Stop.
Breathe.
Cry if you
must.
[Ray.]
Io avrei dovuto aspettarmelo.
Avevo sentito, poco prima di
uscire, che qualcosa non quadrava; che qualcosa sarebbe andato storto, che
sarebbe successo sicuramente un qualche tipo di disastro, di errore, che non
sarebbe stata una serata serena.
Essere la compagna del
protagonista di Birdsong mi ha permesso di poter assistere anche stasera dalla
prima fila; nonostante abbia visto questo spettacolo oramai almeno una ventina
di volte, continuo a non stancarmi di essere qui, di guardare Ben recitare
splendidamente davanti al suo pubblico, di vederlo così felice di ritrovarsi nuovamente
a solcare un palcoscenico illuminato in una sala buia.
Stasera me l’ero sentito, avevo
avvertito una fitta d’inquietudine al momento di uscire da casa; Ben mi ha
tranquillizzata, mentre guidava lungo le trafficate arterie del traffico di
Londra, e io ho provato a credergli – ci ho provato davvero, ma l’agitazione ed il nervosismo non hanno accennato
minimamente a scomparire.
E, quando l’ho visto cadere, ho
capito che non avevo avuto torto nel preoccuparmi.
-Ben, non puoi recitare.- ripeto,
per l’ennesima volta, sull’orlo del pianto – o di una crisi isterica, a
seconda.
Ben fa per alzarsi dallo sgabello
su cui l’ho costretto, una mano premuta sul lato destro del petto, l’espressione
che si sforza di mostrarsi tranquilla e affabile come sempre.
-Sto benissimo, è soltanto una
botta.- tenta di convincermi ma, se c’è una cosa in cui sono davvero capace, è
riconoscere le bugie; li vedo i suoi occhi stretti, le labbra serrate, la forza
spasmodica con cui serra le dita sulla divisa che indossa come costume di
scena.
-Non raccontarmi stronzate, per
piacere! Non puoi recitare, ti sei fatto male, per favore dammi retta!- sbotto,
più caustica di quanto vorrei essere, sentendo gli occhi pizzicare per il
nervosismo e la paura.
Lo sa.
Lo sa che ho paura.
Lo sa che se si tratta di lui non
so essere fredda, razionale.
Lo sa che mi spaventa
terribilmente il pensiero che possa succedergli qualcosa.
Faccio un profondo respiro,
tentando di calmarmi almeno un poco; ma l’ansia che mi sta salendo nel petto fa
accelerare ancor di più il mio cuore, e la fitta di terrore che mi trafigge il
petto è terribilmente dolorosa.
-Ray, sto bene.- non mi rendo
nemmeno conto di essermi tormentata convulsamente le mani sino a questo
momento, finché Ben non le prende entrambe fra le sue e mi tira verso di lui.
Siamo nel retroscena, l’intervallo
è quasi finito; ma Ben non può tornare su quel palco, non può, assolutamente no.
-Per favore. Lo so che ti fa male.
Ti prego, Ben, dammi retta.- mormoro, quando la sua fronte sfiora la mia e i
suoi occhi neri rimangono l’unica visuale dei miei; tutto il resto si dissolve,
ma in quelle iridi scure riesco a scorgere sin troppo bene lo sforzo che anche
solo restare seduto gli sta costando.
È stata una brutta caduta, è
caduto sul fianco. Si è rialzato a fatica, continuando a recitare come se
niente fosse accaduto, crollando però non appena arrivato dietro il sipario.
-Ray, non è nulla di mortale o di
pericoloso. Ho preso una botta, sono indolenzito, passerà. Ci sono duecento
persone che si aspettano di vedermi sul palco, fra poco, non ho intenzione di
deluderli.-
.
.
[Ben.]
Vedo
l’angoscia negli occhioni immensi della mia piccola Ray
accentuarsi, alle mie parole. Riesco a sentire il suo cuore pulsare rapido,
troppo rapido, le manine fresche fremere appena sulla mia gola, le labbra rosse
tormentate dai morsi.
Fa
male.
Fa
più male vedere lei così, piuttosto che la fitta lancinante che mi sta
tormentando il fianco.
So
che ha paura, so che non riesce a sopportare l’idea che possa succedermi
qualcosa; ma io ho un dovere, verso i miei colleghi e verso la gente là fuori.
Non sarà una botta a fermarmi, no?
-Ben…-
la vedo serrare i pugni, esasperata, prima che una mano delicata si posi sul
suo braccio. Si volta di scatto, le lacrime agli occhi, riconoscendo la figura
alta e snella della mia co-protagonista al suo fianco. -Genevieve, ti prego,
diglielo anche tu!- la implora, guardandola con uno sguardo spaventato che
farebbe sciogliere anche una roccia.
Genevieve
ha immediatamente preso Ray in simpatia – è impossibile non voler bene a Ray,
dolce com’è, bella com’è. La mia bionda si è affezionata a Gen in pochissimo
tempo, nonostante la sua innata diffidenza verso chiunque tenti di avvicinarla;
Genevieve e suo marito non hanno figli, non possono averne, e l’hanno accolta
senza esitare come i genitori che la mia bionda non ha più.
-Ray
ha ragione, Ben. Non è stata una bella caduta.- Genevieve mi guarda severa, gli
occhi chiari che mi scrutano; è più grande anche di me, ed è diventata per
tutto il cast il punto di riferimento per qualsiasi cosa.
Sospiro,
rivolgendomi alla mia piccola principessa e tirandola verso di me, cingendole
la vita esile con le mani.
-Ray,
io sto bene. Finirò lo spettacolo e poi riposerò, d’accordo?- scuote la testa,
lo sguardo cupo e preoccupato, le lacrime trattenute solo per testardaggine.
-No.
Devi vedere un medico.- replica, testona. Inarco un sopracciglio, ignorando la
fitta al fianco quando la scosto e mi alzo in piedi, stringendole le spalle e
cercando di rassicurarla.
-Alle
undici di sera?- le faccio notare, ironico, tentando di sdrammatizzare… e cerco
in tutti i modi d’ignorare la fitta che mi trafigge il petto, il dolore sordo
che pulsa a livello delle costole.
Ma
il suo sguardo è cupo e deciso, quando si alza nel mio.
-Allora
andiamo all’ospedale.-
.
.
[Ray.]
Ben
sgrana gli occhi alla mia ultima affermazione, allibito. Di tutto poteva
aspettarsi, tranne che io – io –
proponessi l’idea di avvicinarmi di mia spontanea volontà a un ospedale.
Non
entro più in quel luogo da quando mi hanno dimessa, dopo l’incidente.
Mi
fa paura. Mi spaventa come mi spaventa qualsiasi cosa, mi spaventa come
l’avvicinarmi a un’auto, mi spaventa come il pensiero che possa succedere
qualcosa a Ben.
Non
guido più, da quel giorno. Non ci riesco.
Continuo
a vedere davanti a me quei due ragazzi venirmi incontro a una velocità assurda,
continuo a sentire lo stridio dei freni, il clacson dell’autista del camion che
tentava di avvertirmi, la sensazione di essere sballottata terribilmente, prima
di…
-Ray,
non è niente di grave. Non è necessario.- adesso è Ben a essere preoccupato,
spaventato dalla mia determinazione e dalle parole che ho appena pronunciato;
sa quanto terrore mi provoca il ricordo di quell’incidente, di quelle lunghe
settimane in ospedale senza poter parlare con lui, con Angel, con Will.
-Non
m’interessa, voglio essere sicura che tu stia bene.- so essere terribilmente
testarda, Ben questo lo sa bene; è ben consapevole che non mollerò finché non
mi permetterà di portarlo da un dottore, lo sa fin troppo bene – e, infatti, lo
vedo sospirare, esasperato, l’espressione che s’incrina.
-Un
minuto e si riparte! Genevieve, preparati, sei in scena dall’apertura!- la voce
di un attrezzista richiama Gen all’ordine; mi stringe lievemente le spalle in
un abbraccio veloce ma comunque affettuoso, prima di dirigersi verso la scena
già illuminata dai riflettori.
Io
e Ben restiamo soli, ed è solo dopo qualche istante che lui mi accarezza il
viso, tentando per l’ultima volta di farmi ragionare.
-Ray…-
Io
posso capire quanto importante sia per lui questo spettacolo. Davvero. Al suo
posto, molto probabilmente mi comporterei alla stessa maniera.
Ma
non glielo posso permettere. Non ci posso pensare, non posso tollerare l’idea
che gli sia successo qualcosa di grave: sono diventata terribilmente egoista,
nel corso del tempo… prima di ogni altra cosa, per me c’è lui e ci sono Will e
Angel. Tutto il resto può andare al diavolo, per quanto mi riguarda.
Blocco
la sua mano sul mio volto, accarezzandogli le guance soffici e avvicinandomi a
lui, zittendo le sue parole con un bacio lieve a fior di labbra.
-Io
ti lascio andare, ma solo se mi prometti che dopo andremo all’ospedale.-
mormoro, sospirando, sapendo di non avere scelta; Ben è testardo quanto me, e
non ho davvero il cuore di arrivare a litigare per una cosa a cui tiene così
tanto.
-Se
può rassicurarti, d’accordo.- mi concede, sorridendo appena – a denti stretti,
per non pensare al dolore che prova.
-Ti
amo.- sussurro, guardandolo andare via e stringendomi le braccia intorno al
petto, colta da un gelo che non mi piace: proprio per niente.
.
.
[Ben.]
Quando
il sipario finalmente si abbassa, decretando la fine di questa serata, tiro un sospiro di sollievo; ma mai avrei potuto fare un errore più
madornale, perché la fitta che mi ha torturato sinora s’immerge ancor più
profondamente nella carne, costringendomi a serrare i pugni e gli occhi.
Forse…
forse Ray non ha tutti i torti.
Mi
volto a guardarla appena in tempo per vederla avvicinarsi a me, appena in tempo
per sentire il suo profumo quando sono io a stringermi al suo corpo, esausto.
Fa
male.
Sento
di odiare me stesso, di odiarmi terribilmente, quando non riesco a fare a meno
di aggrapparmi alle spalle esili di Ray, le gambe che minacciano di cedere;
sento le costole pulsare terribilmente, un dolore atroce espandersi in tutta la
cassa toracica.
Ma
Ray mi sorregge, la mia roccia mi passa un braccio intorno alla vita e ancora
una volta si dimostra più forte di quanto mi aspettassi, quando nascondo il
viso contratto dal dolore nella sua spalla.
Fa
per me una cosa di cui penso le sarò grato per sempre; fa in modo che questo
sembri soltanto un abbraccio, che gli altri non si accorgano di quanto io non
stia affatto bene… fa sì che il mio orgoglio non abbia da risentirne,
caricandosi sulle spalle la paura che deve causarle questo mio cedimento.
No.
Dovrei
essere io quello forte, fra i due.
Ray
ha dovuto esserlo per troppo tempo, Ray è tanto fragile ora, non ha bisogno
anche di questo…
-Adesso
andiamo all’ospedale, okay?- mi sussurra, piano, sfiorandomi i capelli con la
punta delle dita.
Non
posso far altro che annuire, nella sua spalla, i denti troppo stretti perché io
riesca a parlare.
.
.
[Ray.]
-Forza,
sali. E resta disteso.- dev’essere forse la prima volta da quando lo conosco
che Ben fa quello che gli dico senza ribattere nemmeno una volta; è pallido,
silenzioso, la mascella è contratta quasi spasmodicamente e i pugni sono
serrati, le nocche sbiancate.
-Ray,
posso guidare, non…- lo zittisco con un gesto deciso, premendo una mano sulle
sue labbra. Sento il cuore martellarmi nel petto, terrorizzato, ma lo ignoro:
non è il momento di essere pavidi, Ray. Ricorda chi sei, ricorda quanto sei
coraggiosa, ricorda che hai affrontato ben di peggio nella tua vita.
Ricordatelo
Ray, ricordati che non sarà un’automobile a portarti via.
-Sciocchezze.
Guido io, non c’è problema.- replico, ostentando una sicurezza che so di non
possedere.
-Ray…-
comincia, osservandomi con uno sguardo pieno di preoccupazione, tentando di
protestare: ma io ce la posso fare, dopotutto ho guidato tante volte, ero anche
brava, ho guidato anche per miglia e miglia…
-Stai
buono, okay? So come si guida una macchina.- lo rassicuro, ostentando un
sorriso che non convince neanche me.
Le
mani però mi tremano, quando inserisco la chiave nello starter e la giro, il
motore che risponde immediatamente al tocco leggero sul pedale
dell’acceleratore.
La
strada davanti a me non è mai sembrata tanto minacciosa; persino immettersi nel
traffico mi spaventa, le macchine che sfrecciano terribilmente veloci a pochi
metri da me mi costringono a serrare gli occhi, per non vederle. Sobbalzo a
ogni luce che m’illumina e acceca per un istante i miei occhi, mi ritraggo
istintivamente quando vedo le auto tanto vicine alla mia.
Non succederà niente.
Ingrano
la prima con esitazione, la Mercedes che, ubbidiente, si muove delicatamente ed
esce dal parcheggio.
Andrà tutto bene.
Ho
sempre amato guidare, specialmente le macchine sportive e potenti: mi ha sempre
dato una sensazione di forza e di velocità, d’invincibilità e spavalderia…
vedere il mondo sfocato attraverso il finestrino di un’auto lanciata ai cento
l’ora mi aiutava a distaccarmi dalla realtà, rilassandomi e permettendomi di
recuperare la calma.
Adesso,
però…
Adesso
ho paura.
Ho
paura di premere troppo a fondo l’acceleratore, ho paura di esagerare e perdere
il controllo della macchina: è cautamente che faccio aumentare i giri del
motore e cambio le marce, arrivando alla quinta con fin troppa indecisione.
Non
riesco ad aumentare troppo la velocità, non riesco ad andare rapida come
vorrei: ho paura che possa succedere qualcosa… ho paura di sentire di nuovo
quel dolore, ho paura di essere rinchiusa di nuovo nel buio più totale, ho
paura di non sopravvivere ancora… non potrei sopportare di sentire ancora una
volta i miei amici soffrire, non riuscirei a vivere sentendo il loro dolore e
quello di Ben.
Non
voglio che soffrano ancora, non voglio che mi succeda qualcosa.
Accolgo
con sollievo la figura imponente del Guy’s Hospital, stagliato nel nero intenso
della notte londinese proprio in fondo alla strada che sto percorrendo.
Soltanto
quando parcheggio, facendo manovra e sorprendendomi in cuor mio di esserne
ancora capace, riesco a voltarmi verso Ben: non ha mai smesso di osservarmi,
durante questo tragitto, probabilmente ha visto ogni mio singolo pensiero
riflettersi sui lineamenti del mio viso…
-Ecco,
hai visto?- gli faccio, sentendo però le mani che tremano ancor più
violentemente quando le stacco dal volante, slacciando a fatica la cintura.
Nonostante
tutto, sotto gli occhi penetranti di Ben mi sento arrossire, quando mi accorgo
che continua a guardarmi senza distogliere lo sguardo: quelle iridi nere sanno
infrangere ogni mia piccola barriera e arrivare sin dentro di me – là dove può
arrivare soltanto lui, dove c’è
soltanto lui.
-Sei
stata brava.- mormora, piano, accarezzandomi una guancia con quelle dita
morbide, lunghe e delicate che tanto adoro.
E
quelle tre semplici parole sono dolci, meravigliosamente dolci per il mio cuore
spaventato.
.
.
[Ben.]
-Bene,
signor…-
-Barnes.-
vedo il medico scoccarmi un’occhiata perplessa: è probabile che il mio nome non
gli suoni nuovo, ultimamente anche a Londra sono sempre più spesso
riconosciuto… uno degli effetti collaterali della fama.
Il
dottore, un ortopedico dall’aria vissuta con un’immensa chierica e due grossi
baffoni grigi a definire la sua figura, rivolge un’occhiata scettica a Ray –
giustificata, fra l’altro, perché Ray dimostra appena qualche anno più di
quelli che ha, mentre io ormai vado per la trentina – e si vede.
-E
lei, signorina…- vedo Ray esitare, prima di pronunciare il suo cognome: non lo
usa quasi mai, non è legato a dei bei ricordi – le rammenta persone che l’hanno
rinnegata, le ricorda la famiglia che l’ha ripudiata.
-Cooper.
Ray Cooper.- mormora, piano, e sento le sue dita stringere lievemente le mie.
-È
la mia compagna, dottore, può restare.- aggiungo, ignorando lo sguardo
palesemente sarcastico che ci rivolge: in un’altra situazione, non riuscirei a
trattenere Ray dallo sbottare un qualche commento caustico sullo scetticismo
che in tanti riservano a me e a lei, quando siamo insieme.
Se
c’è una cosa che la mia Ray non sopporta sono i pregiudizi riguardanti l’età –
anche perché, a dirla tutta, spesso lei è più matura di me.
Ma
stavolta non dice niente, si limita a guardare il medico con quegli immensi
occhioni chiari e preoccupati: è uno sguardo tanto implorante che vedo il
dottore sciogliersi appena, intenerito dalla sua espressione.
-Va
bene, allora… vediamo che cos’è successo.-
.
.
[Ray.]
Costole rotte.
Non
sento altro che il sangue pulsare violentemente nelle orecchie, zittendo
qualsiasi altro suono. Alle mie spalle c’è soltanto il gelo del muro freddo, intorno
a me solo il corridoio ospedaliero deserto.
Sono
uscita dall’ambulatorio quando Ben mi ha detto di farlo: ha visto la mia
espressione impallidire, ha sentito le mie mani tremare… e ha capito.
Costole rotte.
Una
costola rotta può provocare schegge d’osso, io lo so bene. Una costola rotta
può perforare un polmone. Quando succede, il sangue raggiunge i bronchioli e i
bronchi, soffocando il respiro e riempiendo la trachea di rosso; arriva a
colare dal naso, dalle labbra… e si muore soffocati, dopo neanche dieci minuti.
È
una morte orribile.
È
orribile vedere una persona morire in quel modo… specie se è una persona che
ami. Specie se quella persona era tutto il tuo mondo.
Specie
se lo hai visto scivolare via davanti a te, se hai visto i suoi occhi
spegnersi…
Will.
Scopro
di essere preda di un tremito quasi convulso, le lacrime che rigano silenziose
le mie guance.
Will.
Ora
più che mai sento la mancanza di William, del mio amico, del mio fratellone;
vorrei che fosse qui, vorrei che arrivasse e mi stringesse forte, che non
dicesse niente – perché lui semplicemente sa,
e ciò che non sa non ha bisogno di chiederlo.
Mi
manca William, mi mancano lui e Angel. I miei amici sono lontani ed io non ci
posso fare niente, non posso nemmeno chiamarli – non voglio farlo, Will si
sentirebbe soltanto in colpa ancor di più per essere tanto lontano, Angel
soffrirebbe terribilmente nel sentirmi così.
Mi
lascio scivolare lungo la parete gelida, finché non tocco il pavimento lucido e
freddo.
Sono
da sola, ancora una volta, alle prese con le mie paure.
Mi
ci sto abituando, ormai: non penso di essere più la stessa da quell’incidente,
da quelle settimane di buio e di dolore… non sono più quella Ray, quella Ray che affrontava tutto con sicumera, con
baldanza e sprezzo del sacrificio.
Adesso
sono soltanto una ragazzina angosciata.
Mi
appallottolo su me stessa, spaventata, nascondendo il viso fra le mie braccia e
permettendomi – finalmente – di piangere.
.
.
[Ben.]
Prendo
fiato, lentamente, quando la porta interna
dell’ambulatorio si chiude dietro il dottore partito alla ricerca di una
richiesta per dei raggi X. Devono controllare che non ci siano dei problemi più
gravi… ma in questo momento non m’importa, adesso sono soltanto preoccupato per
lei.
Quasi
tre anni fa, prima di conoscere me, Ray ha perso una persona che amava con
tutta se stessa: non ne parla mai, di lui, non accenna mai niente di ciò che lo
riguarda, evita accuratamente di riportare alla mente quella sofferenza che
tanto l’ha distrutta. So soltanto che quell’uomo, quell’uomo che lei tanto
amava e che l’ha tanto amata, se n’è andato per lo stesso tipo di lesione che
potrei avere io.
Non
riesco a essere geloso, non ci sono mai riuscito: l’unica cosa che desidero è
non vederla stare male al ricordo, l’unico pensiero che mi sta ossessionando è
quello di rassicurarla, di prometterle che andrà tutto bene.
Will
è anche più chiuso di lei, su quell’argomento: l’unica cosa che so per certo è
che il biondo continua ancora oggi a torturarsi per non esserci stato, per
essere stato lontano – in Nuova Zelanda, per le riprese di Prince Caspian – da
Ray in quel momento in cui tanto avrebbe avuto bisogno di lui.
…William.
Prim’ancora
di formulare del tutto il pensiero, ho già recuperato il mio telefonino dalla
tasca dei jeans. Compongo il numero di Will in fretta, facendo un rapido
calcolo per determinare il fuso orario: dovrebbe essere pomeriggio, a
Hollywood.
-Pronto?-
William risponde dopo cinque squilli, la voce allegra e squillante come sempre.
-Will,
sono in ospedale.- esordisco, rapido, saltando tutti i convenevoli del caso…
-Cosa?!-
…Will prima o poi mi ucciderà, per queste mie uscite. -Ray sta bene?- mi chiede
subito dopo, prevedibilmente: da quando lui e Angie sono partiti, il biondo
vive nel terrore che possa succedere qualcosa alla sua amica, alla sua
sorellina.
Non
penso se lo perdonerebbe mai.
-Sì,
sta benissimo. Mi sono rotto due costole.- gli spiego rapidamente, sbirciando
verso la porta chiusa e sperando che il medico non rientri: non penso che
sarebbe molto accondiscendente nel vedermi telefonare…
-Come
diavolo hai fatto!?- sbotta, improvvisamente agitato: e capisco benissimo che
Will è arrivato alla mia stessa conclusione, allo stesso ricordo, alla stessa
situazione.
Ray
sta male.
-Sono
caduto sul palco.- gli spiego, ma non m’interessa assolutamente di ciò che è
successo a me: Ray sta male a causa mia,
e non posso fare niente per aiutarla.
-Will,
puoi chiamare Ray? È uscita poco fa, non sta per niente bene. S’è intestardita
a portarmi qui, ha guidato…- gli chiedo, ma Will non mi lascia nemmeno finire.
-La
chiamo subito.-
.
.
[Ray.]
E’
passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ho pianto in questo modo.
Non
riesco a smettere, non riesco a fermare i singhiozzi che mi scuotono il petto:
sono lievi, incessanti, martellanti. Penso di non avere più lacrime da
piangere, qui, accoccolata su me stessa con le ginocchia fra le braccia.
Quasi
non sento il telefonino suonare: è nuovo, me l’ha regalato Ben un mesetto fa.
Il mio vecchio telefono è finito distrutto nell’incidente.
Il
nome che lampeggia sullo schermo non mi sorprende del tutto: sullo sfondo nero,
lampeggia un “WILL” in caratteri bianchi che spiccano sullo schermo scuro.
-Ehi,
raggio di sole.- la voce di William, nonostante sia un idiota, è un balsamo
caldo che arriva a lenire un poco il dolore immenso che sento vibrare dentro di
me.
Non
ci sentiamo spesso, in questo periodo: è impegnato con il nuovo lavoro, è
impegnato con Angel, è felice. Sto cercando di pesare il meno possibile su di
lui, sto cercando di non dargli il pensiero di me – di me che non sto più così
bene, da quell’incubo.
Mi
sono chiusa in me stessa negli ultimi mesi, da quando lui e Angel sono partiti:
mi sono chiusa con tutto e con tutti, con la sola eccezione di Ben e –
incredibilmente – di Anna.
Anna
ed io condividiamo una cosa molto importante, un sentimento che ci ha avvicinate
e ci ha permesso di diventare amiche: c’è una persona a cui teniamo allo stesso
modo, a legarci, e quella persona è Will.
Ma
non potrà mai essere mia amica quanto Angel. Non sarà mai tanto vicina a me
quanto la mia piccola Angie.
-Ciao.-
mormoro, tirando su col naso e tentando di darmi un contegno. Non voglio che mi
senta piangere, non voglio che si senta in colpa per non essere qui… Will ha la
sua vita, Will ha tutto il diritto di vivere senza il peso di un’amica
depressa.
-Ti
ha chiamato Ben, vero?- gli chiedo, conoscendo già la risposta: Ben si starà
tormentando, ora, perché sta male e non riesce a proteggermi.
-No,
sono un telepate dalla fluente chioma bionda.- un idiota dalla fluente chioma bionda, direi.
Non
riesco a trattenere nuove lacrime, quando mi rendo conto di quanto l’assenza di
Will sia enorme e palpabile: ho sempre potuto contare su di lui, finché è stato
qui… adesso, però, il pensiero di dover affrontare tutto da sola è
terribilmente pesante.
-Ehi,
piccola, basta piangere.- sussurra, e quel sussurro spalanca di nuovo un
baratro che credevo di aver momentaneamente richiuso.
Ben.
Non
posso pensarci, non posso pensarci, NON POSSO.
Se
gli succedesse qualcosa… se dovessi perdere Ben… penso potrei morire, non gli
sopravvivrei. Non sono più così forte, non sono abbastanza forte da riuscire a farcela senza di lui.
A
volte mi spaventa quanto è diventato immenso l’amore che provo per lui: non
penso di essere mai stata coinvolta tanto, così completamente, assolutamente,
totalmente piena di un’altra persona.
-Mi
sono spaventata…- la voce mi esce mormorata, bassa, rotta dal pianto.
-Sei
stata grande, Ray.- la voce di Will suona terribilmente sicura, al contrario
dell’instabile tremore che sento nella mia. -Lo hai portato lì, hai guidato,
hai sconfitto in una botta sola tutte le tue paure. Non potevi fare di più, e
vedrai che non ha nulla di grave, ci vuole ben altro per liberarsi di
quell’altro là.-
-Si
è rotto due costole, Will…- sussurro pianissimo, e quando lo sento sospirare
capisco che sa a che cosa mi sto riferendo.
-Lo
so, me l’ha detto.- posso quasi immaginarlo annuire, passarsi una mano fra i
capelli biondi e sicuramente troppo lunghi, gli occhi azzurri più scuri e
preoccupati. -Ray, non capiterà di nuovo. Non gli succederà niente, starà
bene.-
Mi
stringo ancor più su me stessa, sentendo un fremito terribile scuotermi fin da
dentro.
-Ho
paura... non posso pensarci, non ce la faccio…-
-Ray,
basta. Basta, d’accordo?-
Basta.
Quella
parola assomiglia molto a una secchiata d’acqua gelida sul viso.
Basta, Ray.
-Ben
sta benissimo, ci vuole ben altro per accopparlo. Non succederà nulla, andrà
tutto a posto. Okay?-
La
voce di Will riesce a fare breccia in quel denso guscio di terrore che minaccia
ogni giorno di sopraffarmi, con cui lotto tutte le volte che al mattino apro
gli occhi.
Poi
penso a William, penso ad Angel.
Mi
volto a guardare Ben che dorme accanto a me, mi concentro sulla sua presenza,
sul calore del suo corpo: e mi rendo conto che posso andare avanti, che c’è
ancora qualcuno per cui posso lottare.
-Okay.-
pigolo, ma non faccio in tempo a rispondere che sento un tramestio, una breve
risata di Will, e una seconda voce che si affaccia al telefono satellitare.
-Ray?-
Angel.
-Angie…-
sussurro, sentendo un nodo terribile stringersi nella mia gola, le lacrime che
scivolano piano lungo le guance.
Non
sento la mia migliore amica da troppo tempo, ma nemmeno mi sono resa conto di
quanto m’è mancata: era tanto che non sentivo la sua voce dolce, calda e
sicura, era tanto che non la sentivo – nonostante un oceano a dividerci – così
vicina a me.
Io
voglio bene ad Angel. È la mia piccola roccia, lei, è una creaturina adorabile
capace di dare un affetto immenso.
Mi
manca Angie.
Mi
manca lei e mi manca William.
-Ma
non piangere! Guarda che non ti parlo più se piangi nel sentirmi.- brontola,
contrariata, e non riesco davvero a non sbuffare divertita nel sentirla
minacciarmi in quel modo.
Sorrido,
passandomi una mano sul viso e cercando di cancellare le troppe lacrime che ho
pianto: finalmente riesco a smettere di tremare, finalmente riesco a riprendere
il controllo su me stessa.
-No,
io… sono solo contenta di sentirti.-
.
.
[Ben.]
Sospiro,
lievemente esasperato, quando Ray mi costringe a distendermi a letto: preme le
mani sulle mie spalle e mi spinge giù, ma io sogghigno e la trascino sul letto con
me.
È
calda, Ray, è buona, è soffice come la panna: il suo corpo è una fonte di
calore inestinguibile e, quando si accosta al mio, quasi brucia.
Ridacchia,
accarezzandomi i capelli e sciogliendo con delicatezza la stretta delle mie
mani sulle sue: ma rimane cavalcioni del mio ventre, non del tutto convinta di
allontanarsi da me.
Ha
uno sguardo stanco, terribilmente stanco. Ma è serena, e so che si sta
sforzando di esserlo per non farmi più preoccupare.
Parlare
con Will e con Angel le è servito, l’ha tranquillizzata immensamente: e, quando
le ho riferito che non ho niente di grave e che in un paio di giorni sarò
completamente a posto, l’ho vista finalmente rasserenarsi come il cielo dopo un
temporale.
-Ora
tu stai buono e guai a te se ti muovi.- m’intima, premendo l’indice sulle mie
labbra e scrutandomi con un cipiglio severo.
-Va
bene, capo.- annuisco, mimando il saluto militare e strappandole una breve
risata, mentre si alza.
-Adesso
preparo qualcosa da mangiare, alla fine non hai nemmeno cenato, non…-
-Ray,
vieni qua, per piacere?- si volta a guardarmi, sorpresa, lo sguardo sereno che
vacilla: ha ancora gli occhi arrossati, gonfi, ma è molto più tranquilla di
qualche ora fa. -Sta’ buona, okay? Fermati, una buona volta. Non ce n’è
bisogno.-
Allungo
una mano e la tiro nuovamente contro di me, testardo: e stavolta Ray si lascia
avvicinare, sospirando e arrendendosi al bisogno che provo di sentirla vicina.
Si
accoccola vicino a me, chiudendo gli occhi e posando delicatamente la testa
sulla mia spalla. Si lascia abbracciare, sento le sue mani affusolate
accarezzare il mio ventre, il seno soffice modellarsi sul mio petto.
-Non
farmi mai più una cosa del genere.- sussurra, respirando a fondo forse per la
prima volta da quando siamo usciti dal teatro,
abbandonandosi completamente a contatto col mio corpo.
Respiro
profondamente il profumo suadente e forte dei suoi capelli, socchiudendo le palpebre e beandomi della morbidezza della sua pelle candida. Le passo un braccio
intorno alla vita e la stringo a me, le sue dita che risalgono il mio petto e
vanno a intrecciarsi sulla mia nuca, le labbra che delicate mi baciano sulla
gola.
-Altrimenti
la prossima volta te le rompo io le costole, una a una.- brontola, ma la sua
voce è più calda e più dolce, segno che è immensamente più tranquilla di quanto
sia stata stanotte.
Le
accarezzo la schiena, i boccoli biondi, le guance: e la bacio in fronte, in un
gesto tanto semplice quanto intimo che le strappa un sorriso.
-Vedrò
di stare ancora più attento, allora.-
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My Space:
Buonasera.
Oggi è una giornata particolare: non
ho molta voglia di scherzare, in questa uggiosa
giornata di inizio marzo. È un anniversario particolare, un anniversario che m’è piombato addosso con la pesantezza di un macigno.
Sono passati due anni. Sono passati
due anni da quando lui non c’è più.
Mi manca, sapete? Mi manca
terribilmente.
Non so. Non c’è nient’altro da
aggiungere, se non che Ben s’è realmente rotto due
costole durante Birdsong. Questa fic è ambientata
prima della shot “There’s a
place for Us”, diciamo a ottobre/novembre.
Un bacio,
B.