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Autore: Fiamma Drakon    05/03/2011    2 recensioni
01. Hermes of Death: «... è morto... per colpa mia...».
02. Son of Darkness: Il giovane Vince era paragonato dalle serve ad un piccolo principe delle tenebre.
03. They simply hate each other: Tra Vincent Nightray e Xerxes Break non correva affatto buon sangue.
04. Like a dark sky: «Tu... vedi tutto con troppa negatività...».
05. Drowsy anger: «Vince, cosa volevi fare con quelle forbici, mh?».
06. Tutor-mode ~ ON: «Cominceremo con le lezioni di pianoforte, lady Ada».
07. It's red like my scissors' wound... and your eye: «Il tuo occhio rosso... ha lo stesso colore delle ferite di Cheshire, quelle delle tue forbici».
08. I want to call you "master"!: «Dai, Vincent... a sentirmi chiamare “padrone” mi sembra d’essere vecchio...».
09. The Curse of Awareness: «Perché... non è stata colpa mia, Gil...».
10. War on a white blanket: «Una dichiarazione di guerra?».
[scritta per la community dieci&lode]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti, Vincent Nightray
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
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1_Hermes of Death Occhi eterocromi, uno oro l’altro sangue.
Era proprio a causa di quest’ultimo che Vincent aveva perso tutto: sua madre l’aveva abbandonato assieme a suo fratello in strada senza farsi il minimo scrupolo, impaurita dalle leggende secondo cui coloro che possedevano occhi color del sangue fossero perseguitati dalla sfortuna e dalla perenne ombra della morte che si sarebbe abbattuta su chiunque avesse attorno.
Così era iniziata la loro vita per strada, vivendo di quel poco che il maggiore dei due, nato con ambedue gli occhi di uno sfavillante giallo dorato, riusciva a racimolare dai negozianti della città.
Lui non faceva paura a nessuno, anzi, suscitava tanta tenerezza in tutti coloro che lo vedevano girovagare tra le bancarelle con solo laceri vestiti indosso ed un mantello logoro.
Invece, le persone che passavano vicino a Vincent, di solito accucciato al lato della strada, avvolto in cenci sporchi e bucherellati, al vedere il suo occhio rosso lo additavano e lo insultavano, per poi proseguire per la loro strada invocando la misericordia divina per loro e per le loro famiglie.
I bambini che ogni tanto giocavano nei dintorni del vicolo in cui lui viveva con il fratello, di tanto in tanto fermavano i giochi ed iniziavano a stuzzicarlo, prendendolo in giro per quell’occhio, domandandogli dove fosse la sua famiglia o perché fosse stato abbandonato.
“Sei il messaggero della Morte, non è vero?” era la domanda che più spesso gli rivolgevano, per poi scoppiare a ridere sguaiatamente.
Quell’occhio e quella fama da portatore di fati funesti che l’aveva sempre perseguitato l’aveva gradualmente trasformato in un qualcosa di cui aver paura e di cui prendersi gioco, una specie di mostro da circo.
La cosa che gli faceva più male, tuttavia, era che tutti ignoravano e non riuscivano a vedere in lui un essere umano come loro, con dei sentimenti ed una sensibilità.
L’unica eccezione a ciò era suo fratello Gilbert: lui pareva ignorare completamente tutte le dicerie circa il suo occhio e la morte che l’accompagnava ed interveniva sempre in sua difesa.

Pioveva nel vicolo dove “abitavano”. L’acqua scrosciava fitta ed il picchiettio delle gocce sul lastricato era un basso martellare incessante che entrava sottopelle, dando la sensazione che quei colpetti in realtà battessero non sul suolo, bensì sulle ossa.
Vincent stava rannicchiato in un angolino, le ginocchia ripiegate contro il petto, stringendosi quanto più poteva alle pareti umide e sporche dell’edificio dietro di sé, cercando di vincere il freddo che lo stava attanagliando. Tremava come una foglia e i cenci che aveva addosso, inzaccherati d’acqua e fango, non bastavano a proteggerlo dal freddo.
Dal suo modo di porsi, sembrava volesse sparire all’interno del muro stesso.
L’espressione che portava stampata in viso era colma di un profondo, incommensurabile terrore.
«Vince, cosa ci fai lì a terra? È bagnato, ti prenderai un malanno...!».
Vincent alzò gli occhi, incrociando così la figura del fratello maggiore, in piedi innanzi a lui, il viso una maschera di preoccupazione.
«Gilbert...» sussurrò, come se quel nome fosse il suo ultimo appiglio alla sanità mentale.
Il maggiore si chinò su di lui, scompigliandogli affettuosamente i capelli, sorridendo con una punta di mestizia.
«Sì...?» chiese.
Più a lungo il minore lo fissava più sentiva montare dentro un affetto incommensurabile verso di lui, l’unica persona che si premurava di stargli accanto e di mostrargli l’umanità che gli era sempre stata negata.
Lacrime amare traboccarono dai suoi occhi eterocromi senza che potesse far niente per trattenerle.
Al veder comparire quelle prime stille di pianto, Gilbert mutò espressione in una perplessa e portò un dito a contatto con la sua guancia destra, tergendo una lacrima.
«Perché stai piangendo, Vince...?» domandò.
Quest’ultimo si afferrò la testa con uno scatto energico, stringendola, chinando il viso verso le ginocchia.
Sembrava che stesse soffrendo tantissimo.
«Vince...?» lo chiamò l’altro, prendendogli un braccio, allarmato da quel suo improvviso modo di comportarsi.
«Vince?!».
«È... morto» sussurrò debolmente lui, contraendo con maggior forza i muscoli delle braccia «... è morto... per colpa mia...».
Gilbert sgranò gli occhi, comprendendo all’improvviso il suo atteggiamento.
«Cosa stai dicendo?»
«È... morto, Gil...».
Il bambino pareva sconvolto.
«Chi
«Quel gatto...».
Così dicendo, Vincent alzò il capo e diresse il proprio sguardo da un’altra parte, cosa che fece anche Gilbert, trovando il corpo di un micio che giaceva sul lastricato, evidentemente morto.
Era piccolo e la pelliccia era abbastanza folta, di un tenue color cenere. Il musino era un poco contratto, come se avesse provato un gran dolore nell’estremo attimo della sua vita, gli occhi serrati.
«È morto... mentre lo stavo guardando...» esclamò Vincent, agitato «Sono il messaggero della Morte. È colpa mia se quel gatto è morto».
Gilbert notò che la pelliccia del gatto era tutta sporca di qualcosa d’indefinibile che tuttavia riuscì a chiarire immediatamente al fanciullo come stavano le cose.
«Non è colpa tua» disse al fratellino, sporgendosi verso di lui, abbracciandolo per consolarlo «Quel gatto era malato. Che sia morto qui è solamente un caso e tu non ne sei responsabile in alcun modo».
Il minore sgranò gli occhi, poi allontanò debolmente l’altro e lo guardò timidamente in volto.
«Ma io sono...» esordì.
«Tu sei soltanto tu!» lo interruppe con più forza Gilbert, corrugando le sopracciglia in un’espressione determinata «Tutte quelle voci sul tuo occhio, dimenticale!».
Gli prese il viso con le mani, alzandolo in modo che potessero ben guardarsi negli occhi.
Quelli del suo fratellino erano colmi di insicura ammirazione ed una terribile convinzione radicata in profondità nel suo inconscio.
Tutti quei discorsi assurdi sul suo occhio l’avevano infine assoggettato all’idea che tutto fosse fondato e che lui portasse veramente la morte ovunque andasse.
Era terrificante pensare quanto potessero nuocere quelle leggende alla concezione di sé stesso che aveva Vincent, arrivato addirittura al punto di distorcere la realtà perché si adattasse a ciò di cui tutti l’avevano accusato fin da piccolo.
«Dai, Vince smetti di piangere» esclamò Gilbert, sorridendogli con brio, cercando di tirarlo su di morale.
In quei momenti, l’unica cosa giusta da fare era cercare di fargli capire che lui gli voleva bene nonostante quell’occhio che faceva paura a tutti, ed uno dei modi per far ciò era tentare di risollevarlo con un sorriso.
Anche se la loro condizione era disperata, un sorriso era sempre in grado di alleviare il dolore.
Pian piano le labbra del minore si incresparono in un debole e timido incurvarsi di labbra, poi, a sorpresa, si gettò contro il petto del maggiore, stringendosi a lui.
«Gil...» mormorò semplicemente, ma l’altro sapeva bene che dietro quell’unica breve parola erano nascosti una molteplicità di significati di cui “grazie” era solo il più semplice e superficiale.
Rimasero stretti in quella posizione per dei minuti, prima che Gilbert lo allontanasse da sé per aiutarlo a rialzarsi.
«Andiamo a cercare un posto all’asciutto: siamo tutti bagnati!» esclamò, gettando un’occhiata sfuggente a sé stesso e al fratello: effettivamente, i loro vestiti erano talmente impregnati d’acqua che avevano aderito completamente ai loro corpi, così come i capelli - e tra l’altro il più piccolo aveva dei ciuffi sulla fronte così lunghi che, appiattiti dalla pioggia, risultavano essere una cortina che gli impediva quasi totalmente di vedere.
Vincent, per la prima volta da una settimana a quella parte, rise di una risata che non era vera e propria, bensì un basso risolino che riuscì comunque a far sentire più sereno Gilbert.
«Sì, fratellone andiamo. Ho visto un posto qui vicino dove potremmo rifugiarci per questa notte...» rispose, prendendolo per mano e tirandolo verso l’imboccatura del vicolo.
Sembrava essersi dimenticato completamente del dramma che aveva appena vissuto a causa di quel gatto, ma Gilbert sapeva che la sua convinzione d’essere in qualche modo legato alla morte e alla sfortuna l’avrebbe perseguitato ancora, e sarebbe riemersa non appena se ne fosse presentata di nuovo l’occasione.
Tuttavia, lui sarebbe intervenuto nuovamente a salvarlo dalla pazzia, perché quello era il suo ruolo di fratello maggiore: difenderlo dagli altri... e da sé stesso.
   
 
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