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Autore: miseichan    06/03/2011    6 recensioni
Alessandro ha ventotto anni. Eppure, fino a quel giorno, non ha mai vissuto per davvero. Sarà un incontro speciale oltre ogni sua immaginazione a portarlo via dall'apatia in cui si era ritrovato, dallo sconforto in cui si rintanava e nascondeva. Un incontro capace di salvarlo e dannarlo al tempo stesso.
Storia partecipante al contest "Musical tra paradiso e inferno" di Piccolo Fiore e FLPP
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lacrime di cristallo'
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In volo con l’angelo

 

Bella,

La parola Bella è nata insieme a lei,

Col suo corpo e con i piedi nudi, lei

E’ un volo che afferrerei e stringerei,

Ma sale su l’inferno a stringere me

 

- Devo confessarmi, padre

Questo mormorò, respirando lentamente.

Non era stato facile. Niente lo era mai stato. Anche pronunciare quelle semplici parole, come ogni altra cosa, gli era sembrata un’impresa immane. Del resto, lui era Alessandro. Non meritava niente. Mai.

Chiuse gli occhi, le mani congiunte fiaccamente in grembo.

- Ho peccato, padre – sussurrò, espirando silenziosamente. Un sospiro mal trattenuto risuonò a lungo nel confessionale, unico rumore oltre le grida. Ma quelle, lo sapeva, le sentiva solo lui. Nella sua testa.

Alessandro socchiuse gli occhi, reclinando piano il capo all’indietro e poggiandolo contro il legno alle sue spalle. Non erano le urla a spossarlo: si era abituato ad ascoltarle, a conviverci. Seppur a malincuore, si era convinto di non potersene mai liberare. In nessun luogo, in nessun momento. O almeno, così credeva.

Così aveva sempre creduto. Fino a lei.

- Ho peccato – ripeté, la gola che gli si chiudeva – Ho peccato, ho peccato, ho peccato -

Non riusciva a dire altro, bloccato su quelle parole. Sembravano semplici a pronunciarsi. E a lungo andare perdevano quasi il loro significato più vero. Sbiadivano, opacizzando, allontanandosi dalla sua visuale.

Un tremore diffuso si era impadronito delle spalle del giovane, le labbra che instancabili continuavano a ribadire le stesse due parole. Una litania soffusa, avvolgente. Quasi cantilenante, a tratti inquietante.

Alessandro, però, non aveva paura. Non più.

Non era paura quella che sentiva. Il senso di abbandono, di nausea, di impossibilità più totale.

Non era paura, quella. Era il terrore più puro.

- Non è stata colpa mia – fu la frase che gli sfuggì dalle labbra, prorompente.

E un singhiozzo lo scosse, il volto che si irrigidiva. Scosse la testa, smettendo per qualche breve istante di respirare. Cosa… cosa aveva appena detto? Si riscosse, allucinato. Non era vero. Non era vero. Non era per niente vero. Lo sapeva benissimo, che non era così. Aveva mentito. Lui. L’uomo sincero.

- Non è vero – soffiò alla fine, i pensieri che cozzavano gli uni contro gli altri.

Alessandro non mentiva. Non avrebbe certo cominciato adesso.

- E’ stata colpa mia – disse, il tono piatto, incolore – Lo ammetto. Non sono pentito -

“Perché sei qui, allora?” fu la domanda che spiazzò ogni altro pensiero.

La domanda che ebbe il potere di zittire per pochi secondi le grida, la domanda che aveva formulato lui stesso. La domanda da un milione, quella che continuava a farsi dal momento in cui aveva messo piede nella chiesa. Dall’istante in cui era entrato nel confessionale. Dall’attimo in cui aveva chiuso gli occhi.  

Poi le grida tornarono e assieme ad esse trovò il coraggio di rispondere.

- Non ancora – concluse il suo pensiero Alessandro – Non sono ancora pentito -

Voleva rimediare… forse.

Non ne era sicuro. Gli sembrava di non capire più niente. Non sapeva cosa era giusto e cosa no. Temeva di non essere più nemmeno in grado di distinguere ciò che era vero, reale, da ciò che non lo era.

Gli girava la testa, i sensi ovattati. Come se fosse sotto l’effetto calmante e intorpidente di medicinali.

Un sorriso gli incurvò le labbra. Non era un vero sorriso: somigliava più a un ghigno, ad una smorfia di dolore sordo. Alessandro s’inumidì le labbra, la sensazione di non avere più alcuna percezione.

- Inizio – balbettò, le lettere che sembravano inciampare sulla lingua – Inizio a raccontare -

Cercò di concentrarsi, di fare mente locale. Per decidere da dove fosse opportuno cominciare, cosa avesse scatenato tutto. Quale scintilla avesse dato fuoco alla miccia… come aveva fatto a finire all’inferno?

Solo più tardi avrebbe capito che la domanda era posta nel modo sbagliato.

Alessandro sospirò, tornando decisamente troppo indietro con i ricordi. Quando aprì gli occhi, non vedeva più il confessionale. Non era più avvolto nella penombra, non c’era la calura di agosto ad opprimerlo.

Ciò che i suoi occhi vedevano era un altro Alessandro. Più giovane di diversi anni, ragazzo.

Un Alessandro non ancora maggiorenne. Un Alessandro già fermo nelle sue decisioni.

Si rivide sorridente, i capelli tagliati di fresco. Un occhio nero, un labbro spaccato. E rideva, una lattina di coca cola stretta fra le mani. Rideva, fuori la parrocchia del paese. La bevanda che rischiava di andargli di traverso. Rideva, una scintilla di speranza ad illuminargli gli occhi neri. Quegli stessi occhi che prima di allora non erano mai riusciti a sorridere, taciti spettatori di cose che non andrebbero raccontate.

Era tornato troppo indietro, si disse Alessandro, mentre quell’immagine sbiadiva lentamente.

Se fosse partito dai suoi primi anni da seminarista, non sarebbero bastate ore a raccontare ogni cosa. Era inutile ripercorrere tutti gli anni di studi, i sacrifici cui si era sottoposto. Inutile rammentare ogni singolo libro sfogliato, ogni messa studiata, ascoltata, adorata. Era troppo, decisamente troppo indietro.

Alessandro sospirò, le immagini dei suoi anni di lavoro che gli annebbiavano la mente, scorrendo rapide, come il trailer di un film o un album di fotografie sfogliato con molta velocità. Le notti di viaggio, le ore di preghiera… voleva prendere i voti, voleva diventare prete. E niente lo avrebbe fermato.

Scorse in un lampo i suoi diciott’anni, poi i suoi vent’anni e subito dopo i venticinque. Era quasi arrivato alla meta. Altri due, tre anni e sarebbe tornato in prossimità del presente. Di quella che avrebbe dovuto essere la realtà. La sua attuale vita. Ventotto anni, a un passo dalla sua vittoria personale.

Mancava poco, pochissimo a che il suo desiderio si avverasse.

Un ultimo sforzo e, finalmente, avrebbe sentito un qualche senso di remota soddisfazione. L’impressione di star facendo ciò che doveva fare, di star percorrendo la giusta strada. Risentì quelle sensazioni, le emozioni che rischiavano di avere il sopravvento su di lui. Era sempre così: ogni qualvolta muoveva un passo in più verso l’obiettivo che si era prefissato… eccolo, il senso di approvazione.

Alessandro aveva l’impressione che provenisse dall’alto.

Allora, sollevava gli occhi verso il cielo e sorrideva. Gli piaceva pensare che lei lo stesse guardando. E immaginava, sperava, pregava che fosse fiera di lui. Che fosse orgogliosa, anche solo un pochino.

Perché lui lo faceva per lei. Solo per lei.

Alessandro rabbrividì, il momento in cui tutto era iniziato che si avvicinava ogni istante di più.

Eppure, silenzioso, senza che se ne accorgesse, un drappo era come calato su di lui. Invisibile, morbido, confortevole. Una coperta fittizia che riuscì incredibilmente a calmarlo e che gli impedì di impazzire.

Non era mai stato una persona impulsiva. Tutt’altro. Era apatico.

Passivo, indifferente, completamente impassibile. Non si lasciava prendere dalle emozioni, credeva anzi di non sapere nemmeno cosa realmente fossero. O almeno, era sempre stato così da quel giorno in poi.

Per sedici anni, sedici lunghi anni, Alessandro non aveva provato assolutamente niente.

Poi, era arrivata Aurora.

- A questo punto… - biascicò il giovane, la vista appannata – A questo punto bisogna rallentare -

Andare per gradi, lentamente. Era necessario spiegare ogni cosa con il dovuto tempo, con le dovute spiegazioni e precauzioni. Altrimenti, non sarebbe stato facile capire. Impossibile, in realtà.

Alessandro inclinò la testa di lato, i muscoli già intorpiditi.

- Bisogna andare per sensi -

I cinque sensi. Udito, olfatto, vista, gusto e tatto. I nostri cinque, unici, insostituibili sensi.

Era stato attraverso essi che Alessandro aveva conosciuto Aurora.

Era stato per i sensi che aveva rischiato di perdere il senno.

Per i sensi che era arrivato sull’orlo del baratro, in punta di piedi.

Con i sensi, che aveva assaggiato l’inferno.

I sensi, il suo inizio e la sua fine. I sensi, tutto.

- Il primo è stato l’udito - sussurrò, consapevole di non poter più tornare indietro.

 

- Devo confessarmi, padre -

Alessandro sussultò, il cuore che gli saltava in gola.

Era entrato nel confessionale solo per prendersi una pausa caffè.

Un libro troppo grosso poggiato in grembo, la camicia che gli andava larga, i capelli spettinati. Doveva dare un esame di lì ad una settimana e sentiva di starsi avvicinando alla fine del suo lungo percorso.

- Non… - balbettò, sentendo l’aria farsi tremendamente pesante - … non ho il permesso di… -

Non lo aveva. Non poteva ascoltare la confessione di nessuno. Non era suo diritto.

- Lo so -

La risposta lo colse di sorpresa.

Alessandro aggrottò le sopracciglia, girando d’istinto il viso verso il punto da cui proveniva la voce.

Era stato un impulso. Non era riuscito a frenarsi.

Tempo due secondi, però, che tornava a fissare il pavimento. Di scatto. Senza che avesse modo di vedere la persona seduta a così poca distanza da lui, senza che potesse incrociarne lo sguardo.

- Non fa niente – diceva la voce, femminile, dolce, amichevole.

Una voce fresca come l’acqua, travolgente e accattivante.

- Parliamo solo, allora – stava proponendo, maliziosa ed aggraziata.

- Non credo che… - cercò di intervenire Alessandro, chiudendo maldestramente il tomo fra le mani.

- Dove sarebbe il problema? – chiese la voce, sinceramente confusa.

- Non dovrei essere qui – sussurrò Alessandro, un tremore di premura che lo invadeva.

- Nemmeno io –

 

Era stato in quel modo che aveva conosciuto Aurora.

Chiuso in un confessionale in cui non avrebbe dovuto essere.

Non l’aveva guardata. L’aveva sentita, solo quello. Con l’udito. Per ore, tante, tante ore.

Pochi centimetri a dividerli, un misero strato di legno a separarli. Niente di più e niente di meno.

Vicinissimi e al tempo stesso così lontani.

Avevano parlato. Di tutto e di niente.

Passando semplicemente il tempo, chiacchierando. Conoscendosi, per quanto potesse sembrare strano. Assurdo. Inverosimile, certo. Ma bello, terribilmente bello.

Alessandro si era prima rilassato, dimentico del suo libro, dell’esame, dei suoi doveri.

Non aveva più preoccupazioni, viveva il momento. Lì, in quell’angusto confessionale. Con una voce sconosciuta e bellissima. Carezzevole, lenitiva. Nuova eppure già insostituibile.

Calmo, disteso, si era messo comodo. La tensione che lo abbandonava.

Aveva cominciato a divertirsi, a lasciarsi prendere e trasportare lontano dalle parole della ragazza.

Si era lasciato rapire, privo di alcuna forza e difesa.

Discorsi frivoli, alle volte senza senso. Eppure non importava, non contava di cosa parlassero bensì che lo facessero. Che comunicassero. Che rompessero il silenzio, annientandolo e vincendolo.

Alessandro uscì come rinato da quel confessionale. Minuti interi dopo che ne era uscita lei.

Si sentiva diverso, ma non capiva perché.

Ci avrebbe messo del tempo, come al solito, ad unire i pezzi del puzzle.

- Il secondo – bisbigliò – è stato l’olfatto -

 

- Fragole -

Alessandro chiuse gli occhi, prendendo un lungo respiro.

Era di nuovo nel confessionale, senza il libro questa volta. Seduto, il capo reclinato all’indietro.

E non era solo. C’era Aurora con lui, la stessa ragazza della volta precedente. 

La ragazza che ancora non aveva visto, ma che continuava a sentire. La voce, la risata… e ora anche il profumo. Quell’odore particolare che apparteneva solamente a lei. La fragranza di Aurora.

Così l’aveva chiamata. La fragranza di Aurora.

L’aveva cercata ovunque, ma non era riuscito a trovarla da nessun altra parte.

Solo in quel confessionale la sentiva. Solo quando c’era lei.

- Fragole – ripeté, il solito senso di calma che lo invadeva poco a poco – E cioccolato -

Cercava di spiegarle cosa sentiva, tentava di convincerne se stesso.

- Ma non solo questo – continuò, scuotendo appena la testa – Sento il mare, quando ci sei tu. Un aroma soffuso di Natale, anche… e di tramonto -

Alessandro gemette, capacitandosi di star dicendo cose senza senso.

- Scusa – mormorò, a disagio – Non so cosa mi è preso -

- Tramonto? – chiese la voce, sorpresa e divertita.

- Sì –

- Sono… - risatina nervosa – Sono contenta di ricordarti tutte queste cose, Alessandro –

- Sembra assurdo, vero? –

- Gli odori… - cominciò la voce, pensierosa - … gli odori sono in grado di risvegliare i ricordi, in quanto profondamente e strettamente legati ad essi. Nell’inconscio –

Alessandro sorrise, di un sorriso quasi vero questa volta.

Solo uno dei primi.

- Non ti offendi, quindi, se ti associo ad una fragola ricoperta di cioccolato, sulla spiaggia davanti ad un tramonto, il giorno di Natale? -

- No – rise dolcemente la voce – No, se con me ci sei anche tu su quella spiaggia –

 

Alessandro non riuscì mai a dimenticare quel profumo.

Né i ricordi che scatenava prorompenti in lui. Gli sembrava di sentirlo ovunque e da nessuna parte.

Lo cercava, bramava di sentirlo, di potersene beare… perché, senza volere, senza nemmeno riuscire a realizzarlo, ne era diventato dipendente. Pochi incontri, sempre al chiuso, sempre in quel confessionale.

Loro. Due voci e due profumi. Solo quello, niente di più. Due sensi.

Poi, venne il momento del terzo: la vista.

 

- Alessandro? -

- Sì? – rispose lui, le mani nelle tasche dei jeans, gli occhi chiusi. Come al solito.

- E se uscissimo? –

Alessandro non reagì, il tempo che quelle parole lo colpissero. Il tempo di focalizzarle, di realizzarle.

E trasalì, spalancando improvvisamente gli occhi, preso in contropiede.

- Come? – balbettò, forzandosi ancora una volta per non voltarsi, per non guardarla.

Si sentiva come Orfeo, quando gli era proibito di girarsi verso Euridice.

- Un caffè, un gelato, una pizza – proponeva la voce, angelicamente – Quello che preferisci -

Alessandro si sentiva annichilito, gettato in uno stato di confusione in cui solamente Aurora era capace di scaraventarlo. Aurora. La sua Euridice.

- Non possiamo – mormorò in risposta, socchiudendo gli occhi. La gola che gli si chiudeva, una goccia di sudore freddo a bagnargli la tempia. Cosa gli stava succedendo?

Aurora sbuffò, divertita e seccata assieme.

- Sempre negativo, tu – lo riprese, amichevolmente – Sempre non si può, non si deve -

Alessandro respirava a fatica, una lotta che gli dilaniava il petto e la testa.

Una battaglia fra il cuore e la mente.

La sua guerra personale.

- Mai un mi va, mi piacerebbe, lo voglio – continuò Aurora – Sei sicuro di star vivendo, Alessandro? -

- No – sussurrò lui, alzandosi in piedi incerto. Poggiò una mano contro il legno, cercando di trovare la forza, il coraggio, qualunque cosa gli servisse per andare avanti. Per vincere. Per vivere.

Avrebbe capito in seguito che quel qualcosa era Aurora.

- Vieni? -

Alessandro sgranò gli occhi, fissando la piccola mano pallida appena apparsa nel suo campo visivo.

Vedeva solo quella, solamente la mano. Aperta, il palmo rivolto verso l’alto.

Un invito, una proposta. L’aiuto che necessitava e non chiedeva.

- Sì – rispose, un tempo indeterminato dopo.

Istanti, secondi, minuti o forse ore. Un tempo in cui la mano non si era spostata di un millimetro.

Alessandro la strinse, avvolgendola interamente. Coprendola con la sua.

Sentendola minuscola, fragile, sicura nella propria. Ed ebbe l’impressione che il suo posto fosse proprio lì, stretta nella sua. Come se fosse sempre stata lì, come se fossero modellate per essere unite.

Uscì dal confessionale, guidato e sorretto dalla mano di Aurora. La stessa che non avrebbe più voluto lasciar andare. Uscì, un passo dopo l’altro, socchiudendo gli occhi per il cambiamento di luce.

- Per cosa hai deciso? – gli chiese la voce, solare, carezzevole come mai.

Alessandro sorrise, gli occhi incatenati in quelli chiarissimi di Aurora. Azzurri, di un celeste così tenue da tendere assurdamente al bianco. Pieni di luce, brillanti di natura. Come il sorriso di lei.

Alessandro sorrise, scorrendo la figura di quella esile ragazza, piccola e aggraziata. Sottile, appariva fin troppo fragile, eppure la cosa gli piaceva da impazzire. Come il modo in cui si muoveva, agile e leggera.

Sorrise, provando l’impulso irrefrenabile di attorcigliarsi attorno al dito uno dei boccoli biondi di lei.

Sorrise, pensando che sembrasse troppo bello per essere vero. Temendo che fosse tutto un sogno.

- Una passeggiata in riva al mare? – propose alla fine, stentando a credere di essere stato proprio lui a parlare – E’ quasi sera, potremmo fermarci a guardare il tramonto -

Sorrise, rispondendo all’espressione raggiante di lei. Un angelo, aveva conosciuto un angelo.

 

Alessandro non dimenticò mai l’effetto che gli fece vederla per la prima volta.

Bionda, fragile. Perfetta.

Un angelo, era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Non poteva essere altrimenti.

Ricordava il modo morboso in cui stringeva la mano di Aurora nella sua, terrorizzato all’idea che lei potesse scappare, sparire, volare via. Non sapeva come avrebbe potuto andare avanti, poi.

Ma lei non gli sfuggì, non ci provò nemmeno. Non si allontanò neanche per un secondo, il pollice sottile che disegnava piccole linee sul palmo grande di lui. Armonioso, capace di sconvolgergli i sensi.

E rammentò il pensiero che lo aveva colpito, assalendolo per primo e abbandonandolo per ultimo: l’idea che lei fosse un angelo. Immagine così appropriata ad Aurora. Combaciava alla perfezione. Come il sorriso che gli aveva increspato le labbra, mentre passavano davanti alla vetrina di un negozio… specchio che rifletteva le loro figure assieme, così diverse da sembrare scherzose. Un angelo e un demone.

Gli opposti, dentro e fuori.

Alessandro era sempre stato scuro. Tormentato nell’anima, contorto nell’aspetto.

Vestiva di nero, quasi volesse abbinare gli abiti alla propria figura. Jeans neri, camicia nera, capelli neri e occhi neri. Tutto pece, un’unica, distorta macchia nera. Non avrebbe mai smesso di chiedersi il motivo per cui, quella preziosa gemma di luce avesse scelto di passare il tempo proprio con lui.

Il quarto senso era stato il gusto.

 

Non sapeva come fosse accaduto. 

Come avesse fatto ad arrivare a quel punto, ad abbassare tutte le sue difese, a cedere.

Definitivamente, nella mente e nel corpo. Non riusciva a capacitarsene, tanto gli sembrava impossibile.

Non stava vivendo la sua vita, quello non era Alessandro.

Non era la stessa persona che era stato per sedici anni. Non l’Alessandro che voleva diventare prete, non l’Alessandro che voleva prendere i voti, non l’Alessandro che, semplicemente, non viveva.

O forse, era il vero lui quello seduto in riva al mare?

Forse, era davvero lui, Alessandro, su quella spiaggia con Aurora.

Alessandro, che la stringeva fra le braccia.

Alessandro, che la baciava.

Il suo primo bacio. Non ci aveva neanche fatto caso, in quel momento. Non riusciva a pensare a niente, troppo assorto ed impegnato nel vivere quel sogno fino all’ultimo. Nel saggiarne ogni più piccola goccia.

Giocava con le labbra di lei, carezzandole, mordicchiandole dolcemente, scherzosamente.

Sentendole sue, provando la certezza di non volerle lasciare più. La certezza che fossero sue, da sempre.

La baciava, chiedendosi perché avesse aspettato tanto.

Un bacio, infinito e indescrivibile, che sapeva di fragole, di cioccolato, di mare, tramonto e Natale.

Un bacio che sapeva di lei, di Aurora.

Un qualcosa che era tutto.

 

Il primo bacio di Alessandro, era sicuro non avrebbe potuto essere migliore.

Né più vero, vivo, unico e perfetto. Come lo era lei, come si sentiva quando era assieme a lei.

Un boccolo dorato che gli sfiorava la guancia, un’esile manina che gli stringeva la camicia, due labbra che non lasciavano le sue… Aurora, Aurora che lo aveva portato a conoscere e vivere anche il quinto senso.

Il tatto.

 

E quel senso, quella notte, li coinvolse tutti.

Non c’erano più confini, non c’erano limiti né doveri.

Il non si può e il non si deve erano scomparsi, lasciando un aroma di lei al loro passaggio.

E Alessandro aveva scoperto il tatto, fondendolo ed amalgamandolo con tutti gli altri sensi. Viveva.

Per la prima volta, viveva.

Sentiva la pelle liscia e vellutata di Aurora sotto le dita, la carezzava, disegnando linee immaginarie e visibili solo ai suoi occhi innamorati e luminosi. Scendeva piano, per poi risalire, in un nuovo gioco appena scoperto.

Prima la guancia, la linea del naso, il contorno della bocca. Con calma, senza alcuna fretta.

Poi il collo, la spalla e giù fino alla vita. Saggiando con le mani, vivendo la sorpresa, la scoperta, la felicità.

Sorrideva, le labbra che non lasciavano mai Aurora. Percorrendo la strada già intrapresa dalle sue mani.

Dita inesperte, tremanti e spaurite che aiutate da lei, dai suoi baci e dalle sue parole, imparavano in fretta.

E al tatto, a quella nuova scoperta, presto si aggiunsero e mischiarono tutte le altre.

Alle carezze si unirono i baci, i respiri confusi e accavallati, i sorrisi e gli occhi che non si staccavano mai. Sussurri sconnessi, alle volte senza senso. Giochi con la sabbia, sdraiati in riva al mare. Il mare che scherzava con loro, con i loro piedi che si incatenavano, minacciando ogni volta di bagnarli. Del  resto, che importava?

Fruscii di vestiti che scivolavano via, forme e contorni che assumevano nuove sembianze, scomposti dai riverberi della giornata che finiva. Baciati e accarezzati anche dagli ultimi raggi di un sole che scompariva, inghiottito dal mare. Un cerchio infuocato, bollente come loro, come le emozioni e la passione che nasceva.

Bruciandoli dentro. In un tripudio di sensi.

 

Alessandro ricorderà ogni particolare di quella notte.

Ogni singolo respiro, ogni gemito, ogni sorriso.

Le onde del mare, il profumo di sale, i giochi di ombre, il sapore di lei e il contatto con la sabbia.

Impossibile da dimenticare, immagini impresse a fuoco nella sua mente sconvolta.

Ricordi di un tempo che sembrava lontano, bloccato in un luogo irraggiungibile. E Alessandro non sapeva come tornarci, non sapeva se voleva tornarci. Perché la storia non si fermava a quella notte, ma proseguiva.

Con la mattina successiva, con le loro risate e le loro parole. Fino a quel punto in particolare, fino al momento in cui avrebbe cominciato ad unire i pezzi del puzzle. Il momento in cui si sarebbe finalmente accorto della presenza di un puzzle, prima del tutto al di fuori della sua mente e poi, d’improvviso, al centro dei suoi pensieri.

 

- Come fai a stare con me? -

Aveva chiesto Alessandro, stringendo Aurora fra le braccia, il volto affondato nella spalla di lei.

- Cosa credi? – rise lei, carezzandogli una guancia – Non ti ho scelto a caso -

E aveva riso anche Alessandro, non capendo, non immaginando di starsi avvicinando al punto cruciale.

- Ti ho sempre tenuto d’occhio – continuò Aurora, rallentando il ritmo delle carezza, indugiando quasi con la mano vicino all’angolo della bocca di lui – Davvero non te ne sei mai accorto? –

La risata si spense piano, incredula, nella gola di Alessandro.

- Tenuto d’occhio in che senso? – domandò, respirando il profumo di lei.

- Nel senso che non riuscivo a lasciarti solo – sussurrò Aurora, portando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio e poggiandosi di più contro il petto di Alessandro – Da quel giorno… - bisbigliò, sentendolo subito irrigidirsi e chiudere gli occhi - …dal 5 dicembre –

E Alessandro si allontanò da lei, incapace di canalizzare il terrore che lo stava invadendo.

- Cosa… che stai dicendo? – balbettò, strusciando via da lei, incapace di leggere il dispiacere che animava gli occhi di Aurora, lo sconforto che l’animava, la tristezza che le spezzava il respiro.

- Non è possibile – mormorava, incapace di dire altro.

I sensi che gli si offuscavano, vinti dalla paura e dal dolore più puro.

 

Alessandro aveva vissuto sedici anni di apatia.

Dai dodici ai ventotto anni. Per sedici anni non aveva vissuto, era vero.

E solo lui conosceva il perché. Solo lui sapeva come aveva passato i precedenti dodici anni. Solo lui sapeva perché aveva abbandonato ogni emozioni, allontanando i sentimenti, non permettendosi di conoscere i sensi.

Disconoscendo il piacere, la felicità, la vita. Decidendo di prendere i voti ed aggrappandosi solo a quello.

Solo lui sapeva che terribile lotta interiore avesse affrontato, decidendo di dare una possibilità ad Aurora, una possibilità a se stesso. A loro.

Erano cose che sapeva solamente Alessandro.

O almeno così credeva…

Capì di essersi sbagliato quando Aurora pronunciò quella data, nel suo orecchio, in un sussurro.

Una data impressa come un marchio nel cuore di Alessandro.

Una data che era il cuore di tutto. Della sua vita. La spiegazione di ogni cosa.

E Alessandro soffrì ancora una volta, ricordando di nuovo, come quella mattina in spiaggia.

Ricordando la sua casa, i suoi genitori, il pesciolino rosso.

Ricordando le liti, le urla, le botte.

L’alito cattivo del padre che sapeva di alcol, la sua mano che, implacabile, colpiva la madre. E di seguito, rapide e impossibili da bloccare, le lacrime della donna, la paura nei suoi occhi. Il suo sentirsi inutile, il terrore che lo attanagliava, pietrificandolo. E le urla, le urla, le urla… quelle che continuava a sentire, sempre.

 

E fu pensando a quelle urla che Alessandro cominciò a capire.

Spalancò gli occhi, realizzando finalmente il motivo per cui con lei si sentiva talmente in pace.

Rendendosi conto di colpo che assieme a lei non c’erano più urla.

Assaporando per la prima volta il silenzio, incredulo.

Non c’erano urla, nella sua testa.

- Alessandro – lo chiamò Aurora, mentre lui si prendeva il viso fra le mani.

- Il 5 dicembre – ripeté lui, citandola.

E Aurora non disse più niente, limitandosi a chiudere gli occhi, una lacrima che le solcava la guancia.

Sapeva che Alessandro stava ricordando, cedendo a quel fiume di immagini che purtroppo non lo avrebbero mai abbandonato. Sapeva che con quella semplice e terribile data lo aveva costretto a tornare indietro di sedici anni. A quando ne  aveva appena dodici, di anni. Al giorno in cui, tornando a casa, avrebbe trovato il padre ubriaco, addormentato in poltrona. Al giorno in cui, basito, avrebbe visto una pistola stretta nella sua mano.

La pistola che aveva usato, neanche un’ora prima. La pistola che aveva puntato contro sua madre, premendo il grilletto. La stessa pistola che un Alessandro tremante, scosso dai singhiozzi e quasi incapace di allontanarsi dal corpo ancora caldo di lei, avrebbe preso in mano. Quella pistola che avrebbe puntato contro l’uomo che non aveva mai visto come un padre, contro quel mostro, contro… la pistola che non avrebbe più fatto fuoco, solo portata via da un ragazzino in lacrime e sporco di sangue. Bambino che si sarebbe nascosto in una chiesa.

- So dov’è – mormorò a quel punto Aurora, incapace di restare in silenzio come le lacrime che bagnavano il volto di Alessandro – Posso portarti da lui -

Alessandro non rispose, fissandola con sguardo vacuo. Qualcosa ancora non tornava.

- Chi sei? – domandò, guardandola come se la vedesse per la prima volta – Cosa sei? -

- Lo sai, Alessandro – sussurrò lei, accennando un tenue sorriso – Lo hai saputo fin dal primo momento –

E il ragazzo annuì, passandosi la mani sulle guance, ripensando alla loro immagine nella vetrina.

Un angelo e un demone.

Ci era andato vicinissimo, davvero. Da subito.

Lo aveva detto che era bellissima, dolcissima, perfetta. Come solo un angelo può essere.

Come solo un angelo è…

Aveva incontrato un angelo.

Un angelo che lo stava portando all’inferno.

 

E Alessandro non era scappato quella volta.

Sentendo che grazie ad Aurora iniziava a sentire e vivere un nuovo sentimento.

Qualcosa che avrebbe dovuto provare e che non aveva mai sentito suo: il desiderio di vendetta.

Profondo, bruciante, dilaniante.

Il desiderio di avere vendetta, di combattere una buona volta per risanare tutte le ferite che gli erano state inferte e che non si erano né si sarebbero mai rimarginate. Graffi, schiaffi, offese che ancora scottavano in lui.

Dolore, un’angoscia estrema, capace di essere arginata solo con l’oblio totale dei sensi.

Le urla della madre, incancellabili.

E Alessandro aveva detto di sì.

 

Tremava, guardando quella figura che usciva dal bar.

Tremava, incappucciato, incurante della pioggia che cadeva. La sentiva ma non sembrava toccarlo.

Serrò le dita, avvolgendo quel piccolo oggetto nero nella mano destra.

Lo conosceva quell’oggetto, quel dannato, dannatissimo oggetto.

Una pistola, uguale a quella usata dall’uomo che stava attraversando la strada in quel momento.

L’uomo che aveva osato definirsi suo padre. L’uomo ubriaco che era stato lasciato libero di uscire di prigione, l’uomo che si avvicinava sempre più ad Alessandro. L’uomo che, soltanto, aveva ucciso sua madre.

Alessandro cercò di sollevare la pistola, vedendolo avvicinarsi.

Tentò di tenere ferma la mano, di prendere la mira. Ci provò, vedendoselo passare davanti.

- Non ci riesco – sussurrò alla fine, lasciando ricadere il braccio.

- Non ci riesco – ripeté, la pistola che scivolava via dalla sua mano, le gambe che cedevano – Non ci riesco, non ci riesco, non ci riesco… - continuò a ripetere, in ginocchio, su un asfalto reso ancora più scuro dalla pioggia. Ed era pronto a sentirsi di nuovo solo, come quel giorno. Le lacrime che scendevano copiose.

Non fu così, però.

Sentì due braccia stringerlo, avvolgerlo completamente.

Due labbra che si posavano sulla sua guancia, tremanti. E scoprì di riconoscerle. Di averle attese.

Di averle sperate.

 

Alessandro chiuse gli occhi, una lacrima che inevitabilmente, percorreva una strada fatta già troppe volte.

Serrò le labbra, stringendo con dita tremanti la grata in ferro alla sua destra.

- Non ho sparato – biascicò, la voce roca – Non ci sono riuscito, non sono stato capace di uccidere quel mostro -

Alessandro sapeva il perché.

Non era uno, erano tanti.

Perché non voleva diventare anche lui un mostro, perché lui non era così. Lui non uccideva.

Era perché le urla di sua madre si erano finalmente placate, lasciandolo libero di respirare e sorridere.

Perché aveva tradito anni di studi per Aurora.

Perché non sarebbe stato in grado di perdonarsi se lo avesse fatto anche spargendo il sangue di qualcuno.

Alessandro rivide il viso della madre, la speranza di compiacerla che rinasceva in lui.

La chiesa, stava pensando. Voleva diventare prete per lei, per farla essere fiera di lui, anche solo un pochino.

Alessandro guardò oltre la grata che ancora stringeva.

Guardò e vide il vuoto.

Sorrise, un sorriso amaro e consapevole.

Gli era sempre piaciuto parlare da solo, lo faceva sentire pazzo e vivo al tempo stesso.

Con passi tremanti uscì dal confessionale, dal solito confessionale. Il suo, il loro.

Camminò, una mano sempre poggiata al muro per sorreggersi.

E scese gli scalini, lasciandosi quella chiesa alle spalle. Con tutti i sogni di sedici vuoti e apatici anni.

Gettandosi alle spalle anni di studi, ore trascorse sui libri, giornate di preghiera.

Dimenticando in pochi secondi ogni momento passato fra quelle mura.

Passeggiò sul selciato, sfiorando con le dita l’erba alta e sorridendo.

Non aveva ancora capito perché stesse sorridendo, ma non gli interessava più di tanto.

Percorse metri, chilometri, forse. Senza farci caso. Superò la periferia, inoltrandosi in aperta campagna.

Si avvicinò al piccolo ponte in marmo e vi si appoggiò, il mento sulle mani intrecciate, gli occhi scuri che involontariamente si perdevano nell’immenso dirupo che aveva sotto di sé. Di solito c’era un fiume, a scorrere lì. Ma d’estate quel fiume moriva, lasciando il niente dietro di sé. Alessandro contemplò quella desolazione, riconoscendovi ciò che prima, tanto a lungo, aveva occupato il suo cuore.

Pensò a sua madre, convincendosi che fosse orgogliosa di lui. Che lo avesse sempre seguito, osservato da lassù. In ogni suo passo, in tutte le sue scelte. Approvandone i desideri e le decisioni. Si sentiva in pace con il lassù.

E si accorse, con sorpresa, di sentirsi in pace anche con il quaggiù.

Grazie ad Aurora, al suo angelo personale.

A lei, che lo aveva portato a piedi nudi sulla spiaggia. E che a piedi nudi lo aveva spinto sull’orlo del baratro.

Si accorse di non poter fare a meno di lei, del suo sorriso.

Di voler abbandonare per sempre il non si può e il non si deve.

Di voler avere con sé la fragola, il cioccolato, il mare, il tramonto e il Natale. Per sempre.

Di voler volare con lei, assieme al suo angelo.

Alessandro vedeva quel volo come un rifiuto dei limiti, delle costrizioni. Lo vedeva come una promessa di libertà e amore, un’affermazione di potere, di coraggio. Lo associava semplicemente a lei, ad Aurora.

E capì di essere pronto, di volerlo intraprendere quel volo.

Sorrise, poggiando i palmi aperti sul bordo del ponte. Fece leva sulle braccia, issandosi su e fermandosi così, in piedi, sopra quel ponte. Si tolse le scarpe, assurdamente. Rimanendo a piedi nudi.

Sorrise, chiudendo gli occhi e alzandosi ancora, sulle punte dei piedi, come gli aveva insegnato lei.

Voleva volare. Ora che si sentiva bene, desiderava solo unire quei due mondi: il lassù e il quaggiù. Poteva.

Bastava lasciarsi andare. Accettare di fare quel volo.

Alessandro allargò le braccia, perdendo il contatto con il ponte sotto i suoi piedi.

Rise, intraprendendo il volo. Iniziando a volare, come un angelo. Volando, verso il niente. E verso il tutto.

Sentì una risata unirsi alla sua e capì. Capì di star volando, di essere in volo con l’angelo.

E non solo.

Rise, sapendo di essere finalmente in volo con il suo angelo. 

 

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