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Autore: Dilandau85    02/03/2011    1 recensioni
Breve fanfiction di pochi capitoli scritta di getto dopo aver visto l'anime di Gantz, in particolare su Joichiro Nishi. Un ipotetico racconto sul suo anno nella stanza della sfera nera, dal volo dal tetto alle vicende iniziali del manga/anime.
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La campanella della scuola era suonata alle otto in punto come tutti i giorni, e come tutti i giorni lui era entrato nell’aula perfettamente in orario. Il vociare rumoroso nell’aula scemò fino a diventare un brusio di sottofondo mentre tutti i ragazzi prendevano posto; sapeva che era per il suono della campanella e l’imminente arrivo del primo professore, ma in un certo senso era come se ciò fosse connesso anche col suo ingresso in classe.
“E’ arrivato anche quello strano...”, un ragazzo vicino a lui commentò ridacchiando coi suoi amici.
“Siete solo feccia”, Joichiro Nishi questo lo pensava ogni giorno, mentre ignorava tutto ciò che dicevano su di lui. Fondamentalmente sapeva che era per invidia, anche se non era solo questo. Nishi non aveva niente da invidiare a nessuno. Aveva una bella famiglia alle spalle, agiata se non proprio ricca, ma soprattutto aveva ottimi risultati negli studi. Era il fatto che un individuo a loro vista così strano e diverso andasse così forte, era questo che dava loro fastidio, lo sapeva. Nishi non era il primo della classe. Era tra i primi, ma non aveva l’eccellenza. Ma d’altronde spendeva così poco tempo a studiare che doveva ritenersi fortunato ad avere quell’intelligenza tale da portargli quei bei voti.
La lezione era già iniziata, per quel che importava, e Joichiro si guardò intorno tra i suoi compagni di classe, ora che finalmente non lo stavano più fissando. Che nullità che erano: c’erano i nerd sfigati e sfegatati, alla sua destra, emarginati dal mondo reale e confinati nella finzione dei loro fumetti preferiti; anche lui in cuor suo si sentiva un po’ nerd; quanto meno, anche se non avesse voluto, l’avrebbe dovuto ammettere guardando la vita che conduceva ogni giorno. Tuttavia non sentiva di avere niente in comune con quei ragazzi; lui lo sapeva, era un gradino sopra a loro. I nerd, poi, insieme ai secchioni che occupavano le prime file, erano il bersaglio preferito dei bulli, la feccia peggiore di tutte che occupava le ultime file dei banchi. Neanche ai secchioni assomigliava. La caratteristica di questi sfigati era vivere in un costante panico, giorno e notte. Prima di tutto per i risultati conseguiti negli studi. Dedicavano tutta la loro vita di adolescenti allo studio, a causa delle pressioni dei loro genitori. Dovevano studiare e prendere buoni voti, altrimenti sarebbero stati dei falliti nella vita; peccato che fossero già dei falliti così com’erano, e il bello è che non se ne rendevano nemmeno conto. Molti di loro, nonostante la fatica che facevano quotidianamente, non riuscivano a raggiungere neanche la metà dei suoi risultati. Il loro secondo terrore invece erano i bulli. C’erano cinque ragazzi ripetenti nella loro classe e il più grande aveva sedici anni, ovvero era stato già bocciato tre volte. Avevano il loro gruppo con le sue stupide e ferree regole, erano maleducati, prepotenti, cattivi. Si divertivano a estorcere soldi ai più deboli, a schernirli, umiliarli davanti a tutti e alzavano le mani per un non nulla. Erano grossi, pericolosi e imprevedibili. In comune con lui avevano soltanto una cosa, ovvero il sentirsi superiori alla media, e l’arroganza che scaturiva da ciò era qualcosa che non era estraneo neanche a lui. Nishi non alzava mai le mani con nessuno, pensava soltanto a se stesso. Ma se per difendere i propri interessi si fosse dovuto scontrare con terzi anche lui non avrebbe avuto scrupoli. I bulli non lo tormentavano spesso, fortunatamente. Benché fosse basso di statura e esile di corporatura aveva i suoi modi per difendersi: o si vendicava in maniera arguta e crudele quando nessuno se lo aspettava più (e di sicuro i risultati delle sue vendette erano ben peggiori di ritrovarsi qualche livido addosso e il portafoglio svuotato), o tirava in ballo il prestigio di suo padre e i rischi che avrebbe portato l’inimicarsi con uno come lui, o infine, quando si trovava in stato di emergenza, ricorreva al bluff. Mentire gli riusciva bene e con naturalezza, e finché gli altri gli credevano la menzogna sortiva gli effetti desiderati. Tutto ciò faceva una sorta di paura persino ai bulli, che avevano affiancato all’aggettivo “strano” con cui lo deridevano e si riferivano a lui anche l’aggettivo “da brivido”, perché in fin dei conti con quel suo sguardo di ghiaccio e la sua lingua biforcuta riusciva tranquillamente a mettere in soggezione le persone. Infine, l’ultima categoria della fauna che popolava la sua classe erano le ragazzine: più frivole e più mature dei coetanei maschi al tempo stesso, occupavano le prime file dell’aula. Erano precisine, ligie al dovere e allo studio, sempre inappuntabili su tutto. La cosa che più lo faceva incazzare di loro era che erano quelle che più di tutti sfoggiavano la loro integrità morale. Certo, probabilmente molte di loro erano davvero nella posizione di avere la coscienza apposto da poter giudicare moralmente tutto il resto del mondo e rimproverare i comportamenti scorretti degli altri. Perfino i bulli di fronte alle loro ramanzine spesso tacevano mestamente. Ma lui odiava i moralisti in genere, perché erano spesso le persone più ipocrite e false che si potevano trovare. Erano una brutta categoria, da cui stare alla larga. Anche se questo si era tradotto per lui in uno stare alla larga da tutti, perché non vi era persona che non ritenesse esterna a questa categoria. Le ragazzine erano tutte carine, chi più chi meno (eccetto le due racchie a sinistra che erano davvero inguardabili e che a stento si sarebbero potute definire addirittura esseri umani!), ma non avrebbe sprecato neanche una sega su di loro. Non ne valeva la pena; lui non era come i rattusi dei suoi compagni di classe.
Dopo otto ore finalmente la campanella suonò di nuovo. Anche quella giornata di scuola era finita. Si diresse a piedi verso casa, da solo, ascoltando le chiacchiere di un gruppetto di ragazzi che lo precedeva di poco. Che palle, i loro argomenti erano così insulsi e mediocri che gli veniva la nausea a guardare come si esaltavano per le stupidaggini che andavano dicendo.
In breve arrivò a casa sua. Era la più bella del quartiere; d’altronde suo padre era uno potente per davvero e guadagnava bene col suo stipendio; in compenso a casa non c’era mai. Suo padre era forse l’unica persona che Nishi ammirava di cuore. Appena entrato in casa l’unica cosa di cui aveva voglia era rinchiudersi nella sua stanza fornita di tutti i comfort; invece fu fermato da sua madre,
“Joichiro, tesoro, com’è andata a scuola oggi?”
“Bene, grazie”, si tolse le scarpe e riprese ad avviarsi, “Ho preso 9 al compito di inglese”
“Sei sempre il più bravo! Anche quest’anno se la tua pagella sarà come credo potrai scegliere il regalo che vuoi”
“Be’, grazie”
Strano che sua madre non l’avesse rimproverato per non aver preso 10. I suoi professori lo dicevano sempre che se si fosse applicato di più avrebbe raggiunto il massimo, ma se a suo padre poteva importare tutto ciò, sua madre sembrava già così contenta per ciò che portava a casa gratis che quell’idea non la sfiorava neanche. Probabilmente la sua reazione sarebbe stata la stessa se a quel compito avesse preso solo 7. Possibile che sua madre fosse così mediocre? Forse non sapeva che non sprecava una sola ora al giorno sui libri per ottenere quei voti? Anche questo gli dava fastidio.
“Io vado nella mia stanza”, basta, voleva solo stare un po’ per conto suo rinchiuso nel suo mondo.
“Ma Joichiro, è una così bella giornata! Perché non esci un po’ e vai a giocare con qualche amico? Hai bisogno di svagarti un po’, guarda come sei pallido”
A quelle innocenti affermazioni la rabbia che latente covava dentro di lui esplose all’improvviso e con ferocia, “Ma sei stupida?! Devo studiare!”, le urlò maleducatamente in faccia.
Si rendeva conto che più che passava il tempo e più che diventava irritabile. Ci fosse stato suo padre non avrebbe esitato a mettergli le mani addosso e a punirlo, giustamente, ma se d’atronde ci fosse stato suo padre mai e poi mai si sarebbe azzardato a rispondere a quel modo a sua madre. Sua madre d’altro canto era rimasta ferita indubbiamente, ma anche zitta, ed era per questo che era stupida due volte. Forse in cuor suo avrebbe sperato in una reazione diversa da parte sua; invece questo modo di essere trattato lo faceva incazzare. Il mondo era davvero un casino, un casino risolvibile solo con una bella bomba atomica, a suo parere.
“Magari esco a fare un giro più tardi”, disse nel suo classico tono calmo e glaciale, come ad alleviare col freddo il dolore che i graffi della sua voce acuta e raschiante avevano causato a sua madre qualche attimo prima.
Aumentò il passo e si barricò dentro la sua cameretta. Ma se il mondo era un casino lui cos’era? Era una domanda che era meglio non porsi, perché lo trascinava sempre in un baratro oscuro. Tuttavia quella domanda lo tartassava, come se quel baratro nero lo attirasse magneticamente e inesorabilmente verso il suo fondo. Era solo, completamente solo. Non aveva fratelli o sorelle, né amici. D’altronde che amici avrebbe potuto volere? “Esci con gli amici”, gli aveva detto sua madre prima. E per far cosa? Per farsi venire il sangue amaro a sentire gli stupidi discorsi dei suoi coetanei, a vedere quanto questi fossero limitati? Se solo avesse potuto trovare uno spirito a lui affine, qualcuno come lui. Ma anche in quel caso chi gli avrebbe garantito che sarebbe stato meglio? Conoscendosi sarebbe di sicuro finito per odiare qualcuno simile a lui, che lo privasse quindi della sua originalità, o alla meglio sarebbe finito per entrare in competizione con qualcuno finalmente alla sua altezza. E anche in questo caso sarebbe stato male. Chi era lui? La risposta la conosceva ed era semplice: era soltanto un ragazzino viziato e odioso. Che i suoi genitori lo viziassero era indubbio. E questa era una delle poche cose che lo rendevano felice, perché era un feticista e un materialista, e delle cose che si faceva regalare non si faceva alcun problema ad affezionarsi ed innamorarsi nel minor tempo possibile. Ma con le persone era diverso. Più volte gli aveva accarezzato la mente l’idea di avere un fratello. Forse in quel caso sarebbe stato diverso? Avrebbe significato qualcosa se fosse stato sangue del suo sangue, vissuto sotto il suo stesso tetto fin dall’infanzia? Probabilmente no, anche in questo caso. Anzi, l’idea di poter avere qualcuno della sua età così vicino a lui lo spaventava. Un fratello era qualcuno cui dover rendere conto, qualcuno che poteva sapere cosa facevi di nascosto, qualcuno che fosse nella condizione di poterti giudicare e il cui giudizio avrebbe avuto un peso considerevole sulla tua coscienza. No, la solitudine era definitivamente lo stato migliore. Di questo ne era consapevole e si comportava di conseguenza.
Si tolse la divisa scolastica e si vestì. Poi si mise a sedere davanti al suo computer acceso. Il web, quella sì che era una delle cose più belle del mondo. Sul web sei tutti e nessuno al tempo stesso e soprattutto sul web puoi trovare tutto ciò di cui hai bisogno. Il web ha al suo interno tutte le risposte alle tue domande. E in quel momento di frustrazione aveva un solo desiderio da sfogare davanti al suo pc. Digitò sulla barra degli indirizzi www.rotten.com e attese che si caricasse la pagina. Quello era un qualche modo di sfogarsi e di soddisfarsi. Scorse col mouse la lunga pagina. Dall’ultima volta era stato aggiornato, qualcuno aveva aggiunto delle nuove foto. Era tutto molto grottesco, soprattutto i titoli delle foto in inglese. Le aprì tutte, con calma, una ad una, guardandole con attenzione. Alcune lo divertivano tetramente, altre lo spaventavano e sarebbero finite ad occupare i suoi incubi la notte, ma tutte avevano la stessa peculiarità. Era un dato inconfutabile: il battito del suo cuore aumentava a quella vista macabra. Era molto diverso da un film. Per quanto con le moderne tecnologie i film avrebbero potuto simulare benissimo l’interno di un corpo umano spezzato vi era una grossa differenza: quelle foto erano vere, erano cadaveri veri, non erano artefatti. Quella era la realtà, anche se filtrata attraverso il monitor di un computer. Chissà che effetto avrebbe fatto vedere quelle stesse cose dal vivo, sentire il tanfo del sangue e delle infezioni. Di nuovo un brivido gli percorse la schiena, e il suo cuore gli fece sentire con i suoi battiti quanto era vivo.
Dopo aver esaurito Rotten migrò su Youtube. L’ultima foto che aveva visto sul famigerato sito era l’effetto di un incidente stradale. Forse trovare un video sull’argomento avrebbe reso il tutto ancora più reale. Di video su incidenti stradali ce n’erano un sacco, più o meno cruenti e la cosa che lo stupì era che il numero di visualizzazioni che questi video avevano era elevatissimo. Quindi era pieno là fuori di anime perse come lui che trascorrevano il pomeriggio cliccando su quei video, lui non era né malato, né fuori dall’ordinario. Diede una letta ai commenti. Ma dicevano tutti le stesse cose e questo increspò il suo viso in una smorfia di disappunto. L’ipocrisia, anche sul web dove si poteva godere dell’anonimato, era imperante:
“Povera gente”, diceva qualcuno.
“Quella macchina non stava facendo niente di male”, protestava qualcun altro.
“Maledetti camionisti ubriachi e assassini!”, inveiva qualcun altro ancora.
“A certa gente dovrebbero dare l’ergastolo”, dicevano infine altri.
Tutti che guardavano e davano il loro giudizio, non uno che avesse il coraggio di ammettere il perché stesse guardando quel video, di condividere le proprie vere emozioni, invece di sparare sentenze. Che posto poteva trovare uno come lui in quel mondo? Suo padre, per quanto fosse assente dalla sua vita, gli aveva insegnato bene come funzionavano le cose in quel mondo marcio, forse anche fin troppo bene, e lui aveva cercato di guardare le cose con obiettività e comportarsi propriamente, affinché i suoi genitori fossero fieri di lui; e lo erano; dopotutto non avevano motivo di lamentarsi del loro unico figlio: un bravo ragazzo, tranquillo, intelligente, razionale e maturo, che non gli avrebbe mai dato problemi. E lui? Era anche lui fiero di se stesso? Se solo i suoi genitori avessero potuto vedere oltre, vedere tutto ciò che era in realtà. Vide per un attimo la sua immagine riflessa sul monitor lucido. Doveva essere fiero di se stesso, consapevole di trascorrere i pomeriggi a quel modo? Era giusto quello che stava facendo? Aveva rinnegato l’etica tempo fa, per fare sempre tutto ciò che voleva e non avere al contempo pesi sulla coscienza, ma a quel punto una scintilla dentro di lui si era accesa. Eppure l’attrazione per “quelle cose” che disgustano e turbano tutti a lui piaceva in maniera così morbosa e irresistibile che la poteva quasi accostare alla stessa smania con cui a volte si ritrovava a cercare sempre sulla rete video pornografici e perversi. Se quella era masturbazione fisica, Rotten era una masturbazione mentale.
Spense il computer, si infilò il giubbotto e decise di uscire per fare una passeggiata. Si era sempre posto un gradino sopra a tutti ma l’unica cosa che gli appariva chiara adesso era quanto fosse inutile la sua esistenza. Ecco, questo era il segno che quel baratro nero lo stava risucchiando. Ormai mancava poco. Non provava niente e mentre passeggiava per quelle strade si sentiva come un alieno fuori dal suo habitat. Non era la rima volta che si sentiva in quel modo, ma ogni volta che passava questo peso gravava sempre più sulla sua schiena schiacciandolo a terra. Era un’ipocrita anche lui a portare avanti quell’esistenza. Forse era questa la cosa che gli dava più fastidio, scoprire di essere come tutti quelli che aveva odiato in vita sua. Avrebbe fatto un atto di coraggio allora, qualcosa che per la prima volta in vita sua gli avrebbe dato grande soddisfazione di se stesso. Sarebbe finito tutto con quel gesto, ma almeno sarebbe stato felice. L’indomani avrebbe scoperto finalmente di che pasta era fatto, questa era la sua sfida ineluttabile.
Tornò a casa che era già buio, cenò con la sua famiglia scambiando poche parole e andò a letto. Il cuore gli batteva forte, sia per la paura che per l’eccitazione e l’impazienza. Aveva preso quella decisione così in fretta che si stupiva di se stesso. Ma in fondo non aveva importanza neanche quello, tanto che dopo poco riuscì addirittura ad addormentarsi.
Il giorno dopo era una bella giornata di primavera. Mentre camminava tranquillo verso scuola il sole baciava coi suoi raggi la pelle pallida del suo viso. Era davvero sicuro di voler rinunciare a tutto ciò? Era sicuro che ne valeva la pena? Non era forse il caso di ripensarci ancora un po’, di prendere tempo? Ma no, che sciocchezza. Certo, dopo ci sarebbe stato il nulla, ma era sempre meglio “nulla” di “qualcosa”. Era nichilistico, ma era la verità. Come non provava pietà e non gli importava niente se la gente moriva, lo stesso doveva accadere anche per sé, altrimenti sarebbe stato un ipocrita.
Attese la ricreazione con ansia. Quando si alzò dal suo banco e uscì dall’aula nessuno lo notò. Salì le scale fino al tetto e si affacciò dalla balconata. Maledizione, c’era ancora troppa gente là intorno. Lui voleva soltanto stare da solo, ci mancava solo qualcuno che cercasse di convincerlo a desistere, di ostacolarlo. Solo dopo, solo dopo avrebbe desiderato che tutti guardassero, ma non ora. Ciononostante quegli istanti erano ottimi per ragionare. Guardò verso il basso. Il tetto corrispondeva ad un quarto piano, quindi meno di quindici metri. Non era tanto, ma era sufficiente se fosse caduto nel modo giusto.
“Andiamo, inizia ad essere tardi”, sentì gli altri che erano sul tetto con lui avviarsi verso l’interno. La ricreazione era quasi finita ormai e questo era il momento buono. Doveva sbrigarsi. Strinse la ringhiera metallica con tutte le sue forze. Il cuore adesso schizzava nel suo petto e qualche lacrima aveva iniziato a solcargli le guance fredde. Quanto coraggio serviva per fare qualcosa del genere? Ne serviva tanto, veramente tanto! Ne sarebbe stato all’altezza? Respirò profondamente e si sfilò le scarpe, quindi scavalcò la ringhiera. Tra lui e quel baratro nero non c’era mai stato così poco. Guardò di fronte a sé. Nel cortile c’era ancora svariata gente, ma nessuno sembrava averlo visto sul cornicione. Ormai anche il suo cuore si era calmato.
“Ormai è fatta”, pensò. Quelli erano i suoi ultimi istanti di vita. La gente normale sarebbe stata terrorizzata, ma lui era tranquillo come sempre. Di questo era contento. Si soffermò sui suoi ultimi pensieri. Ripensamenti non ne aveva, né desiderava chiedere scusa per alcunché. Immaginò per un attimo che aspetto avrebbe avuto una volta sfracellatosi al suolo. Forse sarebbe somigliato a quelle foto che andava a cercare su internet? Almeno avrebbe dato un po’ di spettacolo, questo per una volta nella sua vita passata nell’ombra non sarebbe mancato. Ma in fondo che importava? Lasciò la ringhiera, chiuse gli occhi e si sporse in avanti. Fu facile come tuffarsi in acqua, benché non riuscisse ancora a smettere di piangere.
L’impatto col suolo arrivò dopo un paio di secondi e fu tremendo. Non capì la posizione che aveva assunto il suo corpo in volo, né fu in grado di sapere che cosa del suo corpo aveva toccato terra per primo. La fitta di dolore fu micidiale ma anche breve un istante. Sentiva di essere ancora vivo, ma sotto il suo collo non sentiva niente. Dopo qualche secondo i suoi occhi ripresero a vedere di nuovo, benché niente fosse chiaro o limpido. Il sangue gli riempiva la bocca e la gola, impedendogli di respirare; erano i suoi ultimi rantoli e tremiti.
“Oh mio Dio!”
“Ma cos’è successo?!”
“Aiuto!”
“Si è buttato dal tetto! Si è buttato dal tetto!!”
“Avete chiamato i professori, i soccorsi?!”
“Qualcuno sa chi è questo ragazzo?!”
Le voci le sentiva distanti, ovattate. Eppure i suoi occhi distinguevano con difficoltà una gran quantità di sagome umane proprio sopra di lui intente a guardarlo. Durò solo pochi secondi. Piano piano le immagini e le voci svanirono per lasciare il posto al nulla e lui si spense.

Quando riaprì gli occhi fu come se non li avesse mai chiusi prima. Ma allora era stato solo un sogno?
  
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