IN
MORTE DI A. E A.
Le nove di sera. Un qualunque sabato sera novembrino, freddo e piovigginoso, la nebbia aleggiava nell’aria e si distendeva come umide ali di un grigio uccello in ogni anfratto, invadendo ogni strada, arrampicandosi fra le colline. Guidavo con prudenza nonostante fossi sul rettilineo ed ero in ritardo.
Era, invece, l’una di
un insolitamente tiepido pomeriggio di febbraio e la sciarpa di lana
faceva
sudare il collo, il giubbotto imbottito toglieva il fiato. In macchina
si
rideva e si scherzava, senza far troppo caso a cosa succedeva alla
nostra
sinistra, mia madre che, ridendo, mi raccontava dell’ultima
avventura della sua
amica che sta scoprendo la tecnologia.
La piazza accoglieva gruppi di adolescenti che attendono il resto dei loro amici per poter dare finalmente inizio alla serata. Parcheggiai la macchina e raggiunsi la piazza di corsa. I miei amici, in cerchio, chiacchieravano. “Abbiamo incontrato Alessia e gli altri!” avevate detto sorridendo ed io mi ero rammaricata di quel ritardo.
Era il mio primo
sabato da single dopo una relazioni durata più di due anni
ma mi sentivo
egoisticamente bene. Avevo trascorso il pomeriggio studiando, scrivendo
e
ascoltando musica, finalmente serena dopo alcuni giorni negativi. Ed
ero come
anestetizzata, tutto intorno era percepito attutito. Esistevo solo io e
la mia
gioia da egoista.
Un sabato sera qualunque: un hamburger al pub, un bicchiere di coca-cola, poi risate e simpatia. Un sabato sera così bello, come non capitava da un pezzo, dopo un allucinante pomeriggio trascorso nella mansarda di un amico a drogarci di giochi di ruolo da sfigati. E poi foto in bianco e nero che testimoniano quella felicità e quella sintonia che da un po’ di tempo erano venute meno nel gruppo.
Un pomeriggio
trascorso preda del dolce far nulla, magra consolazione. Coricata per
terra,
sul tappeto verde d’erba, osservavo il cielo attraverso le
finestre sul
soffitto della mansarda e mi stupivo di quel cielo azzurro e degli
alberi di
nocciole dei quali, se reclinavo il collo abbastanza, riuscivo a vedere
i rami
ancora spogli e secchi, che graffiavano il cielo azzurro.
Mia cugina era in quel pub: era tanto tempo che non ci vedevamo e, che coincidenza!, si chiama proprio come la nostra amica Alessia, incontrata poco prima, assieme a G., sua migliore amica, carismatica e piccola ragazzina, di una simpatia fuori dal comune. Nonché nostre vicine di classe. Due parole scambiate, un abbraccio, “quanto tempo!”, poi ognuna tornò al suo tavolo e la felice serata trascorse in un crescendo di allegria. Era da molto che non ci divertivamo così.
Finalmente arrivò
l’ora di prepararsi per uscire. Non ero troppo in forma,
preda della fase acuta
del raffreddore, con la fronte e il naso doloranti. Ma ero felice. Mi
vestii
saltellando, risi frugando nei cassetti e riscoprendo un vecchio
biglietto
nascosto e dimenticato. Cosa avrebbe potuto rovinare quella bella
serata, a
parte forse il naso chiuso?
Mancava poco alla mezzanotte, ma decisi comunque di tornare a casa: il tempo era peggiorato e volevo mettermi al sicuro prima di essere troppo stanca e meno lucida. Mi tremarono le ginocchia quando, sul rettilineo, la macchina slittò, sbandando verso sinistra e rischiando di farmi finire fuori strada. Per fortuna riuscii a rimettermi in carreggiata e fendendo la nebbia ad una ridotto velocità riuscii ad arrivare a casa sana e salva. Mentre mi tiravo le coperte sopra la testa il mio stomaco si strinse e fui invasa da un senso inspiegabile di ansia. Così rimasi sveglia fino alle due passate, leggendo per cercare di tranquillizzarmi, finché il sonno arrivò.
Reggendo con una mano il cappello, corsi
attraverso la piazza, fino al gruppo di ragazzi che mi stava
aspettando.
Chiacchieravano formando uno stretto cerchio per proteggersi dal
freddo. Mi
slanciai in mezzo a loro, felice. “Buonasera!”
avevo esclamato con un gran
sorriso e la voce nasale a causa del raffreddore. Voi vi eravate aperti
per
lasciarmi spazio. Due parole e poi ci siamo incamminati verso il
ristorante
cinese, dove avremmo dovuto cenare.
“Posso parlarti un attimo?” mi
hai detto tu,
il mio migliore amico.
“Certo” avevo risposto io,
serena. Non avevo
il minimo sospetto.
“Tu conoscevi Alessandro *******,
vero?”
“Sì... andavamo a scuola
assieme e alle
elementari era il mio fidanzatino!” avevo riso per poi
insospettirmi, avevo
trattenuto il fiato d’innanzi ai tuoi occhi che si spegnevano.
“Si è sparato”
Domenica mattina mi alzai sorridendo al sole novembrino che filtrava dalle mie finestre. Era quasi mezzogiorno e scesi in cucina, dove mio fratello stava studiando e mio padre lavorava, il tavolo ricoperto di fogli.
“Puoi interrogarmi?” mi chiedeva mio fratello, porgendomi un elenco di vocaboli dell’ambito culinario che avrebbe dovuto imparare a memoria. Mi sedetti anch’io a tavola e iniziai a preparare dei test scritti, che poi gli sottoposi. Mio padre ci ronzava attorno, ogni tanto andava a bere un sorso d’acqua. Gli domandai dove fosse mamma e lui rispose che era uscita, era da una sua amica. Annuii e continuai a verificare che mio fratello avesse studiato quei vocaboli.
All’improvviso suonò il telefono: era una delle mie migliori amiche, una persona con cui ho condiviso molto e della quale mi fido particolarmente.
“Ciao M.!” risposi salutandola allegramente, un gran sorriso sulle labbra.
Pronunciò il mio nome con voce tremante e poi disse “Questa notte è morta Alessia *****”.
“Stai scherzando?!” avevo esclamato, portandomi
una mano alla
bocca. All’improvviso si era fatto il vuoto intorno, non
potevo più aggrapparmi
a nulla. Stavo precipitando nel vuoto. Lui mi afferrò un
braccio, per poi
abbracciarmi. Piansi, singhiozzando sul suo giaccone, bagnandolo e
macchiandolo
di lacrime.
“ Mi dispiace...” gli dissi,
indicando la
chiazza, lui scosse le spalle.
“ Come lo sai? “ avevo
domandato,
asciugandomi gli occhi e tentando di trattenere le lacrime.
“ I. ha detto che alla festa di L. girava
quella voce e ha chiamato A. per dirgli di dire a me di dirtelo
“
“ E’... è
attendibile? “
“ Pare di sì... Mi dispiace
tanto “
Non ci credevo, non ci volevo credere. Non
era possibile! Si era sparato? Come? Ma soprattutto, perché?
Immediatamente il mio pensiero andò a
quel
padre lontano che viveva con la nuova moglie e i tre figli, alla madre
che
lavorava fuori città, alla nonna mezza matta, unica sua
compagnia. Non poteva
essere solo quello. Doveva esserci un vuoto, un grande abisso nero.
Perché a
diciannove anni non ancora compiuti non si può essere stufi
di vivere.
“ Cosa?! “ avevo esclamato, alzandomi in piedi di scatto e scoppiando a piangere.
“ Calmati, per favore... “ aveva mormorato lei, ma non riuscivo. Mi tremavano le mani, le gambe. Mio padre si era precipitato a vedere cosa fosse successo.
“ Dici davvero?! ” faticavo a reggermi in piedi e all’improvviso la stanza rimpicciolì, stringendosi attorno a me.
“ Me l’ha detto G., che l’ha saputo ovviamente da F.: ricordi che sono state migliori amiche fino alle superiori...”
“ Ma sei sicura? Magari... non lo so, magari è uno sbaglio! Magari non è vero! E com’è successo?! “ avevo strepitato, mio padre tentava di domandarmi cosa stesse accadendo.
“ Un incidente d’auto” aveva mormorato M.
“ Che succede?!” mi aveva scrollato mio padre con forza, io quasi non riuscivo a vederlo, accecata dalle lacrime.
“ E’ morta... “ avevo esalato sotto choc.
“Chi?! “non avevo mai visto mio padre così preoccupato.
“Alessia “
“Chi è? “ aveva domandato stupito. Papà, non ti ricordi mai i nomi dei miei amici!
“ La ragazza del... dell’altra sezione... quella di Edimburgo... una mia amica “
Mi trascinai per tutta la sera come un
guscio vuoto, gli occhi costantemente pieni lacrime. Volevo andarmene,
scappare
a casa. Per fare cose, poi? Piangere da sola nella mia stanza?
“ Non ci pensare nemmeno, ora stai con
noi e
cerchi di rilassarti “ mi avevano detto L. e P. con premura.
“ Non riesco molto... “
tremavo, tutto mi
tremava, le ginocchia, le mani, il cuore.
Mi avete abbracciata, siete stati dolci, ma
sentivo solo tanto vuoto.
Ricordai con chiarezza cos’era capitato a
fine estate, quando lui era tornato a cercarmi ed era evidente che
“ci stava
provando”: io l’avevo palesemente evitato. Il senso
di colpa mi raggelò,
ferendomi con forza, come acuminate scaglie di ghiaccio.
Ricordai anche i cuori gonfiabili di
plastica colorata che mi regalava il giorno di San Valentino quando
frequentavamo la scuola elementare. E il suo piccolo criceto grigio,
che ormai
doveva essere morto da tempo. Il pouf in camera sua e il caldo
pavimento di
legno. Il sorriso di sua madre.
“ Se hai bisogno, noi ci siamo
“ avevate
detto e ho ringraziato molte volte di avervi accanto.
“ Prova a cercare su Internet “ aveva suggerito M. agitata, sperando che tutto si risolvesse con un gran sospiro di sollievo per il malinteso.
“ Ci sono, aspetta che digito il suo nome sul motore di ricerca “
Aspettammo in un fibrillante silenzio doloroso che il computer elaborasse una risposta.
Il
primo
risultato era un link ad un articolo del quotidiano online della
provincia di
Cuneo: Alessia *****, 18enne di M. R. muore
nella Fiesta che si schianta contro i filari di un vigneto.
Lessi l’articolo a voce alta, trattenendo stoicamente le lacrime fino all’ultimo parola, poi esplosi.
“ Tornavano da M., significa che avevano appena lasciato a casa G.! Secondo te... secondo te il ragazzo che guidava chi è? “
“ Ho paura che sia M. ... “ avevo mormato.
M. è nato il mio stesso giorno, nello stesso anno, abbiamo abitato ad un pianerottolo di distanza per dieci anni, frequentato assieme asilo, elementari e catechismo. Ci eravamo ritrovati alle superiori, in quanto lui frequenta la medesima sezione di un ragazzo del nostro gruppo e poi perché da quasi un anno era il fidanzato di Alessia.
“Spero proprio di no! “
“ Be’, c’erano tre persone su quell’auto: se una era G. che era già scesa, l’altra era Alessia e gli altri due erano ragazzi, non possono che essere M. e R., per forza c’era uno di loro due al volante! “
Avevamo congetturato per un po’, singhiozzando e trattenendo il pianto a momenti alterni, poi ci eravamo salutate.
Non appena arrivai a casa, mi fiondai ad
accendere il computer e, in particolare, Facebook, fonte di ogni
notizia.
Scrissi il suo nome nella barra per la ricerca alla velocità
della luce,
riuscendo a sbagliarlo per ben due volte a causa del tremore alle mani.
Finalmente la sua bacheca davanti ai miei
occhi. Speriamo che sia un incubo, speriamo che non sia
vero... pensavo così intensamente
da sperare che si
tramutasse in realtà. Invece mi ritrovai schiaffeggiata da
quelle sterili
parole d’addio, persone e amici sconvolti, stupiti, senza
parole. Lessi e
rilessi quegli stupidi post che lui non avrebbe mai letto.
Professoresse amorevoli che lo seguivano e
lo aiutavano, colleghi di lavoro, compagni di classe, tutti travolti da
quella
notizia, da quella morte così improvvisa e dolorosa. Pensai
e ripensai ai
genitori, a come dovevano sentirsi in quel momento. Cosa provavano,
oltre al
dolore? La sensazione del tradimento? Del fallimento?
Dell’atroce silenzio
dell’eterno sonno? Il rimpianto per le risposte che non
avranno mai più?
Scorrendoli all’indietro lessi l’ultimo messaggio lasciato da lui stesso: I grandi geni hanno le biografie più brevi.
Rabbrividii prima di scoppiare a piangere,
mia madre accanto a me, una mano sulla mia spalla.
Lunedì mattina a scuola, la classe di Alessia era in lacrime, raccolta attorno ad un grande mazzo di fiori. Non osavamo avvicinarci e piangevamo silenziosamente il nostro dolore appoggiati al termosifone di fronte alla nostra aula, osservandoli sfilare nella porta accanto alla nostra. Non avevo il coraggio di andare da G. e abbracciarla forte, anche se avrei tanto voluto farlo.
Quella mattina i professori reagirono in modi diversi: chi con una ramanzina da genitore apprensivo, che si raccomando con il figli di fare attenzione quando guida in collina, soprattutto se pioviggina e c’è nebbia; chi, invece, ci lasciò alle nostre lacrime per l’intera ora; chi ancora non sapendo cosa dire decise di fare lezione normalmente, senza però pretendere un alto livello d’attenzione. Sentivo freddo seduta nel mio banco, stretta fra M. e L.
Posai la testa sulla spalla di M., prendendole una mano, poi le sussurrai all’orecchio.
“ Ti... ti ricordi la lettera che mi scrivesti tornando da Edimburgo, quando abbiamo conosciuto Alessia?”, lei aveva annuito, stringendomi forte la mano.
“ La tengo appesa alla porta e la rileggo spesso. Ti voglio bene... “
Hai singhiozzato e mi hai abbracciata.
Quando F. chiese di poter uscire per sciacquarsi il volto rosso di lacrime, domandai il permesso di seguirla. La trovai in bagno, poggiata al termosifone caldo, le mani premute sugli occhi. La strinsi forte e piangemmo assieme.
Mercoledì pomeriggio, un piovoso
mercoledì
pomeriggio. Alle due ero già dalla chiesa, i piedi fradici e
inzuppati d’acqua,
che si riversava a catinelle dal cielo grigio, mentre le campane
suonavano a
lutto con un rintocco sinistro. Due mie amiche e compagne di classe
delle
elementari erano lì con me. C’era anche mia madre,
amica della mamma di
Alessandro. Aspettavamo il carro funebre.
Si era poi scoperto con esattezza cos’era
successo. Alessandro,
tu hai avuto la
forza e il coraggio di tagliarti i polsi, per poi vagare in stato di
choc per
la casa, sporcando di sangue le pareti, i mobili, il pavimento, eppure
non
riuscivi a morire. Soffrivi senza potertene andare. Avresti potuto
telefonare
al pronto soccorso, sarebbero accorsi immediatamente e ti avrebbero
salvato.
Invece no, tu volevi andartene, volevi morire. Eri stufo di vivere. I
polsi
laceri, hai afferrato una pistola e ti sei sparato un unico, fatale
colpo. Ti
ha trovato tua nonna, Alessandro, povera donna, credeva fosse vernice,
ha chiamato
la parrucchiera che lavora al piano terra del palazzo. Tuo padre
è arrivato
dalla Francia, tua mamma stringe un peluche di husky fra le mani,
tremando
convulsamente. Eccoti, disteso nella bara di legno chiaro. Non poteva
essere
bianca perché avresti compiuto diciannove anni fra qualche
mese.
Ti hanno trasportato nella piccola chiesa ed
io sono riuscita ad entrare per un soffio: metà delle
persone furono costrette
a restare fuori, talmente era la ressa che premeva
nell’edificio. Tutti lì per
te, Alessandro. I tuoi compagni di classe, i tuoi insegnanti, compagni
delle
elementari, del borgo in cui sfilavamo assieme e tante altre persone
che non
conoscevo.
Guidai fino a C. con prudenza: pioveva a dirotto e la visibilità era scarsa, nonostante fossero le due del pomeriggio. L. sedeva accanto a me, stavamo in silenzio. Arrivati là, F. e i suoi genitori ci caricarono in macchina per portarci al piccolo paese di Alessia, la cui strada per raggiungerlo era molto difficile da percorrere e avevamo dunque accettato volentieri il passaggio.
La piazza della chiesa era gremita, la protezione civile dirigeva il traffico, indirizzando le macchine verso nuovi posti in cui parcheggiare. Ben presto tutto fu intasato e, sotto la pioggia, si creò un tremendo ingorgo nel piccolo paese, che non era mai stato così affollato.
Gli ombrelli erano strapazzati dal vento e noi bagnati dalla pioggia, spostata trasversalmente a causa di esso. Entrammo nell’antica chiesa e ci sistemammo silenziosamente sul fondo dell’unica, grande navata centrale. Le porte dietro di noi vennero lasciate aperte: erano stati collocati altoparlanti nella piazza per permettere a tutti di partecipare alla messa, date le ridotte dimensione dell’edificio.
C’erano quasi tutti i miei compagni di classe, ragazzi del nostro liceo e tante persone che non conoscevo. La tetra atmosfera pervasa da un imbarazzante silenzio. Le campane rintoccarono e i genitori in lacrime, sorreggendosi a vicenda, entrarono in chiesa precedendo la bara, sorretta da quattro uomini in giacca e cravatta. Mi strinsi automaticamente a P., cercando conforto in lui tanto quanto lui lo cercava in me.
Osservavo con occhi vitrei i parenti sfilare
davanti alla bara per un ultimo saluto prima di rinchiuderla per sempre
dietro
ad una lastra di pietra. Sprofondavo nell’umido pantano di
terra e ghiaia, i
piedi ormai insensibili e le gambe intirizzite. E mentre sprofondavo
nel fango,
qualcosa sprofondava dentro di me.
“ Non portatemelo via! “
strillò la mamma di
Alessandro, aggrappandosi alla bara quando i quattro uomini in nero
fecero
cenno di sollevarla. La donna singhiozzava pietosamente, abbracciando
quel
freddo legno che avrebbe custodito il corpo del figlio per molti anni a
venire.
“ Cara... “ il compagno della
madre la
allontanò gentilmente dal feretro, costringendola a mollare
la presa. Io
sprofondavo nel fango, schiacciata dal peso delle mie lacrime.
Sollevarono la bara, che ondeggiò
qualche
istante, poi la sollevarono e deposero nel loculo senza una parola.
Chiusi gli
occhi, udendo i tristemente conosciuti rumori che accompagnavano
l’intera
operazione.
“ Non avere paura, tesoro! Non sei solo!
“
piangeva tua mamma. Alessandro, perché ci hai lasciati
così? La domanda che
tutti si ponevano, la leggevo nei loro occhi di vetro e cielo. Domanda
per la
quale nessuno sarebbe tornato indietro per rispondere. Eravamo soli,
frustati
dalla pioggia e dal vento gelido, a sprofondare nel fango.
C’era troppa gente nel piccolo cimitero del paese e così ci accontentammo di un posto alle spalle di G. e R., rimasto illeso nell’incidente. Ero riuscita a parlare con G., che mi aveva confermato che era M. a guidare l’automobile.
“ Io non penso che nessuno meriti di morire,“ aveva detto “ma ci sono ragazzi che si drogano, bevono, vanno a ballare strafatti e poi tornano a casa alle quattro del mattino sani e salvi. Noi siamo stati al bowling a bere coca-cola tutta la sera, M. andava ai cinquanta all’ora e quando l’automobile ha iniziato a sbandare è sbucata un’altra macchina, che arrivava dalla direzione opposta, M. ha reagito d’istinto, sarebbe morto se non avesse sterzato e nonostante ciò c’è stato l’urto che li ha scaraventati giù per i filari. L’unica colpa di Alessia è stata quella di essere addormentata sul sedile posteriore, privo di poggiatesta”
Non se l’erano cercata, era stata una tragica serie di coincidenze che aprivano la strada a molteplici parallele vie fatte di se e di ma, sfumate nel momento in cui il suo collo si era spezzato.
G. era sempre stata cattolica credente e praticante, ma tutto il suo mondo era crollato con la morte della migliore amica, tutto si era spento. Il cielo si era svuotato e da lassù non le arrivava più nessuna voce.
Il terreno di ciottoli e terra era ridotto ad un pantano, nel quale tutti sprofondavamo allo stesso modo, volenti o nolenti.
La lastra di pietra fu posizionata con un colpo secco e lentamente attendemmo che la folle si diradasse dopo aver salutato ancora una volta quella pietra.
Mi avvicinai alla tomba di famiglia,
sbirciando fra le grate di ferro battuto.
Alessandro *******
5 maggio 1992 – 12 febbraio 2011
Sai, Alessandro, oggi avevo programmato con
la mia amica G. di andare per la prima volta dopo tre mesi alla tomba
di
Alessia, un’amica che come te è scomparsa troppo
presto. Quando le ho detto che
non potevo accompagnarla perché sarei stata al tuo funerale
è stata molto
dolce, abbiamo pianto assieme. Anche
il
giorno del suo funerale pioveva e a separarci dal cielo c’era
solo il fango.
Lanciai un ultimo sguardo ai fiori, alle
foto, al tuo nome, poi mi allontanai, gli occhi bassi, incurante di
indossare
un paio di converse per camminare in quell’acquitrino,
l’acqua alle caviglie.
Si stava allagando tutto lentamente.
Le mie due amiche mi seguivano in silenzio,
non volevano infrangere la mia bolla di dolore e io volevo rinchiuder
mici
dentro, sprofondarvi.
Improvvisamente mi voltai verso destra e
incrociai gli occhi arrossati della mamma di Alessandro.
“Stellina! “ urlò
agitata, facendomi segno
di avvicinarmi. Imbarazzata, sentendomi fuori luogo e inopportuna,
andai verso
di lei, le gambe tremanti. Mi abbracciò con forza,
singhiozzando. Sapevo di
ricordarle dolorosamente l’infanzia di suo figlio a causa
delle incalcolabili
volte in cui ero andata a mangiare la pizza a casa loro.
“Ale ti adorava, ti ricordi?”
mi domandò
allontanandomi da lei, le mani sulle spalle, e fissandomi intensamente
negli
occhi. Io annuii, tentando di trattenere le lacrime.
“Non dimenticarti mai di lui...
“ aveva
mormorato per poi abbracciarmi ancora.
“Mai“ avevo risposto,
sprofondando.
Un tappeto di fiori adagiato sul fango avrebbe dovuto alleviare il peso di quella morte, ma non era abbastanza.
Alessia ******
31 ottobre 1992 – 14 novembre 2010
La foto ancora non era stata messa. Meglio così, il suo smagliante sorriso mi avrebbe fatto sprofondare ancora di più fra acqua, fango e dolore.
Il padre, disperato, a pezzi, piangeva, trascinato via dalla sorella che chiedeva cortesemente ai presenti di smetterla di fargli le condoglianze. La madre invece resisteva stoicamente, piena di una forza che tutti noi non riuscivamo a trovare, F. andò a baciarla e abbracciarla.
Aspettammo a lungo, non avevamo limiti di tempo, così fummo liberi di osservare in pace la sua tomba, così grigia e anonima, tutto il contrario di come era stata lei in vita.
Lì, in mezzo alla folla che se ne andava, andai a sbattere contro mia cugina, quella stessa cugina che il sabato sera avevo incontrato al pub. Ci siamo abbracciate in silenzio, senza domandarci come mai avessimo un’amica in comune senza saperlo.
E mi venne in mente, con un sorriso fra le lacrime, di quella volta in cui M. ed io, ad Edimburgo, eravamo sgattaiolate nel giardino dei vicini di casa che ospitavano appunto Alessia ed E., sua coinquilina. Avevamo bussato alla finestra del salotto, alla quale si erano affacciate: E. impegnata a strofinare con una spugna la schiena di Alessia, perché la tuta nera aveva perso colore e sembrava una congolese.
“ Sono tutta nera!” aveva riso Alessia, tenendo la maglia sollevata per permettere all’amica di toglierle il colore di dosso.
“Sì, ma stai ferma, che qua non viene via niente!” e aveva sfregato con tutta la forza che aveva in corpo, fino a farle male. Tutto quel nero andò via solo qualche giorno dopo.
Abbassai gli occhi sulle fotografie: F. aveva posato la sua, un’istantanea risalente a ben 13 anni prima, che le ritraeva bambine assieme ad altri amichetti. Piccoli pezzi del puzzle della sua vita infranta giacevano su un letto floreale.
Ed io sprofondavo nel fango di fronte a quella pietra silenziosa.