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Autore: Roxe    06/03/2011    5 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

NB Mi ero fatta tutta una diligente scaletta temporale per le mie storie/scene/scemezze, con l’idea di seguire una progressione cronologica precisa nel metterle nero su bianco. Ma questa qui non ne ha voluto sapere di restare in fila, mi ha rotto le ovaie finché non l’ho scritta.
Secondo la mia sequenza sarebbe stata –figuriamoci- una delle ultime, quindi fate conto che siamo alla quarta serie BBC (che SICURAMENTE faranno), Holmes e Watson vivono insieme già da 8 anni, e nella vita sentimentale di John c’è Mary Morstan da un po’.
È un bel salto, ma che ci volete fare, non sono io che decido. Del resto anche la serie tv mescola discorsi e situazioni assai distanti nella cronologia originale. Per non parlare poi della sequenza temporale nei racconti di Sir Arthur, il quale fa un tale casino saltellando avanti e indietro nel tempo da impicciarsi da solo una lunga serie di volte.
Tutto sommato mi sento molto IC in questo momento.
E poi… come dice il nostro amico Vasco… Le fanfiction son come i fiori, nascon da sole, son come i sogni.
E a noi non resta che scriverle in fretta. Perché poi svaniscono.
E non si ricordano più.

 

 

 

Transatlanticism

 

 

 

Quello era l’ultimo viaggio.

Grazie al cielo.

Girare per Londra in macchina alle sei di pomeriggio era di per se stessa un’iniziativa temeraria, per non dire stupida.

Tentare di attraversarla svariate volte con la macchina carica di valigie, mobili e suppellettili era probabilmente l’idea più imbecille che avevano avuto insieme da quando si erano conosciuti.

Mary Morstan osservò con aria preoccupata la piccola cassettiera posizionata in bilico sul tetto dell’auto, fissata con una corda di fortuna che scorreva attraverso i finestrini aperti degli sportelli posteriori, abbrancando il mobiletto sui fianchi e bloccandone ogni spostamento laterale.
Una tenuta a prova di curva, indubbiamente.
Ma alla prima frenata un po’ decisa quel pezzo d’antiquariato sarebbe sicuramente schizzato in avanti, frantumandosi sul cofano del suo maggiolino e regalandole un viaggio per niente gratis dal carrozziere.
Del resto un camion per i traslochi sarebbe stato esagerato per trasferire le poche cose che John doveva spostare nella casa nuova.
Vivere in affitto ha i suoi svantaggi, ma ti regala l’indubbio vantaggio di dover muovere solo la tua persona e poco altro, quando decidi di andartene.

Qualche valigia, due mobili, e nessun rimpianto.

Di solito.

La giovane donna fece un gran respiro e si voltò a guardare le finestre al primo piano del numero 221B di Baker Street, osservando la fioca luce che filtrava attraverso le tende tirate, ancora troppo debole per competere con il riverbero del sole pomeridiano.
Si passò le mani sui capelli, tirando all’indietro i ciuffi corti e ribelli che le danzavano attorno al viso, sfuggendo alla presa della pinza e dell’esercito di piccole mollette fissate dietro la nuca ad imprigionare i suoi folti riccioli biondi, fermati dietro la testa in una massa casuale eppure perfettamente composta.

Dall’appartamento non proveniva alcun suono.
Da più di un quarto d’ora aspettava che John scendesse dopo aver dato l’ultima occhiata in giro.
Per essere sicuro di non aver dimenticato niente d’importante.

E Mary decise che era abbastanza.

Non ne era sicura.
Non era sicura di niente quel giorno. Ma passare i prossimi quaranta minuti di un freddo pomeriggio di marzo in mezzo alla strada ad osservare i sinistri pencolamenti di una vecchia credenza sul tetto della sua auto iniziava a sembrarle una pessima prospettiva.

Si avviò con passo deciso per le strette scale dell’abitazione, ma la sua andatura rallentò progressivamente sulla seconda rampa, mentre il suo sguardo si allungava con timore al di là dell’ingresso dell’appartamento, cercando d’intravedere segni di vita attraverso la porta aperta.
Le sue dita si strinsero involontariamente attorno alla ringhiera mentre approdava sul pianerottolo, combattendo con il desiderio di abbassare gli occhi, per ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe incontrato il suo sguardo.

Lui era lì.
Immobile al centro della stanza.
Le mani in tasca e le gambe unite, come sull’attenti.

Si guardava intorno con aria smarrita, quasi non sapesse dove posare gli occhi, attratto da ogni angolo della casa dove aveva trascorso la sua vita negli ultimi otto anni.
Mary vide il suo sguardo incastrarsi nella stoffa sbiadita di quella vecchia poltrona logora, inspiegabilmente attratto da un orripilante cuscino decorato con la bandiera inglese che giaceva distratto su una coperta grigia che qualcuno aveva gettato senza garbo sul bracciolo.
Qualche centimetro più in là un piccolo tavolino tondo resisteva a stento alla pressione di una pila interminabile di volumi, affastellati l’uno sull’altro in una composizione verticale che con la sua sola esistenza sfidava coraggiosamente tutte le leggi di gravità conosciute. Il salto verso il caminetto fu quasi doloroso, perché il corpo di John fu percorso da un tremito impercettibile mentre percorreva la mensola sottile, passando in rassegna tutti gli oggetti che incontrava, uno per uno, per poi sostare qualche istante di più sul violino che era stato posato in equilibrio incerto sull’angolo destro, spodestando senza pietà la statuetta nera sepolta riversa sotto di esso, rendendo ancora più precaria la sua stabilità.
Lo sguardo scese lentamente lungo la parete, riservando alla grande poltrona nera solo un’occhiata fugace, per poi percorrere rapidamente il pavimento evitando con cura l’apertura della finestra, e posarsi infine sulla scrivania, fermandosi a lungo ad esaminare ogni foglio, ogni centimetro, ogni granello di polvere in mezzo a quell’incredibile confusione.
Lo schermo del computer portatile emanava un tenue bagliore, irradiato dalle onde ipnotiche dello screensaver che si muovevano sulla sua superficie scura, alternando colori accesi a tinte pastello nella ciclica sequenza dello spettro solare.
Un’occhiata distratta al di là della tenda, nella luce del sole, e poi ancora giù, sul pavimento, in mezzo a cesti e scatoloni sparpagliati alla rinfusa, pieni di libri e vestiti, appunti e provette, affastellati senza un criterio che non fosse unicamente nella testa di colui che li aveva raccolti.
Risalendo sul divano l’attenzione fu catturata dal cellulare abbandonato tra i cuscini, ricoperto da quel sottile strato di pulviscolo che si posa così facilmente sulle superfici lisce, scure e lucide quando non si ha l’accortezza di spostarle o pulirle almeno una volta alla settimana.
Quel telefono doveva essere lì da più di sette giorni.
Forse dieci.
La cosa più difficile fu staccarsi da quell’oggetto, risalire con fatica la spalliera scura, e raggiungere finalmente il capolinea.
Il lungo viaggio degli occhi terminò tra le volute geometriche di una tra le più brutte carte da parati che mente umana abbia concepito in secoli di storia e design, incastrando nuovamente ed inspiegabilmente il suo sguardo in un punto in particolare, che sembrava non presentare niente di diverso dal resto della parete, eppure doveva nascondere dietro quell’orribile motivo un tesoro perduto di valore inestimabile, perché il solo fissarlo riempì lo sguardo di John di una carica di malinconia quasi insopportabile alla vista.

Lei detestava quello sguardo.

Ogni secondo che passava con lui detestava quello sguardo, che da dieci giorni era sempre in agguato, nascosto dietro le pupille scure, pronto a saltar fuori nei momenti più improbabili ed inopportuni.
Lo detestava. E non poteva fare altro.

Non c’era niente che potesse fare per allontanarlo dai suoi occhi.

Rimase ancora qualche istante ferma sulla porta, la spalla appoggiata sullo stipite e la testa reclinata da un lato, respirando con sofferenza l’aria mesta che riempiva ogni angolo di quella stanza invasa dalla luce, eppure così scura.

Si staccò dalla porta e fece un passo. Uno soltanto.
John non sembrò sentirla, voltato di spalle con la testa girata da un lato, lo sguardo fisso su quella parete, a tratti inespressivo, a tratti indecifrabile. A tratti insopportabile.

Mary si avvicinò lentamente alla sua schiena, fissando le sue spalle tese, curve, come gravate di un peso che riuscivano appena a sostenere.
Si fermò proprio dietro di lui, sfiorando con la punta dei piedi i talloni delle sue scarpe. Una perfetta manovra d’accerchiamento da sinistra.
Chiuse gli occhi un istante, prese un respiro silenzioso, e poi posò con dolcezza il mento sulla sua spalla, avvertendo con piacere una leggera vibrazione attraversare il corpo di John a quel contatto.

Lui ruotò subito la testa verso di lei, poggiando la guancia sulla sua fronte, e Mary sentì distintamente la sua schiena sollevarsi e proiettarsi all’indietro, appoggiandosi delicatamente sul suo seno.
Rimase ferma per qualche istante, godendo di quella pressione e di quel sollievo inaspettati, mentre con lo sguardo intraprendeva coraggiosamente lo stesso viaggio che aveva appena fatto lui.

Una breve passeggiata  attraverso il suo mondo.
Disordinato, incomprensibile, complicato.
Pazzesco.

No, non era il suo.

 

- Lui dov’è?

 

Non c’era una vera ragione per fare quella domanda. In quel momento.
Era semplicemente inevitabile.

- Non lo so.

La voce opaca, forzata. Che fece fatica ad uscire dalle labbra.
Non servì molta intuizione per immaginare l’espressione del suo viso in quel momento, anche se non poteva vedere il suo sguardo.

Per fortuna.

- Sono dieci giorni che lo incontro a stento. Esce al mattino ad un’ora assurda, e ritorna la sera ad un’ora anche più assurda.

Mary abbozzò un cenno d’assenso col capo, facendo dondolare adagio l’intera struttura dei loro due corpi appoggiati uno all’altro.

- Non ti ha detto nulla?

- Mh…

Un sorriso amaro comparve sul viso di John. E questa volta lei riuscì a sentirlo anche senza vederlo.

- Quando gli ho detto che andavo a vivere con te… Ha borbottato qualcosa d’incomprensibile sulla nocività estrema delle emozioni, e sui danni che procurano alle facoltà mentali. Credo. Parlava talmente veloce che ho capito una frase su cinque.

- E poi?

- E poi niente. Non ci siamo più scambiati una parola. Sono dieci giorni che non ci parlo, te l’ho detto.

Questo era più che evidente.

Lei chiuse gli occhi, affondando con determinazione il mento nella stoffa della sua camicia, per poter premere con più forza la fronte sulla guancia di John. E alla fine si decise.

- Vuoi aspettare che torni per salutarlo?

Lui trattenne il fiato per qualche istante, e Mary avvertì ogni muscolo del suo collo e delle sue spalle irrigidirsi sotto di lei.

- No… no. Non fa niente. Non tornerà. Lo so com’è fatto. A lui non-…

Ecco qua.
Era chiaro.
Talmente chiaro da far male agli occhi, quando eri costretto a guardare.

- Non importa.

Il tono della sua voce era così avvilito, così desolato da non sembrare nemmeno il suo. E lei fece ciò che poteva.
Tutto quello ch’era in grado di fare per sollevare quel peso.
Allungò le braccia intorno alla sua vita, stringendolo con forza ed attirandolo a sé.
John si lasciò cadere nel suo abbraccio, permettendo per qualche secondo che quel corpo esile e sottile avesse il compito di sorreggere il suo, ben più pesante.
Chiuse gli occhi, avvolgendo nelle sue le piccole mani di Mary strette attorno a lui, e lasciando scorrere la guancia sulla sua fronte con un movimento ritmico e delicato.

Lei assaporò quella carezza il più a lungo possibile, stringendo a sé quell’uomo che stava per trasferirsi permanentemente nella sua vita.

- Hai preso tutto?

John sollevò la testa e si guardò intorno.
Per un’ultima volta.

- Credo… Credo di sì.

- Allora andiamo?

Mary cercò invano di scorgere l’espressione del suo viso così vicino, troppo vicino per poterlo vedere.
Sentì il suo petto espandersi tra le braccia e poi svuotarsi lentamente, fino a restare completamente vuoto.

 

- Sì.

 

Con delicatezza lei lasciò la presa, facendo ricadere le mani lungo i fianchi, e si allontanò di un passo. John si voltò a guardarla con il miglior sorriso che riuscì a farle in quel momento, e si diresse verso la porta passandole a fianco.
Ma una volta giunto sull’ingresso tornò a voltarsi. Tornò a guardarsi intorno.
Ancora una volta con quello sguardo.

E la pazienza finì.

Mary incrociò le braccia, ferma al centro della stanza, fissandolo con aria accigliata.

- Ehi! Non ti stai trasferendo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico!

Lui ricambiò la sua occhiata con stupore, sorpreso da quella voce inaspettatamente dura ed allo stesso tempo tenera, che riuscì a rimproverarlo e tranquillizzarlo nello stesso momento.

- Potrai tornare qui ogni volta che lo vorrai.

In risposta alla sua espressione rassicurante John fece un sorriso triste. Poi abbassò la testa scuotendola leggermente.

- Già.

Infine si girò verso le scale, e s’incamminò a passi lenti attraverso il pianerottolo. Senza più voltarsi indietro.

Lei sospirò debolmente, guardandosi intorno con attenzione nel tentativo di fermare nella memoria almeno l’impressione di quella stanza così vissuta, e così difficile da abbandonare.
Poi si mosse verso l’uscita, spense la luce prima di socchiudere la porta alle sue spalle e si avviò giù per le scale con la testa bassa, il passo deciso, lo sguardo pensieroso fisso sul pavimento.

John si era fermato alla fine della rampa ad aspettarla, e rimase stupito quando la vide rallentare improvvisamente l’andatura fino a bloccarsi qualche gradino sopra di lui, fissandolo con un’espressione totalmente indecifrabile, a metà tra lo sconvolto e l’eccitato.

- Ah… John… Senti! Tu vai avanti ok? Prendi la macchina e porta l’ultimo carico a casa. Io resto qui a controllare se hai lasciato niente e poi… Poi mi sono ricordata che ho delle cose da fare in zona quindi-…

- Ma che stai dicendo?

La guardò un po’ incredulo e un po’ divertito, facendo qualche passo verso di lei.

- Vorresti lasciarmi da solo in una casa mezza vuota a montare mobili e scaffali?

- Lo so, lo so Johnny! Ma è una cosa importante! Ti prego!

Ahi.
Brutto segno quando lo chiamava Johnny.
Mary non usava mai quel vezzeggiativo se non in casi di estrema necessità, quando doveva fare appello a tutte le sue risorse per convincerlo di qualcosa della quale non si sarebbe mai convinto per nessuna ragione al mondo.
Ma quei grandi occhi azzurri che lo fissavano imploranti erano qualcosa alla quale non era in grado di opporre alcuna resistenza degna di questo nome.

- Farò in fretta, te lo prometto.

Parlando con voce morbida lei si portò le mani giunte all’altezza del viso, posandole delicatamente sulle labbra, e chiedendo perdono con gli occhi.
Johnny sospirò, ricambiando con un sorriso dolce e rassegnato quello sguardo al quale era impossibile negare qualunque cosa.

Una facile resa, senza morti né feriti.
Ma il valoroso soldato sconfitto reclamava il suo premio di consolazione.
Salì lentamente i gradini che li separavano, portando il volto a pochi centimetri da quello di Mary e fissando gli occhi nei suoi, mentre le pupille si dilatavano e lo sguardo si faceva più intenso. Più caldo.

- Saprai farti perdonare?

Lei ricambiò quell’occhiata maliziosa con un sorriso divertito.

- Certo.

Così dicendo s’inclinò appena in avanti, stampandogli un bacio delicato sulla punta del naso.
John socchiuse gli occhi, iniziando a ridere sommessamente. Poi li riaprì del tutto, tornando a fissarli in quelli chiari e luminosi fermi a pochi centimetri dai suoi, mentre lei si sfilava di tasca le chiavi della macchina e le metteva tra le sue mani.
Stringendo il metallo tra le dita lui si allontanò si scatto, malvolentieri. Prima di lasciarsi tentare da qualcosa che per qualche ragione quel giorno, in quel posto, gli sembrava inopportuno.

Scese un paio di gradini e poi si fermò, voltandosi ancora a guardarla ed alzando una mano in segno di saluto.

- Allora a dopo!

Lei agitò la mano a sua volta, salutandolo con un sorriso solare.

E John riprese a scendere con passo rapido l’ultima rampa, dirigendosi quasi di corsa verso l’ingresso. Colto improvvisamente da un’inspiegabile fretta, come una frenesia, un desiderio impellente di uscire da lì.

Era quasi arrivato in fondo alla scala quando la voce di Mary lo bloccò.

- John!

Lui si fermò sull’ultimo gradino, alzando lo sguardo verso l’alto e trovandola affacciata alla ringhiera.

- Ti mando un messaggio se faccio tardi ok?

- Va bene. Cerca di non fare tardi però!

Lei gli strizzò l’occhio muovendo le dita.

- Promesso.

Ammiccando a sua volta John lanciò in aria le chiavi con un gesto spavaldo e aspettò che il mazzo ricadesse docilmente nel suo palmo dopo una breve e perfetta parabola verticale. Poi scattò in avanti e sparì nella porta d’ingresso, tirandosi dietro il pesante portone.

 

SBAM

 

Mary rimase in ascolto per svariati secondi. Immobile sui gradini della scala.
Aspettò di sentire il rumore della sua vecchia auto che si metteva in moto, emettendo quel suo familiare borbottio. L’udì ingranare la prima con una robusta grattata, ed uscire dal parcheggio con un paio di manovre, per poi allontanarsi finalmente lungo la strada, a velocità sostenuta, fino a svanire in lontananza perdendosi tra i confusi rumori del traffico cittadino.

Solo allora tirò un lungo sospiro di sollievo, portandosi una mano al petto e rovesciando la testa all’indietro.
Restò in quella posizione per qualche istante, assaporando il silenzio e tentando di calmare il battito del cuore.

Non era abituata a mentire.
Le riusciva uno schifo e detestava farlo, soprattutto con John.
Ma era successo tutto talmente in fretta.
L’idea era affiorata così, senza preavviso, nello spazio di quattro gradini.

Forse c’era.
C’era qualcosa che poteva fare.
Anche se non sapeva bene come farlo.
Ed era terrorizzata.

Lui la terrorizzava.

I suoi occhi grigi, spietati, taglienti come la lama del più affilato dei rasoi, che indovinavano ogni angolo di te semplicemente posandosi sulla tua superficie.
La sua figura alta e nervosa, capace di restare immobile per ore, in attesa, per poi scattare con ferocia sulla preda, affondando i denti nella sua carne e dilaniandola atrocemente senza lasciarle alcuno scampo. Mai.
Le sue dita lunghe e sottili, che tracciavano nell’aria i segni fugaci del suo pensiero, rivelando di lui più di quanto non facessero le sue parole ed i suoi sguardi.
Il suo oscillare grottesco ed imprevedibile tra apatia ed eccitazione, che rendeva impossibile avvicinarlo senza essere pervasi da un soffocante senso di terrore.
La sua voce bassa e densa. Quel suo parlare veloce, oscuro, impenetrabile.
La spaventava a morte.

Il modo in cui John lo guardava la spaventava.

Ma la cosa in assoluto più spaventosa. Per lei.
Era il modo in cui lui guardava John.

Quel giorno, proprio quel giorno, avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altro posto sulla terra piuttosto che su quella scala angusta, a due passi da una stanza nella quale non aveva più il coraggio di entrare.

Ma non aveva altra scelta.

Mary si voltò adagio e risalì la rampa fino al pianerottolo.
Si sedette sull’ultimo gradino.

 

E cominciò ad aspettare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Il titolo della fic è un estratto mirato della frase che Holmes pronuncia nel racconto The Blanched Soldier -uno degli ultimi lavori di Doyle con protagonista Sherlock Holmes- redatto di proprio pugno dallo stesso detective, che nell’incipit del racconto scrive: «The good Watson had at that time deserted me for a wife, the only selfish action which I can recall in our association». Traduzione: «Il buon Watson mi aveva a quel tempo abbandonato per una moglie, l’unico comportamento egoista che riesco a ricordare del nostro sodalizio».
Tra le altre cose questa è la famosa (ed unica) frase responsabile della teoria secondo la quale John avrebbe avuto una seconda moglie dopo Mary. Ma teniamoci l’argomento ‘mogli di Watson’ per un capitolo successivo e concentriamoci invece sulla scelta del titolo.
Anche la frase presa per intero è già di per se stessa più che calzante l’argomento della fic, ma non ho staccato a caso quelle due parole dal resto del discorso.
Separando ‘deserted me’ dal verbo ausiliario, la locuzione cambia radicalmente significato, oltre che ruolo grammaticale, e passa da un ‘mi ha abbandonato’ ad un più intenso e drammatico ‘desolato me’.
Ho sempre trovato il verbo ‘to desert’ molto più forte del suo corrispettivo italiano ‘abbandonare’.
Nella nostra lingua il termine sottolinea esclusivamente la separazione, il distacco non voluto da qualcosa o qualcuno che ci lascia indietro senza che noi lo vogliamo. Nel termine ‘deserted’ invece non c’è solo il rammarico per l’abbandono, ma anche la descrizione implicita dello stato in cui è lasciato l’abbandonato, ovvero in una condizione arida, desolata, priva di vita. Deserta appunto.
I due verbi sono assolutamente equivalenti da un punto di vista del significato, ma trovo che l’inglese abbia una sfumatura più triste ed intensa, che mi è piaciuto sfruttare in questo frangente, per ovvie ragioni.

2. Il titolo di questo primo capitolo è invece copiaincollato pari pari dall’omonima canzone dei Death Cab for Cutie, Transatlanticism.
La scelta è caduta su questa song per tre motivi, primo fra tutti il neologismo in sé, che secondo me rende davvero bene l’atmosfera che volevo dare a questa storia in generale, più che al primo capitolo soltanto (in effetti avrebbe dovuto essere il titolo della fic in toto fino a poco tempo fa). Trovo che il termine transatlanticism riesca a racchiudere efficacemente nella stessa parola il dolore della separazione, il desiderio di colmare la distanza, e l’impossibilità di farlo.
Il secondo motivo è nel testo della canzone stessa, molto bello e del tutto aderente al tema della fic, anche se non l’ho utilizzato (né lo utilizzerò) come parte del narrato.
Il terzo motivo per il quale l’ho scelta vi sarà rivelato solo nel prossimo capitolo. **

3. A scanso d’equivoci sottolineo che Mary Morstan e John Watson non sono ancora sposati nel momento in cui si svolgono i fatti.
Non siamo nell’ 800, dove incontravi una ragazza al mattino, e alla sera le chiedevi di diventare tua moglie…. Nel 2011 una coppia prima di convolare a giuste nozze va a convivere.

PS La prima fic a puntate che ho postato qui era praticamente già scritta quando ho iniziato a caricarla sul sito. In sostanza mi sono limitata solo a dividerla in capitoli.
Questa qui invece è un work in progress, quindi non potrò aggiornare ogni 3 giorni come ho fatto la prima volta.
La scadenza sarà più o meno settimanale, giorno più giorno meno.
Non sono una ‘scrittrice’ molto rapida, leggo e rileggo cento volte (inutilmente XD). Ma io per prima non amo le lungaggini, anche perché mi stufo di stare su una stessa storia per troppo tempo, quindi i coraggiosi che si sono avventurati nella lettura non si preoccupino che gli aggiornamenti arriveranno comunque in tempi umani.

  
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