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Autore: A li    02/03/2011    7 recensioni
[Postato secondo capitolo: 'Starbucks']
Quella sera, era probabilmente il 7 di luglio, nel palazzo non c’era anima viva. (...)
Sentii i brividi percorrermi dalle gambe al collo. Era irresistibile.
Niente e nessuno era mai stato in grado di farmi impazzire fino a quel punto di non ritorno. Di dipendenza irreversibile ed eterna.
Solo lui.
Solo Dominic Howard.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Feeling good

Luce di stelle

Starlight

 

 

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Disclaimer: I personaggi che si formano di loro spontanea volontà in questa storia, purtroppo non mi appartengono. Sono un po’ come i figli, li puoi crescere ed educare finché vuoi, ma alla fine ti sfuggiranno.

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1. Starlight

 

L’appartamento all’interno era completamente buio.

Non una presenza, non un rumore. Regnava un silenzio incontrastato.

Si respirava quell’aria d’attesa, di tremula eccitazione, di quando sta per accadere qualcosa d’importante. La luna fremeva per poter filtrare attraverso le persiane chiuse; i lampioni spandevano curiosi la loro luce gialla fino al secondo piano, fino a quell’angusto appartamento nel centro di Londra.

Erano due rampe di scale: si avvolgevano su se stesse, come una grande e pesante chiocciola, finché sbucavano proprio davanti alla porta di quell’appartamento. Sul campanello campeggiava un nome a caratteri cubitali. Kirk. A sinistra, una finestra con un’immensa vetrata rasserenava il piccolo ingresso e concedeva, di sfuggita, la vista incantevole e meravigliosa della città.

 

Quella sera, era probabilmente il 7 di luglio, nel palazzo non c’era anima viva.

Qua e là si sentiva sussurrare che tutti si erano catapultati giù per le scale alle sei del pomeriggio, in modo da non mancare il grande appuntamento allo stadio. Concerto dei Radiohead. Per gli inquilini del palazzo doveva essere qualcosa di importante, perché non era rimasto proprio nessuno.

Il silenzio era totale, immobile e irreale.

 

Rimaneva soltanto quella febbrile eccitazione, in quell’appartamento al secondo piano, con la grande finestra, il campanello. E il nome Kirk.

 

Verso l’una di notte, cominciarono a sentirsi i primi rumori.

Fu inizialmente uno scalpiccio fuori dalla finestra. Erano due passi, due andature diverse ma simili: uno agitato e svelto, l’altro nervoso e più lento. Percorrevano Madison Street nella solitudine, nella notte e nel silenzio.

Dopo i passi, cominciarono i mormorii. Erano frasi spezzate e appena percettibili, risalivano la scala precedendo di poco i passi e precedendo di miglia le bocche da cui provenivano. Le voci si alternavano l’una all’altra, si sovrastavano e a volte interrompevano la loro cantilena.

Davanti alla porta dell’appartamento, arrivarono così due passi, due voci.

Due persone.

 

~

 

Aprì la porta con uno spintone, sfilando la chiave appena in tempo per non spaccarsi il polso.

Che fretta Dominic.

Lo tenni per me, ma avrei voluto dirglielo in faccia, tanto per vederlo arrossire alla luce dei lampioni che proveniva dalla grande finestra all’ingresso.

Lo agguantai per i fianchi, strinsi con forza il suo bacino e lo feci aderire al mio.

Sentirlo mugolare mi mandò in fibrillazione, come sempre.

Riuscii a bestemmiare soltanto mentalmente – sapevo che non sopportava quel genere di cose. Ma era quello che di più eccitante potesse esistere, con quelle labbra carnose e rosse, consumate dai miei stessi baci, schiuse, e quella camicia alla moda aperta fino a scoprire il petto liscio.

Mi permisi un attimo per osservarlo, perché sapevo che poi non sarei stato più in grado di farlo, né di controllarmi.

Scesi con gli occhi dal suo mento alle sue spalle, dalle spalle al petto, dal petto all’ombelico, perfettamente rotondo, dall’ombelico al cavallo dei pantaloni, fin troppo stretto.

Sorrisi, constatando quale effetto provocavo in lui.

- Non mangiarmi con gli occhi; mangiami e basta.

La sua voce, bassa, raggiunse il basso ventre prima delle orecchie.

Risi, appoggiandomi su di lui; avvicinai la bocca al suo orecchio.

- I cannibali non ti spaventano?

Sentii il suo petto fremere in un tentativo di risata.

- Per niente.

Assaggiai il lobo del suo orecchio. Rabbrividì.

In un attimo si era sciolto come cera tra le mie mani calde.

- Non hai paura?

- No -, insistette.

E sapevo che non ne aveva, perché era come me.

Ma mi concessi ancora qualche secondo di lucidità per divertirmi.

- Dovresti averne -, lo avvertii.

Infilai una mano direttamente nei suoi jeans, lasciando soltanto i boxer attillati a dividermi dalla sua eccitazione evidente. Fu scosso da uno spasmo involontario per il mio gesto, lanciò un gemito.

Chiusi gli occhi e mi avventai sulle sue labbra, incontrando la sua lingua al primo impatto.

La mia mano libera gli strinse i capelli, artigliò la sua testa e spinse la sua fronte contro la mia, costringendo i nostri nasi a cozzare.

Il suo corpo perfetto aderiva al mio, lo completava.

Sentii i brividi percorrermi dalle gambe al collo. Era irresistibile.

Niente e nessuno era mai stato in grado di farmi impazzire fino a quel punto di non ritorno. Di dipendenza irreversibile ed eterna.

Solo lui.

Solo Dominic Howard.

La luce mi infastidiva, penetrava le palpebre e raggiungeva la mia mente dove avrebbe dovuto esserci soltanto intenso e spasmodico piacere. Allontanai per un attimo la gamba destra dal suo posto tra quelle di Dom.

Con un colpo secco, chiusi la porta dell’appartamento.

 

Vederlo rivestirsi era una delle cose più belle.

Aveva una cura maniacale per ogni capo d’abbigliamento: che fosse una sciarpa o il suo nuovo paio di jeans firmati all’ultimo grido, aveva il diritto a cure e attenzioni tanto quanto ogni altro membro del suo immenso armadio.

Così capitava che a volte, dopo del buon sesso, si disperasse o cadesse in paranoia.

Era tipico di lui.

È colpa tua, diceva. Non so mai dove ho la testa quando sono con te.

E non importava che gli ripetessi che in realtà la sua testa era perfettamente a posto perché lo avevo baciato per tutto il tempo; non coglieva l’ironia, sbuffava infastidito e girava per la casa nel tentativo di trovare un paio di boxer, o gli occhiali, o addirittura le sue calze preferite. Con che criterio le scegliesse, non ero mai riuscito a capirlo. Per me le calze erano tutte uguali: bianche, nere o colorate, ma che importava.

Bastava che fossero calze.

Effettivamente vederlo girare mezzo nudo per l’appartamento non era un’esperienza così negativa. Se abbassavo il volume mentale delle sue lamentele, riuscivo a godermi lo spettacolo di un Dom in mutande e calze, che vagava in cerca dell’ultimo oggetto perduto.

Questa volta ero riuscito a fargli scappare la sua adorata camicia.

- No, Matt, tu non capisci. Ti sembra normale? Una camicia non sparisce. Dimmi dov’è, te lo ordino.

Alzai le spalle, cercando di spandere innocenza con ogni parte del corpo.

Non ne avevo la più pallida idea.

Ricordavo solo di avergliela tirata via con forza e averla gettata alle mie spalle quando ancora eravamo sulla porta. Ma ero troppo preso da lui. Come poteva pretendere che me ne ricordassi?

- Cazzo, Matt, almeno aiutami!

Risi di gusto.

Era un caso perso.

Rinunciò a coinvolgermi nella sua ricerca e tentò di sbrigarsela da solo.

Mi accesi una sigaretta in santa pace, assorbendo tramite nicotina la tranquillità a cui avevo rinunciato, più che volentieri, quella notte.

- A proposito -, gridò Dom dalla stanza accanto, - stamattina mentre dormivi, i vicini sono venuti a lamentarsi.

- Cosa? E di che?

Ma soprattutto, quali vicini?

Tom aveva detto che sarebbero stati tutti, vecchi compresi, allo stadio per i Radiohead.

- Non lo so, un tipo che ha detto di essere Il-signor-Thomas-del-piano-di-sotto. L’ha ripetuto più o meno cento volte. Ha detto di aver sentito dei ‘rumori molesti’ per tutta la notte.

Sentii la risata chiara di Dom diffondersi nella stanza.

- Mi ha fatto chiaramente capire che mi consigliava di andare a puttane da un’altra parte.

- Lo prendo come un complimento!, gli gridai.

- Come vuoi…

Aspirai una boccata dalla sigaretta e m’impegnai per creare cerchi di fumo con la bocca. Era una cosa impossibile, ci provavo più o meno da un mese ma non mi riusciva.

Naturalmente questo non valeva per Dom, che sapeva soffiare fuori da quelle labbra rosse anche tre cerchi concentrici di fumo, come un vecchio indiano.

M’innervosii tanto per l’invidia che finii per consumare la sigaretta prima del tempo. La gettai nel posacenere, imbronciato, e mi alzai dal letto. Non riuscivo più a starci.

Diedi un’occhiata al panorama fuori dalla piccola finestra della camera. Dom aveva spalancato le persiane per far entrare la sana luce del sole del mattino, come la definiva lui. Cosa che, naturalmente, mi aveva svegliato da un morbido sonno in cui sognavo ancora il sesso della notte precedente.

Sì, forse ero un po’ maniaco; Dom doveva avere ragione su questo.

Comunque Londra era un miraggio irresistibile quella mattina. Il sole, così raro, la accarezzava appena con i raggi tremuli della prima mattina, accompagnando la vita frenetica di una città multietnica e industrializzata. Il cielo era di un particolare azzurro-grigio, come se temesse ancora la tempesta.

- Bella, eh?

Dom si era avvicinato e aveva appoggiato il naso al vetro, per guardare fuori.

Annuii.

- Hai trovato la tua roba?

Con faccia colpevole, alzò le mani e mostrò la famosa camicia, appallottolata come un gomitolo e tutta sporca.

- L’ha presa Jimmy -, ammise.

- Dimmi che scherzi.

Scosse la testa, probabilmente sperando che un sorriso bastasse a tenermi a bada.

- Sei tu che volevi il gatto.

- Sì, lo so; infatti non mi sto lamentando, come vedi.

Sperai che non dicesse sul serio.

- Sono quarantacinque minuti che ti lamenti, Dominic.

Il suo sorriso si allargò e contagiò gli occhi. Conoscevo quella mossa, lo faceva quando voleva convincermi a passare dalla sua parte.

- Mi perdoni se ti propongo uno scambio?

- Dipende…

Lo guardai ricambiando il sorriso con malizia.

Dom si dondolò sul posto come un bambino dispettoso, abbassando gli occhi per fingere timidezza.

- E se io ti promettessi tanto sesso in cambio del tuo perdono?

- Andata.

La mia mano era tesa verso di lui prima che le parole raggiungessero il cervello.

Dom inclinò la testa da un lato, come un cane, osservandomi a metà tra lo sconcertato e il divertito.

- Sì, tu sei un pervertito, Matthew.

Scrollai le spalle. Non m’importava.

Dom rise e si voltò, dirigendosi ancora nell’altra stanza. Si era completamente rivestito e non potevo godermi nessuna squisita parte del suo corpo.

 

Quando lasciammo l’appartamento era quasi mezzogiorno.

Dom aveva cambiato vestiti almeno tre volte prima di decidere definitivamente cosa mettere.

- I ragazzi ci staranno aspettando -, si lamentò.

- Aspetteranno. Non sarà questo a ucciderli.

- Ma dobbiamo organizzare il tour!

Gli lanciai un’occhiata eloquente, mentre davo un giro di chiavi in più del necessario.

- Showbiz? È il mio bambino, non va da nessuna parte.

Dom sbuffò e capì che non c’era possibilità di discutere su quel punto.

La scala a chiocciola ci sembrò più semplice della sera prima. Percorrerla salendo, al buio, era stata un’impresa non da poco. Avevamo dovuto sbattere tre volte nel corrimano per capire che era una spirale e che, di conseguenza, girava su se stessa.

Arrivati al primo piano, ci scontrammo con un vecchio rugoso che portava a spasso un piccolo cane, un bassotto. Ci squadrò e qualcosa nell’espressione di Dom mi fece capire chi fosse.

- Buongiorno signor Thomas -, salutai.

Tesi una mano verso di lui, ma il vecchio continuò semplicemente a guardarmi, in modo sfacciatamente disgustato, e se ne andò un attimo dopo, scendendo le scale.

Dom scosse la testa rassegnato, massaggiandosi le tempie.

- Beh? -, protestai.

Non avevo fatto nulla di male.

Ma Dom mi spinse in fretta giù dalle scale.

- Certe volte sei proprio lento -, disse, - Quello ci crede una fantastica coppia, adesso.

- E allora?

Lasciai che la mia risata riempisse l’aria dell’ingresso del palazzo.

- Per me può credere tutto quello che vuole.

Dom sospirò e non rispose nulla.

Ma in fondo non gliene importava un granché.

 

 

Del resto eravamo giovani.

E quando uno è giovane, non gl’importa mai un granché.

 

 

---

Fine capitolo primo.

{Ali}.

   
 
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