserci altre possibilità, altre opzioni”.
Ladri, assassini, stupratori, nessuno avrebbe mai compianto best… persone di un sì infimo livello.
“Non devi vergognarti di chiamare le cose con il loro nome, Edward”, lo riprese il Maestro e sorrise indulgente, come un insegnante che con pacata pazienza corregge l’errore di un allievo.
“Carlisle insiste affinché li consideri come persone, come esseri senzienti”.
“Noi siamo quel che siamo, lo hai detto tu. Perché per loro dovrebbe essere diverso?”. Aro prese Edward sottobraccio e insieme proseguirono con la passeggiata. “Umani, cibo, fonte di nutrimento. Non è offensivo o degradante, si tratta di una semplice costatazione. Senza di loro noi non potremmo esistere. Noi siamo i predatori, loro le nostre prede. Alla stregua di un leone e un agnello”. Il sorriso cortese di Aro sembrava voler sottolineare l’ovvietà di quella teoria. “Sei confuso, Edward”.
Di più. Edward era combattuto. Diviso, lacerato tra il desiderio di abbandonarsi agli istinti, alla sete, alla sua natura e la fedeltà, il rispetto, l’affetto che sentiva di dovere a Carlisle ed Esme.
“Hai detto la sacrosanta verità, prima: potrebbe esserci un’alternativa”, venne in suo aiuto il Maestro.
“Che cosa intendi dire?”. Edward gli rivolse uno sguardo speranzoso.
Aro si morse il labbro, come se all’improvviso si fosse reso conto di essersi lasciato sfuggire un pensiero di troppo.
“Non so se sia il caso... non sono sicuro che tuo padre…”.
“Che mio padre approverebbe?”.
Aro annuì, serio.
La speranza di Edward si tramutò in impazienza e rabbia. Socchiuse gli occhi nello sforzo di concentrarsi sul vampiro che aveva di fronte. Sulla sua mente. Sui suoi pensieri.
“Che cosa intendi dire?”, tentò nuovamente.
“Dovresti discuterne con lui. Non voglio che tra Carlisle e me nascano delle incomprensioni”.
“Che cosa intendi dire?”. Per poco Edward non ringhiò.
E inaspettatamente Aro rise. Allegro e spensierato, come se Edward avesse appena raccontato una storiella molto divertente. Prese il suo viso tra le mani, chinò il capo e lo baciò sulla fronte.
“Lo sai già che cosa intendo, mio principe Myškin”.
Si fissarono intensamente per diversi minuti, mentre Edward tentava di arginare il tumulto interiore che quel semplice gesto aveva scatenato.
“Un giorno mi spiegherai il perché di questo soprannome?”.
“Un giorno, forse, lo capirai da solo”.

Le labbra di Aro si distesero e rivelarono un sorriso enigmatico che Edward, nonostante le sue capacità, non riuscì a decifrare. Sospirò, sconfitto, e si liberò con gentilezza dalla stretta del vampiro.
Sì, aveva intravisto anche lui nel suo futuro la possibilità cui faceva riferimento il Maestro. Rimanere a Volterra… con Aro. Una nuova vita, lontano dalle imposizioni, lontano da Carlisle ed Esme. Una prospettiva allettante e spaventosa al tempo stesso.
Volse lo sguardo alla finestra che li sovrastava dall’alto. Dietro il vetro, due figure li stavano osservando con maniacale attenzione. Il tono dei loro pensieri era inequivocabile.
«Hai ragione. Mio padre non approverà».



Una giornata insolitamente lunga e carica di emozioni era giunta al termine. Edward aveva bisogno di starsene un po’ per conto suo e riflettere.
Sarebbe voluto uscire per camminare tra le vie di quella piccola e antica cittadina, per respirare l’aria calda e densa di profumi che era tipica dell’Italia e che invece era sconosciuta nei Paesi freddi in cui aveva vissuto. Gli sarebbe piaciuto altresì assistere allo spettacolo del sole che affogava nel rosso della sera imminente. Purtroppo le regole di Volterra erano molto rigide, sotto certi aspetti più rigide di quelle di suo padre. Nessun essere immortale aveva il permesso di uscire da Palazzo dei Priori prima del tramonto, salvo casi eccezionali. Così a Edward non rimaneva altro da fare che ritirarsi nella sua camera.
Mentre con la mente ripercorreva le giornate trascorse in compagnia del Maestro, egli si rese conto che, per la prima volta da quando era rinato come vampiro, si sentiva veramente a suo agio in compagnia di qualcuno. Merito di Aro, naturalmente, e della sua calorosa ospitalità. Carlisle lo aveva messo in guardia da lui più di una volta, ma il Signore dei Volturi si era rivelato un essere cortese e ospitale. Un po’ eccentrico magari, ma incredibilmente affascinante. In ogni caso, dopo due mesi di permanenza, era come se Volterra fosse diventata la sua casa.
Una nuova vita, in una nuova casa. Forse Aro aveva ragione. Forse era davvero arrivato il momento di lasciare il nido dei Cullen e spiccare il volo.
Immerso in quelle riflessioni, afflitto dai dubbi e dalle incertezze del futuro, Edward raggiunse la sua stanza. Si accorse subito che qualcuno era entrato. La porta non era stata forzata, perciò quel qualcuno doveva aver avuto la chiave.
Il primo pensiero di Edward andò ad Aro e il sussulto di sorpresa ed eccitazione per poco non gli fece sbriciolare la maniglia. All’interno, però, non c’era nessuno. Neanche l’odore del Maestro, costatò il ragazzo con delusione.
L’intruso aveva lasciato sulla scrivania un libro. L’idiota di Dostoevskij recitava la logora e spessa copertina del volume. Perplesso, Edward se lo rigirò tra le mani e lo sfogliò diverse volte, fin quando tra le pagine non trovò un bigliettino.
Occhio al nome del protagonista. Buona lettura, C.



In piedi di fronte al camino, Aro fissava il fuoco senza proferir parola. Marcus lo osservava con non poca preoccupazione. La luce arancione delle fiamme si rifletteva sulla sua pelle adamantina, generando ipnotici riverberi dorati su tutta la stanza, e nei suoi occhi neri come la pece, ricordando così la brace ardente. Quel silenzio così ostentato era innaturale per un tipo come Aro, che solitamente non perdeva occasione per chiacchierare allegramente di questo o di quello. Una caratteristica che lo aveva sempre accumunato alla sorella Didyme, si sorprese a pensare Marcus.
«Hai perso, Aro. Capita a tutti, prima o poi. Fattene una ragione», intervenne Caius, che si era seduto sulla poltrona preferita di Aro e per festeggiare sorseggiava B negativo da un calice in cristallo. Fece seguire a quell’arguta costatazione una risata sguaiata e sprezzante, che sapeva di rivincita e che ebbe la capacità di irritare perfino il pacifico e sempre impassibile Marcus.
Lentamente, Aro si voltò verso Caius. Pareva essersi appena destato da uno stato di trance.
«Perso? Chi? Io?».
L’espressione serafica del suo viso e l’enigmatico sorriso cortese per un istante lasciarono Caius perplesso e sorpreso. Ciononostante, egli non si scompose ulteriormente.
«E chi altri se no?». Poggiò i piedi sul tavolinetto e lanciò un’occhiata di sfida ad Aro. «I ciuccia-animali se ne sono andati. Il tuo piano diabolico di includere Piccolo Cullen nel nostro corpo di guardia è fallito miseramente. Forse se non fossi stato così arrogante da…».
«Forse se tu non avessi fornito al suddetto ragazzo una copia del “L’idiota” di Dostoevskij…», lo interruppe Aro con apparente pacatezza.
«Il ragazzo lo avrebbe scoperto comunque, con o senza il mio aiuto», replicò Caius. «Utilizzare il nome del protagonista di un libro per dare dell’idiota a qualcuno senza farsi scoprire è stata un’idea geniale. Devo dartene atto, Aro. Solo tu potevi ideare un insulto tanto raffinato e discreto. Spero solo che Dostoevskij e il Principe Myškin non si stiano rivoltando nella tomba».
«Forse, a differenza tua, Dostoevskij aveva senso dell’umorismo, fratello caro». Aro portò le mani dietro la schiena e tornò a fissare le fiamme nel camino. «E per la cronaca, io non ho perso».
«Ma davvero?».
Lo scetticismo di Caius aleggiava nella stanza come uno spettro dispettoso.
«Non ho mai detto che desideravo avere Edward nel nostro corpo di guardia…».
«Oh, andiamo!», sbuffò esasperato Caius.
«…sarebbe stato un effetto collaterale alquanto gradito, non lo nego. Ma lo scopo primario era un altro», spiegò Aro.
Marcus incrociò le braccia al petto, senza mai perdere di vista Aro. Stava mentendo? Vivevano insieme da un tempo relativamente infinito eppure aveva ancora qualche difficoltà a distinguere la verità dalla menzogna sul suo volto.
«Ti stai arrampicando sugli specchi, Aro».
A quanto pareva, Caius non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta. Mandò giù l’ultimo sorso di liquido borgogna e con una leggere pressione del pollice e dell’indice polverizzò il calice dal quale aveva appena bevuto.
«Convincendo suo figlio a ripudiarlo, volevo solo dimostrare a Carlisle quanto il suo stile di vita fosse utopistico e folle».
Marcus vide Aro sorridere in direzione delle fiamme.
«Be’, hai fallito comunque, no? Piccolo Cullen se n’è tornato in America con paparino e mammina», lo derise Caius.
«Non è ancora detto, fratello caro. Penso che dovremmo concedere del tempo a Edward. È un tipo… tardivo. Probabilmente, grazie al tuo zampino, non farà più ritorno a Volterra, ma… chissà! Tra qualche anno potrebbe comunque lasciare la casa di suo padre».
«Cazzate!», insorse Caius. «Quel piccolo ciuccia-animali effeminato non ha le palle abbastanza grandi per fare una cosa del genere».
Ancora una volta, un sorriso misterioso fece capolino sul viso di Aro. «Vogliamo scommettere?», chiese poi con sguardo innocente.
Per un secondo, Marcus valutò la possibilità di intromettersi nella conversazione e impedire a Caius di rovinarsi con le sue stesse mani. Ma Marcus non parlava mai, purché non lo ritenesse strettamente necessario. E quella circostanza non rientrava in un simile caso.
«E sia!», esclamò un Caius sicuro del fatto suo. Si alzò di scatto dalla poltrona e diede una violenta pacca alla spalla del fratello. «Preparati a perdere di nuovo, fratello caro».



Forks
Ottobre, 2010


«Fammi capire bene», esclamò Bella. Si sollevò sui gomiti e guardò il marito dritto negli occhi. «Vorresti farmi credere che il tuo periodo di ribellione adolescenziale e l’allontanamento da Carlisle sono dovuti al libro di Dostoevskij e agli insulti di qualcuno?».
Edward scosse la testa.
«Non sono stati né la causa scatenante, né la goccia che ha fatto traboccare il vaso - infatti furono necessari ancora cinque anni, prima che io riuscissi definitivamente a… emanciparmi da Carlisle - e la storia è un po’ più complicata di come la riassumi tu, ma…».
«Non farla tanto lunga, Edward!».
«…ma, sì. Il libro e gli insulti hanno contribuito».
L’espressione di Edward non lasciava trapelare alcuna emozione.
«Non può essere soltanto questo. Mi stai nascondendo qualcosa. C’entra per caso una qualche vampira super-sexy che non ha ricambiato il tuo amore e di cui io non so nulla?».
Purtroppo Bella non era brava quanto il marito a celare i propri sentimenti, perciò la gelosia sgorgò fuori a fiotti. E ovviamente Edward se ne accorse.
«Sei gelosa», affermò compiaciuto e sorrise sghembo.
Prese il viso della moglie tra le mani, chinò il capo e la baciò sulla fronte.
«Sta’ tranquilla, mia amata. Amo te e soltanto te».
Adesso. Sembrava proprio che a quella frase mancasse la parola adesso.
Ma Bella decise di tenere per sé quell’inquietante considerazione.



Volterra
In quello stesso momento


Marcus si era trovato per caso a passare davanti alla porta dello studio di Caius, quando lo sentì discutere animatamente con la segretaria Gianna.

«Signor Caius, Mio Signore. C’è il Primo Ministro al telefono».
«Che diavolo vuole adesso, quel vecchio culo flaccido?».
«Ha accennato qualcosa riguardo a una telefonata e alla nipote di non-ho-ben-capito-chi».
«Digli di richiamare più tardi, adesso non ho tempo».
«Vorrebbe chiederle un parere, sostiene che è urgente. E il Signor Aro dice che è un suo compito, Mio Signore. Mi ha chiesto di ricordarle, inoltre, che “una scommessa va onorata fino in fondo”».
«E va bene, cazzo. Me ne occuperò io. Dannazione! Scommettere cento anni di rapporti diplomatici con i Primi Ministri italiani. Come diavolo mi sarà venuta in mente un’idea del genere? Che tu sia dannato, Aro. Che tu sia dannato!».
«Mio Signore, no! La collezione di vasi Ming di Donna Atheneodora, no!».

Il tipico rumore della porcellana pregiata che andava in frantumi contro una parete convinse Marcus a intervenire prima che fosse troppo tardi. Trovare una segretaria efficiente non era cosa facile e Aro teneva particolarmente a Gianna-Dono-di-Dio.





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Nota autore:
Siete arrivati fino a qui? Beh, avete tutta la mia ammirazione e quella di Aro, ovviamente.
Questa one-shot non cerca in nessun modo di entrare nel merito dell’opera di Dostoevskij. L’idea di chiamare qualcuno ‘Principe Myškin’ per dargli implicitamente dell’idiota è stata desunta da un fumetto di Spiderman (“Trasformazioni letterali e non” di J. Michael Straezynsky), nel quale il personaggio Ezekiel usa lo stesso espediente per insultare il suo contabile.
Vi state chiedendo come mai Edward non si sia accorto dei doppi fini di Aro, dal momento che Piccolo Cullen possiede il potere di leggere nella mente?
Edward legge soltanto i pensieri superficiali. Quindi, una persona abbastanza esperta e allenata potrebbe essere in grado di non pensare certe cose e non farsi scoprire. E se ci riesce Alice, perché non dovrebbe riuscirci un vampiro di tremila anni?
‘Gianna-Dono-di-Dio’ è un riferimento a un’altra mia one-shot, ‘Cambio di personale’.
Credo sia tutto.
Grazie in anticipo a chi leggerà e a chi, spero, commenterà questa one-shot.
Bacioni, vannagio.
   
 
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