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Autore: crimsontriforce    21/02/2011    0 recensioni
Tanto più forte il legame, tanto maggiore la necessità di voltare lo sguardo. I bambini non salveranno il mondo, ma non per questo non meritano una seconda possibilità. Resterà una storia di brave persone.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Achenar, Catherine, Yeesha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '3. Storia antica ma non troppo'
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Parole a strisce


Let her go places that we’ve never been
Neil Gaiman (Blueberry Girl)







Il cacciatore piantò la lancia nella sabbia e chiuse gli occhi per concentrarsi sul richiamo. Aveva sentito bene: coot, coot, coot, gracchiava una voce in lontananza. La voce di un uccello giovane e petulante, un uccellino di un altro mondo. Coot, coot, coot.
Rispose a suo modo, con un chiocciare più profondo.
A conferma del codice, il primo verso sgraziato trillò in un cinguettio prima di tacere, in attesa.



“Verrà?”
“Verrà, mamma.”



Con le mani ancora avvinghiate all'arma e le sopracciglia corrucciate come a fronte di una giocata d'azzardo, Achenar decise di lasciare la lancia lì, in bella vista sulla spiaggia di Haven, col rischio che un karnak impertinente scendesse in picchiata e se la portasse via, e saluti a mesi di lotta territoriale. Poter tornare a far base sulla costa sarebbe stato importante – farsi vedere dal suo uccellino senza sangue fresco sulle mani lo era di più. Conficcò l'arma con più forza nel terreno. Il vento era calmo nonostante la stagione delle piogge; l'acqua rossastra dell'Era si accaniva sugli scogli, ma non avrebbe raggiunto la sua posizione. A scanso dei maledetti karnak, l'avrebbe ritrovata al ritorno.
Achenar sguazzò a riva per ripulirsi alla buona mani e piedi. Tentò più volte di passarsi le dita fra i capelli ricci, preso dall'ansia di non essere abbastanza in ordine per la sua sorellina che profumava di sapone, di carta e di acqua dolce. I nodi persistenti nella chioma incolta ebbero la meglio. Achenar era Achenar, si sussurrò, sconfitto: Achenar sapeva di salmastro e di uragano.
Con lo scemare dell'ansia, andata via come un riflusso di marea, nella sua testa iniziarono a farsi strada le storie degli ultimi giorni che le avrebbe raccontato. Erano scoppi d'immagini, frammenti sconnessi ancora ben lungi dall'essere espressi in parole: quelle le avrebbe trovate sul momento, si diceva, anche se finiva spesso per raccontarle più a gesti e urla e accozzaglie di sillabe legate solo da una tenue parvenza di sintassi. Ma Yeesha stava ad ascoltarlo e gli sorrideva, con quella faccetta da una che ha visto tutto e capito tutto e ascolta di buon grado cose che già sa.
Achenar non era sicuro di come si facesse ad avere una faccia simile a sette anni. Sirrus non ci riusciva a trenta, e non per non averci provato.

Con una violenta strattonata alla camicia, per lisciarla un poco, si avviò verso la gabbia metallica da cui era giunto il richiamo. Una cupola, due sedie e una fila di sbarre: la prigione al contrario che era l'unico punto di accesso ai mondi e alle vite che da sedici anni scorrevano lontano da lui.



Yeesha lo aspettava compunta nella sua metà di cella, di fianco al libro per Tomahna. Ma non era sola. Catherine le appoggiava una mano sulla testa, guardando per terra come al solito, con le spalle curve come al solito e l'espressione triste di una che ha visto tutto e Achenar sapeva che in quel tutto le cose peggiori gliele aveva fatte vedere lui. C'era sempre sangue sulle sue mani, troppo secco per venir lavato, e così Yeesha lo stava vedendo.
Fece un passo indietro.
“Via”, disse. “Via!”
“Pensavo che... lei voleva...”, tentò di spiegarsi la bambina.
“Via!”
Yeesha obbedì, spaventata. “Scusami”, mormorò prima di appoggiare il palmo sull'immagine del libro.

“Madre”, salutò truce quando sua sorella fu svanita del tutto, ancora sull'eco del suo collegamento.
Catherine non sembrava avere intenzione di andarsene. E ancora non lo stava guardando. Indicò un piccolo involto appoggiato sul vano mobile che permetteva loro di scambiarsi piccoli oggetti. “Perdonami. Ma questa va mangiata calda... e non sapevo altrimenti quando l'avresti trovata.” Si girò verso il libro. Aveva sempre gli occhi bassi.
Il profumo di zucchine e formaggio colpì diretto allo stomaco di Achenar, che si avvicinò con una cautela tutta ferina al pacchetto, quasi fosse dubbioso che non si trattasse di una trappola. In un certo senso lo era, concluse fra sé, quand'era a tre passi dal poterlo afferrare – e, con lo stesso gesto, dal dichiararsi domesticato.
Per lunghi secondi, tutto quel che esternò dei suoi dubbi fu un ringhio.
“Non di nuovo!”, disse infine a voce troppo alta per quelle pareti così strette, stringendo un pugno a vuoto.”Basta! Dimenticateci!”
Catherine rimase immobile. “Non posso.” Dopo una breve riflessione aggiunse, a bassa voce: “Neanche Atrus. Volevo dirti solo questo: neanche Atrus.”

Sua madre era vecchia, alla luce fioca della gabbia: la penombra non faceva sconti. Era vecchia sotto gli occhi e attorno alla bocca e sulle spalle e Achenar ricordava che non era stata così vecchia appena tre anni addietro, quando la cupola metallica era comparsa da un giorno all'altro incassata fra gli scogli. Sempre più spaccata dal cuneo degli orrori suoi e di Sirrus e sempre più fragile, eppure continuava a imporsi alla sua soglia per un qualche fine noto a lei sola. Non fosse stato per sua sorella, avrebbe murato da tempo la maledetta porta.
“Cosa vedi, madre?”, chiese.
Sorpresa, Catherine socchiuse gli occhi. Cosa vedeva in suo figlio?
“Vedo... vedo molte cose.” Pausa. Quante ne aveva pensate e non stava dicendo? “Vedo cascate sulla tua pelle e foglie umide sopra le tue mani: quest'Era è diventata parte di te. Vedo la solitudine che si è coagulata negli anni. Più di sedici. Molti più di sedici. Vedo quello che non vedevo allora...”
Achenar capì cosa intendeva con la cascata e le foglie e gli piacque, ma il discorso gli divenne progressivamente meno chiaro, come era accaduto spesso in passato. Rimase inerte di metafora in metafora fino a che la sentì parlare del rivedere in lui la sua patria, ripercorrendo il legame formato da quel gesto insensato di tanti anni prima. Non lo disse con odio e questo lo spaventò.
“Non Riven”, disse senza preoccuparsi di specificare un verbo. “No, no. Riven mai.”
Catherine impiegò qualche secondo per trovare la parola perdonare al suo posto e altri per decidere come spiegare che i mondi non sono dipinti per assoluti in bianco e nero. Non aveva perdonato, spiegò. Non li avrebbe mai perdonati, ma. Allungò una mano oltre le sbarre aprendola in segno di carezza, ma Achenar si ritrasse al primo tocco.
Senza demordere cercò di sfiorarlo con le parole invece che con i gesti, ricordandogli le storie che erano soliti raccontarsi, i posti segreti sulla spiaggia e mille ricordi che aveva perso ma che al tatto della memoria riconosceva come veri. Achenar disprezzò il rimpianto sul volto di sua madre, il suo fallimento che scorreva come una fune arpionando un aneddoto dopo l'altro, ma scoprì di volersi riappropriare dei suoi ricordi e restò nei pressi dell'entrata. Fuggire era quello che avrebbe fatto una preda.
Catherine parlava del passato toccando ogni ferita delle proprie colpe, ma le sue labbra si bloccavano nel passare con la stessa semplicità alle sue. “Siamo nelle mani di un piano più grande”, disse a un tratto come spiegazione. E quello non era uno dei suoi ricordi. Nei suoi ricordi, il piano più grande finiva in un incendio.
“Voi lo siete. Forse. Forse no. Ma se sì, voi. Noi piccoli, noi e suo padre. Finiamo nelle nostre Ere-bolle. Mamma”, disse, cercando un appiglio. C'erano troppe parole fra cui scegliere. Alla fine scandì: “Noi ci estinguiamo qui.” Non era una bella immagine e lui non era abituato a pensare così distante, ma qualcosa gli diceva che era solo un bene che le loro scelleratezze si spegnessero in solitudine, dimenticate da tutti.
“No, c'è dell'altro. Qualcosa ancora. Fidati.”
“Sì, c'è!”, tuonò. Era così chiaro, possibile che non lo vedesse? “Scordatevi di noi e... e altre parole. Torna domani.”
“Achenar...”
Ma Achenar era già uscito.



L'indomani, la pioggia batteva pesante sulle pareti della gabbia. La torta, notò Catherine, non c'era più. Al suo posto trovò un foglio di carta giallastra, spiegazzato e pieno di cancellature furiose. Non riuscì a decifrare le parole sommerse dalle righe d'inchiostro; tutto quello che rimaneva leggibile, nell'ultimo angolino utile in basso a destra, era:
Fatela arrivare dove noi non siamo stati.
Catherine strinse al petto il foglio.
Suonò più e più volte la sirena che segnalava l'arrivo di un visitatore, ma sapeva che latrare come un cane alla porta di suo figlio era inutile. Le sbarre di quella prigione erano salde in entrambi i sensi.

Lontano, nella foresta a sud, sotto il tetto precario della sua palafitta, Achenar sentì un ululato lontano mischiarsi al ritmo delle gocce d'acqua. Restò a letto a scontare il passato.

























Tre due uno tutti in coro:
] Under the sun is the bringer of destruction.
] To the wound the bringer of pride returns.
] But the son of the son will carry the burden.
] And his wife will face the storm.
] Give him a pen, and he will plan.
] Give her a pen, and she will dream.
] And a daughter will carry the burden of her father.
] And the daughter of the daughter will live in peace.
...manca qualcuno? Ecco.
L'idea originale prevedeva un discorso più organico fra madre e figlio riguardo al (non-)ruolo dei fratelli nella Storia, ma... Achenar? Discorso organico? Ssssì, proprio.
   
 
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