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Autore: ranyare    04/03/2011    7 recensioni
Lo sa.
Lo sa che ho paura.
Lo sa che se si tratta di lui non so essere fredda, razionale.
Lo sa che mi spaventa terribilmente il pensiero che possa succedergli qualcosa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Wicked & Humorous Tales'
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Stop.

Breathe.

Cry if you must.

 

[Ray.]

Io avrei dovuto aspettarmelo.

Avevo sentito, poco prima di uscire, che qualcosa non quadrava; che qualcosa sarebbe andato storto, che sarebbe successo sicuramente un qualche tipo di disastro, di errore, che non sarebbe stata una serata serena.

Essere la compagna del protagonista di Birdsong mi ha permesso di poter assistere anche stasera dalla prima fila; nonostante abbia visto questo spettacolo oramai almeno una ventina di volte, continuo a non stancarmi di essere qui, di guardare Ben recitare splendidamente davanti al suo pubblico, di vederlo così felice di ritrovarsi nuovamente a solcare un palcoscenico illuminato in una sala buia.

Stasera me l’ero sentito, avevo avvertito una fitta d’inquietudine al momento di uscire da casa; Ben mi ha tranquillizzata, mentre guidava lungo le trafficate arterie del traffico di Londra, e io ho provato a credergli – ci ho provato davvero, ma l’agitazione ed il nervosismo non hanno accennato minimamente a scomparire.

E, quando l’ho visto cadere, ho capito che non avevo avuto torto nel preoccuparmi.

-Ben, non puoi recitare.- ripeto, per l’ennesima volta, sull’orlo del pianto – o di una crisi isterica, a seconda.

Ben fa per alzarsi dallo sgabello su cui l’ho costretto, una mano premuta sul lato destro del petto, l’espressione che si sforza di mostrarsi tranquilla e affabile come sempre.

-Sto benissimo, è soltanto una botta.- tenta di convincermi ma, se c’è una cosa in cui sono davvero capace, è riconoscere le bugie; li vedo i suoi occhi stretti, le labbra serrate, la forza spasmodica con cui serra le dita sulla divisa che indossa come costume di scena.

-Non raccontarmi stronzate, per piacere! Non puoi recitare, ti sei fatto male, per favore dammi retta!- sbotto, più caustica di quanto vorrei essere, sentendo gli occhi pizzicare per il nervosismo e la paura.

Lo sa.

Lo sa che ho paura.

Lo sa che se si tratta di lui non so essere fredda, razionale.

Lo sa che mi spaventa terribilmente il pensiero che possa succedergli qualcosa.

Faccio un profondo respiro, tentando di calmarmi almeno un poco; ma l’ansia che mi sta salendo nel petto fa accelerare ancor di più il mio cuore, e la fitta di terrore che mi trafigge il petto è terribilmente dolorosa.

-Ray, sto bene.- non mi rendo nemmeno conto di essermi tormentata convulsamente le mani sino a questo momento, finché Ben non le prende entrambe fra le sue e mi tira verso di lui.

Siamo nel retroscena, l’intervallo è quasi finito; ma Ben non può tornare su quel palco, non può, assolutamente no.

-Per favore. Lo so che ti fa male. Ti prego, Ben, dammi retta.- mormoro, quando la sua fronte sfiora la mia e i suoi occhi neri rimangono l’unica visuale dei miei; tutto il resto si dissolve, ma in quelle iridi scure riesco a scorgere sin troppo bene lo sforzo che anche solo restare seduto gli sta costando.

È stata una brutta caduta, è caduto sul fianco. Si è rialzato a fatica, continuando a recitare come se niente fosse accaduto, crollando però non appena arrivato dietro il sipario.

-Ray, non è nulla di mortale o di pericoloso. Ho preso una botta, sono indolenzito, passerà. Ci sono duecento persone che si aspettano di vedermi sul palco, fra poco, non ho intenzione di deluderli.-

.

.

[Ben.]                                                                                        

Vedo l’angoscia negli occhioni immensi della mia piccola Ray accentuarsi, alle mie parole. Riesco a sentire il suo cuore pulsare rapido, troppo rapido, le manine fresche fremere appena sulla mia gola, le labbra rosse tormentate dai morsi.

Fa male.

Fa più male vedere lei così, piuttosto che la fitta lancinante che mi sta tormentando il fianco.

So che ha paura, so che non riesce a sopportare l’idea che possa succedermi qualcosa; ma io ho un dovere, verso i miei colleghi e verso la gente là fuori. Non sarà una botta a fermarmi, no?

-Ben…- la vedo serrare i pugni, esasperata, prima che una mano delicata si posi sul suo braccio. Si volta di scatto, le lacrime agli occhi, riconoscendo la figura alta e snella della mia co-protagonista al suo fianco. -Genevieve, ti prego, diglielo anche tu!- la implora, guardandola con uno sguardo spaventato che farebbe sciogliere anche una roccia.

Genevieve ha immediatamente preso Ray in simpatia – è impossibile non voler bene a Ray, dolce com’è, bella com’è. La mia bionda si è affezionata a Gen in pochissimo tempo, nonostante la sua innata diffidenza verso chiunque tenti di avvicinarla; Genevieve e suo marito non hanno figli, non possono averne, e l’hanno accolta senza esitare come i genitori che la mia bionda non ha più.

-Ray ha ragione, Ben. Non è stata una bella caduta.- Genevieve mi guarda severa, gli occhi chiari che mi scrutano; è più grande anche di me, ed è diventata per tutto il cast il punto di riferimento per qualsiasi cosa.

Sospiro, rivolgendomi alla mia piccola principessa e tirandola verso di me, cingendole la vita esile con le mani.

-Ray, io sto bene. Finirò lo spettacolo e poi riposerò, d’accordo?- scuote la testa, lo sguardo cupo e preoccupato, le lacrime trattenute solo per testardaggine.

-No. Devi vedere un medico.- replica, testona. Inarco un sopracciglio, ignorando la fitta al fianco quando la scosto e mi alzo in piedi, stringendole le spalle e cercando di rassicurarla.

-Alle undici di sera?- le faccio notare, ironico, tentando di sdrammatizzare… e cerco in tutti i modi d’ignorare la fitta che mi trafigge il petto, il dolore sordo che pulsa a livello delle costole.

Ma il suo sguardo è cupo e deciso, quando si alza nel mio.

-Allora andiamo all’ospedale.-

.

.

[Ray.]

Ben sgrana gli occhi alla mia ultima affermazione, allibito. Di tutto poteva aspettarsi, tranne che io – io – proponessi l’idea di avvicinarmi di mia spontanea volontà a un ospedale.

Non entro più in quel luogo da quando mi hanno dimessa, dopo l’incidente.

Mi fa paura. Mi spaventa come mi spaventa qualsiasi cosa, mi spaventa come l’avvicinarmi a un’auto, mi spaventa come il pensiero che possa succedere qualcosa a Ben.

Non guido più, da quel giorno. Non ci riesco.

Continuo a vedere davanti a me quei due ragazzi venirmi incontro a una velocità assurda, continuo a sentire lo stridio dei freni, il clacson dell’autista del camion che tentava di avvertirmi, la sensazione di essere sballottata terribilmente, prima di…

-Ray, non è niente di grave. Non è necessario.- adesso è Ben a essere preoccupato, spaventato dalla mia determinazione e dalle parole che ho appena pronunciato; sa quanto terrore mi provoca il ricordo di quell’incidente, di quelle lunghe settimane in ospedale senza poter parlare con lui, con Angel, con Will.

-Non m’interessa, voglio essere sicura che tu stia bene.- so essere terribilmente testarda, Ben questo lo sa bene; è ben consapevole che non mollerò finché non mi permetterà di portarlo da un dottore, lo sa fin troppo bene – e, infatti, lo vedo sospirare, esasperato, l’espressione che s’incrina.

-Un minuto e si riparte! Genevieve, preparati, sei in scena dall’apertura!- la voce di un attrezzista richiama Gen all’ordine; mi stringe lievemente le spalle in un abbraccio veloce ma comunque affettuoso, prima di dirigersi verso la scena già illuminata dai riflettori.

Io e Ben restiamo soli, ed è solo dopo qualche istante che lui mi accarezza il viso, tentando per l’ultima volta di farmi ragionare.

-Ray…-

Io posso capire quanto importante sia per lui questo spettacolo. Davvero. Al suo posto, molto probabilmente mi comporterei alla stessa maniera.

Ma non glielo posso permettere. Non ci posso pensare, non posso tollerare l’idea che gli sia successo qualcosa di grave: sono diventata terribilmente egoista, nel corso del tempo… prima di ogni altra cosa, per me c’è lui e ci sono Will e Angel. Tutto il resto può andare al diavolo, per quanto mi riguarda.

Blocco la sua mano sul mio volto, accarezzandogli le guance soffici e avvicinandomi a lui, zittendo le sue parole con un bacio lieve a fior di labbra.

-Io ti lascio andare, ma solo se mi prometti che dopo andremo all’ospedale.- mormoro, sospirando, sapendo di non avere scelta; Ben è testardo quanto me, e non ho davvero il cuore di arrivare a litigare per una cosa a cui tiene così tanto.

-Se può rassicurarti, d’accordo.- mi concede, sorridendo appena – a denti stretti, per non pensare al dolore che prova.

-Ti amo.- sussurro, guardandolo andare via e stringendomi le braccia intorno al petto, colta da un gelo che non mi piace: proprio per niente.

.

.

[Ben.]

Quando il sipario finalmente si abbassa, decretando la fine di questa serata, tiro un sospiro di sollievo; ma mai avrei potuto fare un errore più madornale, perché la fitta che mi ha torturato sinora s’immerge ancor più profondamente nella carne, costringendomi a serrare i pugni e gli occhi.

Forse… forse Ray non ha tutti i torti.

Mi volto a guardarla appena in tempo per vederla avvicinarsi a me, appena in tempo per sentire il suo profumo quando sono io a stringermi al suo corpo, esausto.

Fa male.

Sento di odiare me stesso, di odiarmi terribilmente, quando non riesco a fare a meno di aggrapparmi alle spalle esili di Ray, le gambe che minacciano di cedere; sento le costole pulsare terribilmente, un dolore atroce espandersi in tutta la cassa toracica.

Ma Ray mi sorregge, la mia roccia mi passa un braccio intorno alla vita e ancora una volta si dimostra più forte di quanto mi aspettassi, quando nascondo il viso contratto dal dolore nella sua spalla.

Fa per me una cosa di cui penso le sarò grato per sempre; fa in modo che questo sembri soltanto un abbraccio, che gli altri non si accorgano di quanto io non stia affatto bene… fa sì che il mio orgoglio non abbia da risentirne, caricandosi sulle spalle la paura che deve causarle questo mio cedimento.

No.

Dovrei essere io quello forte, fra i due.

Ray ha dovuto esserlo per troppo tempo, Ray è tanto fragile ora, non ha bisogno anche di questo…

-Adesso andiamo all’ospedale, okay?- mi sussurra, piano, sfiorandomi i capelli con la punta delle dita.

Non posso far altro che annuire, nella sua spalla, i denti troppo stretti perché io riesca a parlare.

.

.

[Ray.]

-Forza, sali. E resta disteso.- dev’essere forse la prima volta da quando lo conosco che Ben fa quello che gli dico senza ribattere nemmeno una volta; è pallido, silenzioso, la mascella è contratta quasi spasmodicamente e i pugni sono serrati, le nocche sbiancate.

-Ray, posso guidare, non…- lo zittisco con un gesto deciso, premendo una mano sulle sue labbra. Sento il cuore martellarmi nel petto, terrorizzato, ma lo ignoro: non è il momento di essere pavidi, Ray. Ricorda chi sei, ricorda quanto sei coraggiosa, ricorda che hai affrontato ben di peggio nella tua vita.

Ricordatelo Ray, ricordati che non sarà un’automobile a portarti via.

-Sciocchezze. Guido io, non c’è problema.- replico, ostentando una sicurezza che so di non possedere.

-Ray…- comincia, osservandomi con uno sguardo pieno di preoccupazione, tentando di protestare: ma io ce la posso fare, dopotutto ho guidato tante volte, ero anche brava, ho guidato anche per miglia e miglia…

-Stai buono, okay? So come si guida una macchina.- lo rassicuro, ostentando un sorriso che non convince neanche me.

Le mani però mi tremano, quando inserisco la chiave nello starter e la giro, il motore che risponde immediatamente al tocco leggero sul pedale dell’acceleratore.

La strada davanti a me non è mai sembrata tanto minacciosa; persino immettersi nel traffico mi spaventa, le macchine che sfrecciano terribilmente veloci a pochi metri da me mi costringono a serrare gli occhi, per non vederle. Sobbalzo a ogni luce che m’illumina e acceca per un istante i miei occhi, mi ritraggo istintivamente quando vedo le auto tanto vicine alla mia.

Non succederà niente.

Ingrano la prima con esitazione, la Mercedes che, ubbidiente, si muove delicatamente ed esce dal parcheggio.

Andrà tutto bene.

Ho sempre amato guidare, specialmente le macchine sportive e potenti: mi ha sempre dato una sensazione di forza e di velocità, d’invincibilità e spavalderia… vedere il mondo sfocato attraverso il finestrino di un’auto lanciata ai cento l’ora mi aiutava a distaccarmi dalla realtà, rilassandomi e permettendomi di recuperare la calma.

Adesso, però…

Adesso ho paura.

Ho paura di premere troppo a fondo l’acceleratore, ho paura di esagerare e perdere il controllo della macchina: è cautamente che faccio aumentare i giri del motore e cambio le marce, arrivando alla quinta con fin troppa indecisione.

Non riesco ad aumentare troppo la velocità, non riesco ad andare rapida come vorrei: ho paura che possa succedere qualcosa… ho paura di sentire di nuovo quel dolore, ho paura di essere rinchiusa di nuovo nel buio più totale, ho paura di non sopravvivere ancora… non potrei sopportare di sentire ancora una volta i miei amici soffrire, non riuscirei a vivere sentendo il loro dolore e quello di Ben.

Non voglio che soffrano ancora, non voglio che mi succeda qualcosa.

Accolgo con sollievo la figura imponente del Guy’s Hospital, stagliato nel nero intenso della notte londinese proprio in fondo alla strada che sto percorrendo.

Soltanto quando parcheggio, facendo manovra e sorprendendomi in cuor mio di esserne ancora capace, riesco a voltarmi verso Ben: non ha mai smesso di osservarmi, durante questo tragitto, probabilmente ha visto ogni mio singolo pensiero riflettersi sui lineamenti del mio viso…

-Ecco, hai visto?- gli faccio, sentendo però le mani che tremano ancor più violentemente quando le stacco dal volante, slacciando a fatica la cintura.

Nonostante tutto, sotto gli occhi penetranti di Ben mi sento arrossire, quando mi accorgo che continua a guardarmi senza distogliere lo sguardo: quelle iridi nere sanno infrangere ogni mia piccola barriera e arrivare sin dentro di me – là dove può arrivare soltanto lui, dove c’è soltanto lui.

-Sei stata brava.- mormora, piano, accarezzandomi una guancia con quelle dita morbide, lunghe e delicate che tanto adoro.

E quelle tre semplici parole sono dolci, meravigliosamente dolci per il mio cuore spaventato.

.

.

[Ben.]

-Bene, signor…-

-Barnes.- vedo il medico scoccarmi un’occhiata perplessa: è probabile che il mio nome non gli suoni nuovo, ultimamente anche a Londra sono sempre più spesso riconosciuto… uno degli effetti collaterali della fama.

Il dottore, un ortopedico dall’aria vissuta con un’immensa chierica e due grossi baffoni grigi a definire la sua figura, rivolge un’occhiata scettica a Ray – giustificata, fra l’altro, perché Ray dimostra appena qualche anno più di quelli che ha, mentre io ormai vado per la trentina – e si vede.

-E lei, signorina…- vedo Ray esitare, prima di pronunciare il suo cognome: non lo usa quasi mai, non è legato a dei bei ricordi – le rammenta persone che l’hanno rinnegata, le ricorda la famiglia che l’ha ripudiata.

-Cooper. Ray Cooper.- mormora, piano, e sento le sue dita stringere lievemente le mie.

-È la mia compagna, dottore, può restare.- aggiungo, ignorando lo sguardo palesemente sarcastico che ci rivolge: in un’altra situazione, non riuscirei a trattenere Ray dallo sbottare un qualche commento caustico sullo scetticismo che in tanti riservano a me e a lei, quando siamo insieme.

Se c’è una cosa che la mia Ray non sopporta sono i pregiudizi riguardanti l’età – anche perché, a dirla tutta, spesso lei è più matura di me.

Ma stavolta non dice niente, si limita a guardare il medico con quegli immensi occhioni chiari e preoccupati: è uno sguardo tanto implorante che vedo il dottore sciogliersi appena, intenerito dalla sua espressione.

-Va bene, allora… vediamo che cos’è successo.-

.

.

[Ray.]

Costole rotte.

Non sento altro che il sangue pulsare violentemente nelle orecchie, zittendo qualsiasi altro suono. Alle mie spalle c’è soltanto il gelo del muro freddo, intorno a me solo il corridoio ospedaliero deserto.

Sono uscita dall’ambulatorio quando Ben mi ha detto di farlo: ha visto la mia espressione impallidire, ha sentito le mie mani tremare… e ha capito.

Costole rotte.

Una costola rotta può provocare schegge d’osso, io lo so bene. Una costola rotta può perforare un polmone. Quando succede, il sangue raggiunge i bronchioli e i bronchi, soffocando il respiro e riempiendo la trachea di rosso; arriva a colare dal naso, dalle labbra… e si muore soffocati, dopo neanche dieci minuti.

È una morte orribile.

È orribile vedere una persona morire in quel modo… specie se è una persona che ami. Specie se quella persona era tutto il tuo mondo.

Specie se lo hai visto scivolare via davanti a te, se hai visto i suoi occhi spegnersi…

Will.

Scopro di essere preda di un tremito quasi convulso, le lacrime che rigano silenziose le mie guance.

Will.

Ora più che mai sento la mancanza di William, del mio amico, del mio fratellone; vorrei che fosse qui, vorrei che arrivasse e mi stringesse forte, che non dicesse niente – perché lui semplicemente sa, e ciò che non sa non ha bisogno di chiederlo.

Mi manca William, mi mancano lui e Angel. I miei amici sono lontani ed io non ci posso fare niente, non posso nemmeno chiamarli – non voglio farlo, Will si sentirebbe soltanto in colpa ancor di più per essere tanto lontano, Angel soffrirebbe terribilmente nel sentirmi così.

Mi lascio scivolare lungo la parete gelida, finché non tocco il pavimento lucido e freddo.

Sono da sola, ancora una volta, alle prese con le mie paure.

Mi ci sto abituando, ormai: non penso di essere più la stessa da quell’incidente, da quelle settimane di buio e di dolore… non sono più quella Ray, quella Ray che affrontava tutto con sicumera, con baldanza e sprezzo del sacrificio.

Adesso sono soltanto una ragazzina angosciata.

Mi appallottolo su me stessa, spaventata, nascondendo il viso fra le mie braccia e permettendomi – finalmente – di piangere.

.

.

[Ben.]

Prendo fiato, lentamente, quando la porta interna dell’ambulatorio si chiude dietro il dottore partito alla ricerca di una richiesta per dei raggi X. Devono controllare che non ci siano dei problemi più gravi… ma in questo momento non m’importa, adesso sono soltanto preoccupato per lei.

Quasi tre anni fa, prima di conoscere me, Ray ha perso una persona che amava con tutta se stessa: non ne parla mai, di lui, non accenna mai niente di ciò che lo riguarda, evita accuratamente di riportare alla mente quella sofferenza che tanto l’ha distrutta. So soltanto che quell’uomo, quell’uomo che lei tanto amava e che l’ha tanto amata, se n’è andato per lo stesso tipo di lesione che potrei avere io.

Non riesco a essere geloso, non ci sono mai riuscito: l’unica cosa che desidero è non vederla stare male al ricordo, l’unico pensiero che mi sta ossessionando è quello di rassicurarla, di prometterle che andrà tutto bene.

Will è anche più chiuso di lei, su quell’argomento: l’unica cosa che so per certo è che il biondo continua ancora oggi a torturarsi per non esserci stato, per essere stato lontano – in Nuova Zelanda, per le riprese di Prince Caspian – da Ray in quel momento in cui tanto avrebbe avuto bisogno di lui.

…William.

Prim’ancora di formulare del tutto il pensiero, ho già recuperato il mio telefonino dalla tasca dei jeans. Compongo il numero di Will in fretta, facendo un rapido calcolo per determinare il fuso orario: dovrebbe essere pomeriggio, a Hollywood.

-Pronto?- William risponde dopo cinque squilli, la voce allegra e squillante come sempre.

-Will, sono in ospedale.- esordisco, rapido, saltando tutti i convenevoli del caso…

-Cosa?!- …Will prima o poi mi ucciderà, per queste mie uscite. -Ray sta bene?- mi chiede subito dopo, prevedibilmente: da quando lui e Angie sono partiti, il biondo vive nel terrore che possa succedere qualcosa alla sua amica, alla sua sorellina.

Non penso se lo perdonerebbe mai.

-Sì, sta benissimo. Mi sono rotto due costole.- gli spiego rapidamente, sbirciando verso la porta chiusa e sperando che il medico non rientri: non penso che sarebbe molto accondiscendente nel vedermi telefonare…

-Come diavolo hai fatto!?- sbotta, improvvisamente agitato: e capisco benissimo che Will è arrivato alla mia stessa conclusione, allo stesso ricordo, alla stessa situazione.

Ray sta male.

-Sono caduto sul palco.- gli spiego, ma non m’interessa assolutamente di ciò che è successo a me: Ray sta male a causa mia, e non posso fare niente per aiutarla.

-Will, puoi chiamare Ray? È uscita poco fa, non sta per niente bene. S’è intestardita a portarmi qui, ha guidato…- gli chiedo, ma Will non mi lascia nemmeno finire.

-La chiamo subito.-

.

.

[Ray.]

E’ passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ho pianto in questo modo.

Non riesco a smettere, non riesco a fermare i singhiozzi che mi scuotono il petto: sono lievi, incessanti, martellanti. Penso di non avere più lacrime da piangere, qui, accoccolata su me stessa con le ginocchia fra le braccia.

Quasi non sento il telefonino suonare: è nuovo, me l’ha regalato Ben un mesetto fa. Il mio vecchio telefono è finito distrutto nell’incidente.

Il nome che lampeggia sullo schermo non mi sorprende del tutto: sullo sfondo nero, lampeggia un “WILL” in caratteri bianchi che spiccano sullo schermo scuro.

-Ehi, raggio di sole.- la voce di William, nonostante sia un idiota, è un balsamo caldo che arriva a lenire un poco il dolore immenso che sento vibrare dentro di me.

Non ci sentiamo spesso, in questo periodo: è impegnato con il nuovo lavoro, è impegnato con Angel, è felice. Sto cercando di pesare il meno possibile su di lui, sto cercando di non dargli il pensiero di me – di me che non sto più così bene, da quell’incubo.

Mi sono chiusa in me stessa negli ultimi mesi, da quando lui e Angel sono partiti: mi sono chiusa con tutto e con tutti, con la sola eccezione di Ben e – incredibilmente – di Anna.

Anna ed io condividiamo una cosa molto importante, un sentimento che ci ha avvicinate e ci ha permesso di diventare amiche: c’è una persona a cui teniamo allo stesso modo, a legarci, e quella persona è Will.

Ma non potrà mai essere mia amica quanto Angel. Non sarà mai tanto vicina a me quanto la mia piccola Angie.

-Ciao.- mormoro, tirando su col naso e tentando di darmi un contegno. Non voglio che mi senta piangere, non voglio che si senta in colpa per non essere qui… Will ha la sua vita, Will ha tutto il diritto di vivere senza il peso di un’amica depressa.

-Ti ha chiamato Ben, vero?- gli chiedo, conoscendo già la risposta: Ben si starà tormentando, ora, perché sta male e non riesce a proteggermi.

-No, sono un telepate dalla fluente chioma bionda.- un idiota dalla fluente chioma bionda, direi.

Non riesco a trattenere nuove lacrime, quando mi rendo conto di quanto l’assenza di Will sia enorme e palpabile: ho sempre potuto contare su di lui, finché è stato qui… adesso, però, il pensiero di dover affrontare tutto da sola è terribilmente pesante.

-Ehi, piccola, basta piangere.- sussurra, e quel sussurro spalanca di nuovo un baratro che credevo di aver momentaneamente richiuso.

Ben.

Non posso pensarci, non posso pensarci, NON POSSO.

Se gli succedesse qualcosa… se dovessi perdere Ben… penso potrei morire, non gli sopravvivrei. Non sono più così forte, non sono abbastanza forte da riuscire a farcela senza di lui.

A volte mi spaventa quanto è diventato immenso l’amore che provo per lui: non penso di essere mai stata coinvolta tanto, così completamente, assolutamente, totalmente piena di un’altra persona.

-Mi sono spaventata…- la voce mi esce mormorata, bassa, rotta dal pianto.

-Sei stata grande, Ray.- la voce di Will suona terribilmente sicura, al contrario dell’instabile tremore che sento nella mia. -Lo hai portato lì, hai guidato, hai sconfitto in una botta sola tutte le tue paure. Non potevi fare di più, e vedrai che non ha nulla di grave, ci vuole ben altro per liberarsi di quell’altro là.-

-Si è rotto due costole, Will…- sussurro pianissimo, e quando lo sento sospirare capisco che sa a che cosa mi sto riferendo.

-Lo so, me l’ha detto.- posso quasi immaginarlo annuire, passarsi una mano fra i capelli biondi e sicuramente troppo lunghi, gli occhi azzurri più scuri e preoccupati. -Ray, non capiterà di nuovo. Non gli succederà niente, starà bene.-

Mi stringo ancor più su me stessa, sentendo un fremito terribile scuotermi fin da dentro.

-Ho paura... non posso pensarci, non ce la faccio…-

-Ray, basta. Basta, d’accordo?-

Basta.

Quella parola assomiglia molto a una secchiata d’acqua gelida sul viso.

Basta, Ray.

-Ben sta benissimo, ci vuole ben altro per accopparlo. Non succederà nulla, andrà tutto a posto. Okay?-

La voce di Will riesce a fare breccia in quel denso guscio di terrore che minaccia ogni giorno di sopraffarmi, con cui lotto tutte le volte che al mattino apro gli occhi.

Poi penso a William, penso ad Angel.

Mi volto a guardare Ben che dorme accanto a me, mi concentro sulla sua presenza, sul calore del suo corpo: e mi rendo conto che posso andare avanti, che c’è ancora qualcuno per cui posso lottare.

-Okay.- pigolo, ma non faccio in tempo a rispondere che sento un tramestio, una breve risata di Will, e una seconda voce che si affaccia al telefono satellitare.

-Ray?-

Angel.

-Angie…- sussurro, sentendo un nodo terribile stringersi nella mia gola, le lacrime che scivolano piano lungo le guance.

Non sento la mia migliore amica da troppo tempo, ma nemmeno mi sono resa conto di quanto m’è mancata: era tanto che non sentivo la sua voce dolce, calda e sicura, era tanto che non la sentivo – nonostante un oceano a dividerci – così vicina a me.

Io voglio bene ad Angel. È la mia piccola roccia, lei, è una creaturina adorabile capace di dare un affetto immenso.

Mi manca Angie.

Mi manca lei e mi manca William.

-Ma non piangere! Guarda che non ti parlo più se piangi nel sentirmi.- brontola, contrariata, e non riesco davvero a non sbuffare divertita nel sentirla minacciarmi in quel modo.

Sorrido, passandomi una mano sul viso e cercando di cancellare le troppe lacrime che ho pianto: finalmente riesco a smettere di tremare, finalmente riesco a riprendere il controllo su me stessa.

-No, io… sono solo contenta di sentirti.-

.

.

[Ben.]

Sospiro, lievemente esasperato, quando Ray mi costringe a distendermi a letto: preme le mani sulle mie spalle e mi spinge giù, ma io sogghigno e la trascino sul letto con me.

È calda, Ray, è buona, è soffice come la panna: il suo corpo è una fonte di calore inestinguibile e, quando si accosta al mio, quasi brucia.

Ridacchia, accarezzandomi i capelli e sciogliendo con delicatezza la stretta delle mie mani sulle sue: ma rimane cavalcioni del mio ventre, non del tutto convinta di allontanarsi da me.

Ha uno sguardo stanco, terribilmente stanco. Ma è serena, e so che si sta sforzando di esserlo per non farmi più preoccupare.

Parlare con Will e con Angel le è servito, l’ha tranquillizzata immensamente: e, quando le ho riferito che non ho niente di grave e che in un paio di giorni sarò completamente a posto, l’ho vista finalmente rasserenarsi come il cielo dopo un temporale.

-Ora tu stai buono e guai a te se ti muovi.- m’intima, premendo l’indice sulle mie labbra e scrutandomi con un cipiglio severo.

-Va bene, capo.- annuisco, mimando il saluto militare e strappandole una breve risata, mentre si alza.

-Adesso preparo qualcosa da mangiare, alla fine non hai nemmeno cenato, non…-

-Ray, vieni qua, per piacere?- si volta a guardarmi, sorpresa, lo sguardo sereno che vacilla: ha ancora gli occhi arrossati, gonfi, ma è molto più tranquilla di qualche ora fa. -Sta’ buona, okay? Fermati, una buona volta. Non ce n’è bisogno.-

Allungo una mano e la tiro nuovamente contro di me, testardo: e stavolta Ray si lascia avvicinare, sospirando e arrendendosi al bisogno che provo di sentirla vicina.

Si accoccola vicino a me, chiudendo gli occhi e posando delicatamente la testa sulla mia spalla. Si lascia abbracciare, sento le sue mani affusolate accarezzare il mio ventre, il seno soffice modellarsi sul mio petto.

-Non farmi mai più una cosa del genere.- sussurra, respirando a fondo forse per la prima volta da quando siamo usciti dal teatro, abbandonandosi completamente a contatto col mio corpo.

Respiro profondamente il profumo suadente e forte dei suoi capelli, socchiudendo le palpebre e beandomi della morbidezza della sua pelle candida. Le passo un braccio intorno alla vita e la stringo a me, le sue dita che risalgono il mio petto e vanno a intrecciarsi sulla mia nuca, le labbra che delicate mi baciano sulla gola.

-Altrimenti la prossima volta te le rompo io le costole, una a una.- brontola, ma la sua voce è più calda e più dolce, segno che è immensamente più tranquilla di quanto sia stata stanotte.

Le accarezzo la schiena, i boccoli biondi, le guance: e la bacio in fronte, in un gesto tanto semplice quanto intimo che le strappa un sorriso.

-Vedrò di stare ancora più attento, allora.-

.

.

.

.

..

.

.

.

.

.

.

 

.

My Space:

Buonasera.

Oggi è una giornata particolare: non ho molta voglia di scherzare, in questa uggiosa giornata di inizio marzo. È un anniversario particolare, un anniversario che m’è piombato addosso con la pesantezza di un macigno.

Sono passati due anni. Sono passati due anni da quando lui non c’è più.

Mi manca, sapete? Mi manca terribilmente.

Non so. Non c’è nient’altro da aggiungere, se non che Ben s’è realmente rotto due costole durante Birdsong. Questa fic è ambientata prima della shotThere’s a place for Us”, diciamo a ottobre/novembre.

Un bacio,

B.

   
 
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