One shot – Il tuo nome
Una prima all’opera, la serata di gala attesa da Mary ormai da
settimane, per celebrare il proprio fidanzamento ufficiale in famiglia.
I genitori avevano chiesto molte informazioni su quell’affascinante
giovanotto, offeso da un leggero zoppicare, causato da una ferita di
guerra, dove si distinse per valore etico e coraggio incondizionato.
Svolgeva l’attivitá di medico, con metodo e precisione, un compagno quasi perfetto.
Quasi, appunto.
Le cronache riportavano spesso il suo nome, affiancandolo a quello del
piú famoso investigatore inglese, quel tale Sherlock Holmes, che
risolveva casi intricati, assistito e coadiuvato nelle indagini dal suo
amico fedele, con cui condivideva anche l’abitazione, almeno finché il
dottor John Watson non si trasferí nella nuova abitazione scelta con la
futura moglie.
Per Holmes fu quasi un trauma.
Un ultimo caso, un singolare addio, per iscritto, dopo giorni avventurosi ed irripetibili.
§ John, mio carissimo John, cosí caro al mio cuore, che non reggerebbe
a vedervi andare via. La vostra dolce metá mi ha ringraziato per
l’anello di fidanzamento, ma non merito tanta cortesia. Io ho solo
celebrato con un gesto plateale qualcosa che mi sta… Io sono felice per
voi, Watson, ogni bene a chi ha avuto la pazienza di sopportarmi, altro
verbo non trovo, conosco i miei limiti… e ció che puó essere immenso
nella vita di un uomo. E prima di cadere nel patetico, l’abbraccio, a
distanza certo, perdonatemi John. Perdonatemi. Vostro S.H. §
Watson avrebbe voluto chiedergli di quel perdono, ma ormai era tempo di
cambiare vita, di avere orari, regole, buone maniere, anche se c’era un
vero gentiluomo quello era lui.
Lui che adesso stava fissando il profilo di Mary, rapita dalla musica e
graziosamente presente e cauta, nel non volere invadere quello spazio
nei ricordi di John, che evitava di parlare di Holmes, come se fosse un
argomento proibito, perché forse arrossiva nel fare paragoni o nel
riciclare qualche battuta del repertorio di Sherlock.
Fosse stato tutto cosí semplice.
Ero l’uomo oscuro.
Il nemico piú pericoloso e violento che Holmes potesse incontrare, reso
ancora piú minaccioso dal non potere contare piú su Watson.
Qualcuno diceva che uno era il cervello e l’altro il braccio, nulla di piú falso.
La loro era una simbiosi di conoscenze, astuzia, sfrontatezza e senso del rischio.
Un incastro perfetto, un muro contro il quale molti delinquenti erano stati bloccati e condannati.
Probabilmente quella fu la falla, attraverso la quale il professor
Moriarty allungó i tentacoli, che trascinarono sul fondo del Tamigi il
corpo di Sherlock Holmes.
Riemerse come un fantoccio e, senza sapere come, si ritrovó in un letto
d’ospedale, soccorso dagli agenti, ai quali lo stratega del male
sfuggí, beffando non solo Holmes, ma tutta Scotland Yard, ancora una
volta.
Adesso era lí, immobile ed intirizzito.
Le cure dei sanitari furono efficaci, ma lui, ad ogni passo, sperava di
intravedere varcare la soglia di quella camera sterile da una sola
persona.
John Watson, purtroppo, era ignaro sugli ultimi eventi, seduto rigido
su quell’ovalina damascata, sorridendo qua e lá alle occhiate della
futura suocera e condividendo le gomitate del consorte di lei, annoiato
a morte per quella solfa, che non sembrava finire mai.
Un leggero vocio nei palchi adiacenti al suo, distrasse Watson, che tra
i bisbigli colse l’unico dettaglio, che potesse farlo sobbalzare.
Il nome di Holmes.
Si sporse, cercando i due interlocutori, che avevano un tono allarmato in quello scambio di opinioni.
Erano il sovrintendente Gloster ed il capo della polizia Morrison.
Li salutó, incontrando i loro sguardi preoccupati.
Morrison gli fece un cenno e lui, scusandosi, li raggiunse nel corridoio retrostante.
“Dottor Watson che incredibile combinazione incontrarla qui…”
“Cosa è successo ad Holmes?” – domandó in preda ad un’ansia incontrollata.
Morrison aggrottó la fronte.
Quei maledetti temporali londinesi.
Cosí improvvisi. Inopportuni.
La carrozza che lo portó al Saint James era troppo lenta, John avrebbe
voluto volare da Sherlock, anche se i suoi pensieri erano giá lí con
lui.
Mary aveva annuito alla sua richiesta – “Cara io non posso non vederlo
e sapere come sta…” – sembró scusarsi, ma di cosa? Continuava a
ripeterselo, forse per le palpebre di lei che scattavano nervose ad
ogni sillaba.
Finalmente scese in quel piazzale lastricato di ciottoli, che
sembravano luccicare alla luce dei lampioni, scivolosi e pieni di
insidie, come quella lunga notte.
Salí la grande scalinata, fino al secondo piano.
La stanza di Holmes era piantonata.
Lui rimase a bocca aperta, quando si accorse che quel letto era vuoto.
Urló un’imprecazione, rivolgendosi a quei due idioti, come
li apostrofó: “Come è possibile che lui se ne sia
andato!!??”
La veritá, peraltro, poteva essere anche peggio: Moriarty aveva forse rapito Holmes?
A quale scopo?
Mille domande, nessuna risposta.
Watson riscese in strada, avvilito e stanco, ma pronto a cercarlo ovunque.
Le dita tremanti riuscirono a malapena ad accendere le candele,
raggruppate in un groviglio informe sul comodino di quella stanza semi
vuota.
Soltanto un letto, un armadio senza abiti, se non pochi stracci.
Un tavolino di legno grezzo, come il parquet.
Era insolitamente pulito quel posto tetro, il cui unico punto di sfogo,
oltre alla porta colorata di un verde pallido, era una finestrella
rotonda.
Animó anche il fuoco nel caminetto, che lo ristoró in pochi minuti,
come un ottimo tè, quello non mancava mai, oltre a dei biscotti,
dimenticati in una vecchissima scatola di latta.
John rideva, mentre ci tamburellava sopra, dieci anni prima, quando gliela regaló.
§ Dio… ma è passato tutto questo tempo…?
§ - pensó ad alta voce, rabbrividendo a quel picchiettio
della pioggia incessante.
Un enigma complesso, per il quale non riuscivano a venire a capo, se non dopo avere mangiato quei dolci semplici, ma saporiti.
Li vendeva una signora belga, all’angolo della via sottostante, dove
Watson non mancava mai di acquistarli, visto che Holmes non si
ricordava neppure il proprio nome, quando era impegnato da un lavoro di
investigazione.
“Sherlock… cosa diamine ci fate qui…?!”
Lui era rannicchiato davanti a quelle fiamme vivide.
“Se sei un fantasma o un’allucinazione, puoi anche
andartene… non mi gireró neppure per scoprirlo…
John è andato via…”
“Holmes, cosa diavolo andate farneticando?!”
Lo prese per le spalle, scrollandolo – “Perché avete lasciato
l’ospedale?! Per poi venire qui…” – disse esterrefatto, fissando quella
resina scura, che inondava le iridi di Holmes.
“Siete qui…siete davvero voi, John…?”
“Certo… certo che sono qui e sono io… Sherlock
dobbiamo tornare a…” – “Come avete fatto a
trovarmi?”
“Semplice deduzione… venivamo qui quando non riuscivamo ad uscire dal vicolo cieco dei nostri dubbi…”
“Avete ragione John… ma erano semplici misteri…”
“Cosa intendete?”
Lui non rispose, faticando a respirare – “Holmes…?”
“L’impatto con le acque del fiume… sono caduto da una discreta altezza…
poi qualcuno mi ha preso per i polsi, salvandomi… a dire il vero non
poteva essere una persona concreta… forse un angelo…” – sorrise mesto.
“Dove vi fa male?”
“Non sento… non sento alcun male, ora che siete qui… stupido, vero John?”
“Cosa dovrebbe essere tanto stupido?” –
mormoró, mentre due lacrime rigavano le sue guance accese dal
calore eccessivo.
Holmes liberó le proprie braccia da quel caldo involucro di lana,
facendo sbucare le mani frementi, che strinsero il volto del dottore,
catturandolo in un bacio lungo e profondo.
Duró un tempo indefinito.
“…Questo…” – sussurró, appoggiando sfinito la fronte a quella di Watson
– “… questo assurdo amore che sento per voi John… che Dio mi perdoni…”
Watson ansimó, mettendosi in ginocchio e raccogliendolo sul proprio petto.
Si baciarono nuovamente.
“Era per questo che dovevo perdonarvi Sherlock…?”
Il pianto che traboccó dai suoi diamanti, fu liberatorio, ma mai quanto ció che accadde in seguito.
I loro corpi erano sinuosamente allacciati e madidi di sudore.
Amarsi e possedersi fu spontaneo e dolce, intenso e febbrile.
Quel materasso vetusto, avvolto da lenzuola azzurrine, sarebbe rimasto
nei loro ricordi come il giaciglio migliore dove avrebbero consumato i
loro desideri negli anni a venire; quello, peró, restava un sogno
proibito in quell’ora di mezzo, nell’oscuritá rassicurante, mentre
Watson penetrava quel sembiante carico di fascino, un fascio di muscoli
e nervi, inondati da ossigeno e sangue, pulsante per ogni singola
goccia, che tornava a vivere, sotto alle spinte del suo sesso virile e
mai pago.
Holmes, come un bambino portato in salvo all’ultimo momento da un
provvidenziale e generoso soldato, si aggrappava al collo dell’amico,
dell’amore di tutta un’esistenza, che non aveva piú alcun senso da
quando aveva scelto di convivere con Mary.
Holmes l’aveva detestava, non ne aveva vergogna nell’ammetterlo, parlando con il suo cane.
Il loro cane, suo e di John, condividevano tutto, era semplice e bellissimo, quel loro strano e tacito matrimonio.
Tanto geniale Holmes, da precorrere tempi, che non avrebbe mai
conosciuto? Se lo ripeteva spesso, del resto le analogie erano
molteplici, con quei rapporti di coppia fatti di battibecchi, ma anche
di quella carezza amorevole, che John non gli aveva mai negato, anche
con i suoi silenzi.
Un orgasmo devastante li portó in una dimensione nuova, che non poteva non spaventarli.
Tremanti si strinsero cosí tanto, che neppure l’aria
poteva dividere la loro pelle, che aderiva perfetta ed unisona.
Holmes cercó di nuovo le labbra di Watson.
Quando i loro respiri ritrovarono un minimo di tregua, Holmes chinó il
capo verso la spalla del dottore, che arrideva al suo stupore – “Ti amo
John… anche se non tornerai piú da me, dopo stanotte…”
Watson si rannicchió sul suo cuore.
“È il tuo nome, che voglio pronunciare ogni mattina al nostro risveglio
Sherlock…è la sola certezza che ho in questo momento e non voglio
cambiarla… per nulla al mondo.”
Holmes sospiró, nessuno era mai riuscito a zittirlo.
Procurandogli, poi, cosí tanta gioia.
THE END