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Autore: Puglio    23/03/2011    24 recensioni
Sono passati quasi dieci anni dalla battaglia contro il Kishin. Maka e i suoi amici sono cresciuti e molti di loro sono cambiati. C'è chi ha intrapreso una carriera all'interno della Shibusen, chi si è sposato, chi si è allontanato... ma sarà proprio il ritorno di uno di loro a cambiare la vita di Maka, quando già sembrava segnata in modo irreversibile.
Nota: in alcuni i casi i personaggi potranno apparire ooc. Se è così, è perchè li ho voluti far crescere. Dieci anni passano per tutti, anche per loro...
Non credo di inserire siparietti comici in stile con l'anime. Per farlo, credo, bisogna esser bravi e io non credo di esserlo. Il rischio è di fare qualcosa di ridicolo, più che di divertente.
Per finire... ora che la storia è terminata, posso dire di essermi divertito molto nel realizzarla. Perciò, spero sinceramente che possa piacervi, e che nel leggerla possiate trovare lo stesso divertimento che ho provato io nello scriverla.
Buona lettura! E grazie per essere passati di qua.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Black Star, Death the Kid, Maka Albarn, Soul Eater Evans, Tsubaki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Soul

 

 

 

Sì.

 

Avanti, svegliati.

 

Con uno sforzo, Soul sollevò le palpebre. Non vedeva nulla. Tutto ciò che lo circondava era una tenebra talmente fitta e impenetrabile da far male agli occhi.

Aspetta. Lascia fare a me.

Qualcuno schioccò le dita e un pallido bagliore risplendette improvvisamente, esile e tremolante come la fiamma di una candela. Soul fece una smorfia. Accanto a lui un piccolo demone sorrideva intensamente, seguendo con gli occhi le volute della fiamma che gli si agitava nel palmo e che illuminava il suo volto deforme, percorso da ombre che danzavano veloci.

Direi che così va meglio, sospirò il demone, accennando a quella debole luce. Non trovi anche tu?

Soul sospirò. Alzò gli occhi, guardandosi attorno. Non c'era nessuno a parte loro. In quell'immenso spazio vuoto, erano soli.

«Dove sono?»

Il demone scrollò le spalle.

Di sicuro non sei morto. Almeno non ancora.

Soul aggrondò, fissando duramente il buio che lo circondava. Non parlava. Il demone lo scrutò per un po', dapprima incuriosito, poi sempre meno interessato. Forse si aspettava qualcosa, una reazione qualsiasi, che però non arrivò. Annoiato, alla fine prese a giochicchiare con la fiamma che gli ardeva nel palmo, divertendosi a soffocarla tra le mani. Soul non gli prestò la minima attenzione. Per qualche ragione, sembrava essere scivolato in un sonno pesante, ad occhi aperti.

All'improvviso, il demone cominciò a canticchiare. La sua voce gracchiante risuonò bassa, simile al suono della puntina smussata di un vecchio giradischi. Si insinuò viscida nelle orecchie di Soul, riscuotendolo dal torpore in cui sembrava essere placidamente caduto. Quando Soul abbassò gli occhi sul piccolo demone, lo vide concentrato nel suo gioco, la lingua rosea che guizzava tra i denti aguzzi mentre snocciolava sommessamente le parole incomprensibili di una qualche canzone. Tra le sue mani, la luce si spegneva e si accendeva, si spegneva e si accendeva, illuminando a tratti il suo volto irregolare.

«Smettila» fece, seccato. «Mi dai sui nervi».

Il demone si arrestò. La sua voce gracchiante si seccò improvvisamente, come un ruscello che si trovi a sfociare nel deserto. Lanciò a Soul uno sguardo maligno, quindi si guardò intorno rassegnato.

Vuoi startene lì a fare nulla?, chiese. Soul chinò la testa.

«Non c'è nulla che possa fare. Quello che è successo...»

Per un istante, il ricordo del volto di Maka lo riportò all'attimo in cui lei aveva mietuto la sua anima. Sorrise. Trovava ironico quello stravolgimento di ruoli... il mietitore che viene mietuto. Ma quando ripensò alle lacrime sul volto di lei, un attimo prima che sferrasse il suo colpo, non ci trovò più nulla da ridere.

«Va bene così» disse, sospirando. Il demone lo fissò a lungo, quindi roteò gli occhi.

Guarda. C'è un pianoforte là, fece, levando una mano con fare annoiato. Forse dovresti suonare.

Soul allungò lo sguardo. Era vero, c'era un pianoforte poco lontano da loro. Chissà come c'era finito, lì. Era completamente avvolto dall'oscurità, e sembrava galleggiare nel vuoto. Ogni tanto, i suoi tasti bianchi e il suo mobile di legno nerissimo lanciavano improvvisi bagliori che perforavano il buio, taglienti, per poi scomparire fluttuanti come la vaga scia di un ectoplasma.

«Non ho nessuna ragione per suonare» affermò Soul, reciso. Il demone nicchiò.

Davvero? Nemmeno se...

Soul, ti prego...

Soul aggrondò. Per un momento gli era sembrato...

«Hai sentito?» domandò, in preda all'agitazione. «Quella voce, l'hai sentita anche tu?»

Il demone scrutò vagamente le tenebre, rivolgendo gli occhi verso l'alto. Restò a fissare il vuoto per un tempo indefinito; quindi torse gli occhi sul volto tumefatto di Soul, che ancora tratteneva il respiro, smarrito. Sospirò. Con un semplice gesto, spense ogni luce.

Sai, mormorò, prima di svanire, credo proprio che dovresti suonarlo, quel piano...

...Soul

 

*

 

«Soul, per l'amor di dio, entra in risonanza con me!»

«Che cosa hai fatto!»

Maka alzò lo sguardo appena in tempo. Il Kishin volava verso di lei. Una furia sorda agitava il fondo dei suoi occhi di brace, che muoveva freneticamente dal volto di lei a quello ormai pallido di Soul.

«Non lasciatelo avvicinare!» gridò Maka. Subito, come si fossero riscossi da un sogno, i suoi compagni le si raccolsero attorno, affrettandosi a ergere uno scudo davanti a lei e alla sua Buki. Il Kishin si fermò sorpreso davanti a quell'improvvisa barriera, agitandosi in cerca di uno spazio in cui far breccia.

«Voi, come osate» sibilò. «Vi spazzerò via come insetti!»

«Maka, non preoccuparti di lui» sibilò Black Star, tagliente, senza mai abbassare gli occhi dal Kishin. «Preoccupati solo di riportarci indietro quell'idiota di Evans. Al resto pensiamo noi».

Maka annuì. Non aveva bisogno di sentirselo dire. La battaglia che infuriava, accanto a lei, non la sfiorava neppure. Tutto ciò che le importava, ora, era continuare a tenere la mano premuta contro il petto di Soul, alla ricerca di quella risonanza che sembrava perduta per sempre.

Il suo cuore pulsava ancora, lo sentiva, seppur debolmente. Era il segno che la sua anima era ancora là, dentro di lui, anche se si stava lentamente spegnendo.

«Soul, ti prego» lo implorò, scostandogli un ciuffo di capelli dal volto. «Ti scongiuro, entra in risonanza con me».

Maka chiuse gli occhi, umidi di lacrime. Lottava con tutte le sue forze per stabilire una risonanza, ma sentiva l'anima di Soul farsi sempre più debole e lontana. Era inevitabile. L'aveva spezzata in due e stava lentamente morendo, senza che lei potesse fare più nulla per impedirlo. Continuava a premere le mani contro il suo cuore, mentre cercava di leggere la sua anima ancora una volta; ma dentro di sé sapeva che era tutto inutile. La concentrazione continuava a sfuggirle, lasciando che la sua mente si affollasse di pensieri e immagini che parlavano di una realtà per lei inaccettabile. Quando riaprì gli occhi, Maka vide che Soul si era fatto sempre più pallido, i muscoli del volto ormai rilassati. E la speranza fluì da lei come sangue da una ferita nel cuore aperto.

«Ero convinta che avrebbe funzionato, perdonami» pianse. Scossa dai singhiozzi, avvicinò la fronte a quella di lui, posandovela dolcemente contro in un ultimo, disperato tentativo. E in quel momento, l'anima di Soul cessò di pulsare.

«Ti prego, no» gemette, stringendolo a sé senza più forze. «Devi entrare in risonanza con me... devi farlo...

 

 

...devi...

 

 

 

Una musica dolcissima cominciò a farsi spazio nel suo cuore. Maka chiuse gli occhi, lasciandosi guidare da essa. Le sembrava di vagare nel buio, senza meta, ondeggiando lenta come una barca abbandonata alle onde dell'oceano. Quando riaprì gli occhi vide un'immensa stanza buia, illuminata solo da pallidi riflessi che la percorrevano veloci. Sentì il pavimento gelido, sotto i piedi nudi. Un velo d'acqua le lambiva le caviglie, increspandosi ad ogni suo passo. Un brivido la percorse. Aveva freddo. Quel posto era gelido.

Maka tese le orecchie. Adesso la musica taceva. Intorno a lei era solo silenzio. Confusa, provò a guardarsi intorno, ma non vide nulla. Tutto ciò che vedeva, erano quei fragili frammenti di luce che si levavano dal suolo come scintille impazzite, sorgendo dal nulla per poi spegnersi velocemente nel buio, ormai privi di ogni energia. Affascinata, Maka tese le mani verso di essi. Ma non appena ne sfiorava uno, questo si contorceva su se stesso, allontanandosi da lei per poi perdersi nella notte.

«Chi sei?»

Maka si voltò. Un bambino dai capelli d'argento la fissava assorto, attraverso due profondi occhi rossi. Indossava un elegante gessato nero e una camicia bianca, dal cui colletto pendeva una cravatta di seta nera.

«Come mai sei qui?» disse il bambino, fissandola infastidito. «Credevo che non sarebbe potuto entrare nessuno».

Maka schiuse le labbra. Fece per dire qualcosa, ma non riuscì a trovare le parole.

«Eri tu che suonavi?» chiese, sforzandosi non poco per aprire bocca. Il bambino la guardò intensamente e dentro di lei qualcosa fremette.

«Io mi chiamo Soul» mormorò il bambino. A quelle parole, Maka sorrise.

«E io mi chiamo Maka» fece, avvicinando il viso a quello di lui. Il bambino abbassò gli occhi sui piedi nudi di lei. La guardò, curioso.

«Non hai freddo?»

«Giusto un pochino» fece lei. «Mi vuoi dire perché sei qui da solo?»

Il bambino si guardò attorno. Scosse le spalle.

«Non so» disse. «Io... stavo facendo qualcosa, prima; ma poi mi sono perso».

«Qualcosa?»

«Sì. Ma non mi ricordo. Ora non mi ricordo più».

Maka fissò intensamente il volto del bambino, che sembrava cercare smarrito nel buio il senso della propria presenza in quel luogo. Quindi alzò gli occhi, guardandosi attorno. Vide un pianoforte, poco lontano, che galleggiava su uno specchio d'acqua sottile, illuminato da una luce bianchissima e pura.

«Forse stavi suonando?» azzardò lei, alzando una mano ad indicare il pianoforte con un sorriso. «Sai, sono arrivata fin qui proprio ascoltando una musica».

Il bambino si volse. Guardò il pianoforte e un'ombra discese sul suo volto.

«No, io...»

«Non eri tu?»

Lui la guardò. Gli occhi gli tremarono, poi si spensero improvvisamente. Una luce dura li attraversò, facendo apparire il suo volto molto più adulto di quello che era.

«Vorresti suonare per me?» chiese lei. Lui nicchiò.

«Io non suono mai quando qualcuno mi ascolta. Non ci riesco».

Maka sorrise, incoraggiante.

«Sai, a dire la verità io sono qui per cercare un mio amico» disse. «Anche lui suona il piano, proprio come te».

Il bambino abbassò gli occhi.

«Mi piace molto quando lui suona. Ma non suona mai per me. Vorrei tanto sentire qualcuno suonare per me, almeno una volta» sorrise. Quindi «credi che tu potresti farlo? Voglio dire... suonare per me».

«Davvero vuoi?»

«Perché non dovrei?» chiese Maka. Lui scrollò le spalle.

«Nessuno mi ascolta mai quando suono».

Lei sorrise.

«Io sì».

Il bambino la guardò, scrutando avidamente il suo volto. Sembrava cercare qualcosa in lei, e Maka si sentì turbata. Era come se quegli occhi rossi e profondi avessero frugato dentro di lei, scavando tra le macerie che nascondevano la parte più nascosta e sincera della sua anima.

Il bambino la guardò ancora a lungo. Quindi si fissò le mani, prima di voltarsi verso il pianoforte.

«Va bene» disse, semplicemente. E senza aggiungere altro, si allontanò da lei.

Ancora scossa, Maka restò in disparte, seguendo il profilo sottile di quel bambino che provava a salire sul seggiolino forse troppo alto per lui. Avrebbe voluto aiutarlo, ma sentì che non era il caso. C'era qualcosa, nei suoi movimenti, che tradiva una consapevolezza assoluta, insieme all'orgoglio di chi non necessita dell'aiuto degli altri, pur mantenendo nel profondo dei propri occhi il dolore e il disprezzo per ciò che gli è stato così crudelmente negato. Probabilmente, quel bambino era cresciuto imparando a prendersi cura di sé in modo autonomo. Infatti si sedette tranquillo, per nulla imbarazzato dallo sforzo compiuto. Quindi si sistemò la giacca del suo elegante gessato scuro, fissando il pianoforte con aria di sfida mentre alzava il coperchio della tastiera, quasi senza fare rumore.

Trattenendo il respiro, Maka lo osservò posare le dita sui tasti bianchi, e chiudere gli occhi. Lei si stupì, ma non sapeva che lui non aveva alcun bisogno di vedere. Conosceva quella musica benissimo.

Le prime note della Fantasia di Skrjabin si sollevarono dolcemente, ricadendo nel silenzio che avvolgeva ogni cosa come deboli esplosioni di luce, lucciole che smarrivano la loro forza per poi precipitare in uno stagno scuro, spegnendo la loro vita nel lento incresparsi dell'acqua. Maka fissava le piccole mani muoversi esperte sui tasti. Ogni loro gesto portava con sé una melodia, che sembrava nascere direttamente dal corpo e dall'anima di quel bambino. Era come se lui stesse componendo quella musica davanti agli occhi avidi di lei, tessendola attraverso le proprie dita, attraverso i movimenti eleganti delle braccia sottili. Fluiva dal suo volto concentrato, brillava nei suoi occhi chiusi, ergendosi davanti a lei come qualcosa di vivo e di splendido.

Maka sentiva quella musica dentro di sé, la sentiva crescere e sollevarsi, rapire la sua anima come il turbine di una tempesta, finché lei non si trovava su, sempre più in alto, splendente nei raggi caldi del sole che sorgeva luminoso sopra le nubi. E improvvisamente, pianse senza una ragione.

Continuò a seguire quella musica fin dove essa riusciva a sorreggerla. Raggiunse vette da cui avrebbe voluto precipitare, abbandonandosi al vuoto che si apriva dentro di lei come uno squarcio. Ma quella musica era sempre lì, pronta a riprenderla ogni volta che cadeva. Maka la seguì nelle sue evoluzioni, il cuore che batteva forte. Finché qualcosa si ruppe.

Fu come se l'intera costruzione si fosse improvvisamente infranta. Un vaso di cristallo purissimo che, entrato in risonanza, si sgretola e cade su sé stesso.

Il bambino si voltò, sconvolto. Fissava Maka pallido.

«Ho sbagliato».

Maka non capì cosa volesse dire. Le sembrava tutto perfetto. Cos'è che aveva sbagliato?

«Ho sbagliato. Ho sbagliato! Non hai sentito quella nota? Era sbagliata, io...»

«Va tutto bene» fece lei, precipitandosi accanto a lui. Lui la guardava tra le lacrime. Era sconvolto.

«Mi dispiace, non ho fatto apposta, non volevo...»

Maka lo strinse a sé. Sentiva i singhiozzi che lo agitavano tutto. Il suo corpicino esile si perdeva tra le sue braccia. Lei lo strinse forte, posandogli un bacio sui capelli.

«Non mi importa se hai sbagliato una nota. Non mi importa se ne sbagli mille» lo consolò. «Non mi importa niente, capito? Niente. Ma ti scongiuro, continua a suonare per me».

In quel momento, ogni cosa svanì. Maka abbassò lo sguardo e vide che il bambino che stringeva tra le mani era scomparso. Spaventata, alzò gli occhi. La tenebra aveva lasciato spazio a un immenso cielo azzurro, solcato da poche nuvole candide. Il profumo caldo del sole si mischiava a quello che proveniva dall'erba, e all'odore secco della terra. Un vento sottile le agitò i capelli e le sollevò i vestiti, correndo poi leggero tra le felci rigogliose a spettinare il dorso delle colline in lontananza.

«Alla fine ce l'hai fatta».

Maka si voltò. Soul era davanti a lei, e la guardava sorridendo.

«Sei proprio una gran testona».

Maka si scostò i capelli dagli occhi. Quindi scoppiò a ridere.

«Ma dove siamo?» chiese, guardandosi attorno piena di gioia. Soul le si avvicinò, prendendole dolcemente la mano.

«Vieni» disse. «Voglio portarti in un posto».

Risalirono la collina. Maka continuava a guardarsi attorno rapita, mentre il sole le solleticava dolcemente la pelle. L'erba era fresca sotto i piedi nudi, e gli alberi in lontananza piegavano leggermente le chiome all'alito caldo del vento. Nascoste nell'ombra, le cicale cantavano rumorosamente. Sembrava fosse esplosa l'estate.

«Ecco, ci siamo».

Maka alzò gli occhi sull'enorme albero di canfora che le si ergeva davanti. Sorgeva sulla sommità della collina, immerso nel verde del prato e nel blu di quel cielo senza fine. I suoi rami erano così fitti che i raggi del sole non riuscivano a filtrare attraverso di essi e a raggiungere il terreno ai suoi piedi. La sua chioma gettava un'ombra luminosa e imponente tutt'intorno a sé.

«Conosco questo posto» fece lei. «È a Death City, appena fuori dalla città. È lì che ti andavi a rifugiare ogni volta che volevi stare tranquillo. Non so quante volte sono dovuta salire fin quassù a prenderti...»

Soul rise. Le tenne la mano finché lei non si fu seduta nell'erba, incrociando le gambe. Quindi lui prese posto al suo fianco.

«È bellissimo, vero?» le chiese. Lei annuì, lasciando che i suoi occhi vagassero per tutto quello spazio immenso.

«Manca la panchina, però» fece. Soul sorrise.

«È come questo posto dovrebbe essere, o almeno come io l'ho sempre immaginato» disse. E il suo volto si fece scuro. «Ma immagino che in realtà, se non ci fosse Death City, questo posto nemmeno esisterebbe. Il deserto inghiottirebbe ogni cosa, come sempre».

Maka tacque. Fissò il profilo assorto di Soul. Quindi gli posò una mano sulla sua.

«Forse» disse. «O forse no».

Lui si voltò a guardarla. Sorrise, triste.

«Perché sei qui?» fece. «Non saresti dovuta venire».

«Intendi nella tua anima?» rise lei. «Ero troppo curiosa di vederla!»

Soul abbassò gli occhi.

«Credevo di essere morto. Per certi versi, quel pensiero è stato una specie di consolazione».

«So che hai passato dei momenti terribili» ammise lei. «Ma non devi...»

«Avresti dovuto lasciarmi andare» fece lui, duro. «Perché sei voluta venire fin qui, in questo posto fuori dal tempo... solo per...»

Lei lo guardò triste. Lui digrignò i denti.

«Oh, al diavolo» sibilò, distogliendo lo sguardo.

«Non essere arrabbiato».

«Non dovrei esserlo?» scattò lui. «Cosa credi, che sia facile, per me, vederti qui? Io morirò, Maka. Tutto questo, non è che una bolla di sapone, l'ultimo sforzo che la mia anima è stata in grado di compiere, perché tu sei riuscita a farmi entrare in risonanza con te. Ma quando tu te ne andrai, non rimarrà niente di tutto questo».

«Non dire così, io...»

«E cosa dovrei dire?» esclamò lui. «Avrei potuto abituarmi all'idea di perderti... ancora» sussurrò, guardando lontano. «Ma adesso, dopo che ti ho rivisto qui... io non ne sono per niente sicuro».

Lei lo fissò intensamente. Quindi, con le lacrime agli occhi «e sarei io, la testona?» disse, dura. Lui la guardò sorpreso. «Sempre a cacciarti nei guai. Di chi credi che sia la colpa se siamo in questa situazione?»

«Ah, sarebbe colpa mia?»

«E di chi, se no?» gridò lei. «Se tu non avessi voluto agire come al solito, cercando di fare l'eroe...»

«L'eroe?»

«Sì!» esclamò lei, infervorata. «Non ti ho mai chiesto di proteggermi. Mai! Avresti dovuto parlarmi, piuttosto, e confidarmi quello che ti stava succedendo!»

«Non potevo, io...»

«Non dire balle, è che tu fai sempre così!» lo interruppe lei. «Se tu ti fidassi davvero di me non ti comporteresti come un idiota, ma mi renderesti partecipe delle tue scelte».

«Io mi fido di te, ma...»

«E allora smettila di proteggermi! Smettila di credere che io ne abbia bisogno, perché non è così!»

«Ma ne ho bisogno io!»

Lei sbarrò gli occhi, sorpresa. Soul la fissava senza fiato, pallido.

«Credi che l'abbia fatto per te? Non è così. L'ho fatto per me» sibilò. «Prendilo pure come un gesto egoistico, se preferisci. Dici che voglio fare l'eroe, ma io non sono un eroe. Non sono il protagonista di un film, il classico ragazzo che ha avuto una vita difficile e che con le proprie forze riesce a diventare l'eroe della situazione. Io sono una persona normale. E la verità è che da solo non combino nulla».

Maka socchiuse le labbra. Guardava Soul senza sapere cosa dire.

«Credi che l'abbia fatto perché volevo essere forte, ma non è così» continuò lui. «L'ho fatto perché tutto ciò che di buono ho compiuto nella mia vita, è stato grazie a te. Sei tu, ad essere forte. Tu mi hai reso una Death Scythe, tu mi hai reso una persona migliore. Tutto ciò che facevo, prima di incontrare te, era restare a piangermi addosso, odiando tutto e tutti. Poi sei arrivata tu, e tutto... tutto è stato diverso».

«Soul...»

«Ciò che ho fatto, Maka, l'ho fatto per me» disse lui, fissandola triste. «L'ho fatto per preservare ciò che nella mia vita aveva senso. Tu sei tutto ciò che ha senso per me, null'altro conta. Io ho bisogno di sapere che tu resterai sempre libera, che potrai continuare a essere la Maka che amo perché solo così potrò dire di non aver fallito ancora una volta. Non c'è niente di eroico in questo, credimi. Il mio, è solo egoismo. La volontà di preservare ciò a cui tengo di più».

Maka tacque. Fissava Soul intensamente e sentiva gli occhi che le bruciavano. Il vento che soffiava tiepido spazzava via le lacrime che ancora si reggevano debolmente tra le sue ciglia.

«Stupido» mormorò. «Sei davvero uno scemo».

Lui tacque. Maka sospirò.

«Io ho trovato il modo, sai?»

Soul si volse. La fissò, come da una distanza lontanissima.

«Cosa?»

«Ho trovato il modo» riprese lei, sommessamente. «So come fare per portarti via da qui. L'ho capito solo da poco, quando ho finalmente affrontato me stessa. È stato allora che mi è parso tutto così chiaro».

«Maka...»

«Ho visto tutto» disse lei, stringendogli le mani. «Ho visto chi sei, quello che sei. Ho viaggiato nei tuoi ricordi, e li ho vissuti con te. In un primo momento credevo di doverli trattenere, di doverli conservare in modo che non andassero persi... per questo avevo preso lo specchio di Shinigami...»

Lui aggrondò, scuotendo la testa confuso.

«Maka, ma di che cosa stai parlando?»

«In realtà ho capito che non era necessario. C'è un posto in cui quei ricordi vivranno per sempre, insieme a tutto ciò che io ho vissuto con te. Non servono chiavi, specchi... non serve nulla. È un luogo che ci vede sempre vicini, e che posso raggiungere in ogni momento. Io sono già là, e anche tu lo sei. Sei là, Soul» disse lei tra le lacrime «solo che tu ancora non puoi rendertene conto».

«Io non capisco...»

Maka si asciugò le lacrime, quindi avvicinò le mani al petto. Le premette dolcemente e chiuse gli occhi. Una leggera smorfia le si dipinse sul volto. Soul impallidì, fissandola preoccupato. Quindi abbassò gli occhi sulle mani di lei. Trasalì.

«Sentissi com'è calda!» mormorò Maka, commossa. Lui scosse vigorosamente la testa.

«Ma sei impazzita?»

Lei aprì le mani, mostrandogli la propria anima. Vibrava pulsante, chiara come la luce che illuminava ogni cosa attorno a loro.

«Tu sei sempre stato qui. Ogni ricordo, ogni emozione che mi lega a te... è tutto qui dentro» disse. «Anche adesso, tu sei qui. Sì, so che non vi troverai tutta la tua vita» ammise, scrollando le spalle «ma ci troverai l'essenziale per ricominciare. Tuo fratello, tua madre... persino tuo padre. Qui dentro ho salvato i tuoi ricordi, quelli che ho vissuto insieme a te. E ho salvato tutti i nostri ricordi, l'immagine che ho di te, ciò che so di te. Vi resteranno per sempre, nessuno potrà toccarli. Finché ci sarò, proteggerò questi ricordi con la mia stessa vita».

«Maka» esalò Soul, sconvolto «io non posso prendere la tua anima!»

«È solo un pezzettino» lo rassicurò lei. «Ma credo che sarà sufficiente per far rinascere in te tutto ciò che credi di aver dimenticato, se solo lo vorrai. Io so che tu sarai sempre Soul Evans, il mio Soul, qualunque cosa accada».

Lui la guardò. Quindi spostò gli occhi su quella piccola anima che si dibatteva teneramente tra le sue mani. Lei gliela porse e lui strinse le proprie mani attorno alle sue.

«Io...»

«Ti prego» sussurrò lei. «Prendila».

Soul serrò le labbra. La guardò. Quindi si portò le mani di lei al volto e le baciò.

«Quanto mi sono mancate le tue mani» sussurrò. Con un sorriso, Maka spinse le sue mani contro al petto di lui. L'anima si dibatté un poco, poi svanì dentro il suo petto. Soul fece una smorfia.

«Come ci si sente?» mormorò lei, nascondendo a fatica la propria commozione. «Ad avere un'anima?»

Soul aprì gli occhi. La guardò, poi sorrise.

«Fa un po' male» disse. «Ma è piacevole».

Maka rise. Lui la guardò assorto, avvicinando la mano al suo volto in una carezza.

«Mi dispiace per averti ferito» disse, guardando triste il piccolo taglio che lei aveva sulla guancia «e per i capelli» aggiunse. Maka si passò una mano a spettinarsi i lunghi capelli biondi, ridendo allegra.

«Non fa nulla disse. Tanto avevo bisogno di tagliarli».

Lei si alzò, pulendosi dai fili d'erba che le erano rimasti attaccati ai vestiti.

«A questo punto possiamo anche andare, no?»

Lui la guardò e la fissò incerto. Sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma all'ultimo si trattenne.

«Che succede?»

«Ora che ho perso la mia vecchia anima» ammise lui «non credo che potrò mai più trasformarmi. Come Buki sono finito. Non posso esserti di alcun aiuto, là fuori».

«E quindi vuoi restartene qui?»

Lui impallidì. Maka aggrondò, facendosi cupa.

«Ma certo».

«Cerca di capire» fece lui «qui... qui è tutto perfetto. Io posso continuare a immaginarti, a immaginare ogni cosa come dovrebbe essere. E questo grazie a te».

«Io non sarò qui per sempre, Soul» fece lei. Lui alzò gli occhi, smarrito, e lei gli sorrise. Si chinò e gli posò un bacio sulla bocca. Un languore dolcissimo si impadronì di lui, che durò anche quando lei si sciolse dal suo abbraccio, mordendogli dolcemente il labbro. Per un po' il suo sapore resistette sulle labbra di lui, come il profumo di un ricordo lontano.

«È vero, puoi restare qui, in questo posto fuori dal tempo per sempre. Forse staresti bene» riprese lei. «Oppure puoi tornare là fuori e affrontare la realtà. La scelta spetta a te. Ma sappi che se quando aprirò gli occhi, là fuori, io non ti vedrò, ne rimarrò molto delusa. Io ti rivoglio. E ti rivoglio là fuori. Se anche tu mi vuoi, vienimi a prendere. Io ti aspetterò».

Soul abbassò gli occhi, fissando l'erba che si agitava nel vento. Quando rialzò lo sguardo, lei era già sparita.

Abbassò il capo, mettendosi ad ascoltare il vento che muoveva le foglie sopra la sua testa. Le cicale avevano cessato di cantare. Era rimasto solo.

«È così dunque» mormorò. Quindi, sorrise. «A quanto pare, non c'è proprio scelta».

Esatto fa una voce dentro di te.

E così, decidi di svegliarti.

 

Quando riprendi i sensi, è solo lei che vedi. Il suo volto occupa tutto il tuo spazio visivo. È il tuo mondo, l'orizzonte del tuo senso. Ti sorride e ti tende la mano. Senti che qualcuno parla, attorno a te, e senti l'odore della paura spingersi fino all'estremo confine della tua coscienza. È lì, pronto a pungerti. Ma tu lo respingi. Senti la mano calda di lei, vedi ancora i segni che le lacrime hanno inciso sul suo volto. Ma sei vivo. E sorridi.

«Non posso più trasformarmi» le dici. Lei scrolla le spalle. Ti dice qualcosa, qualcosa che non capisci bene, perché è troppo forte il suono della paura che grida attorno a te.

«Sarò io la tua Buki». Il senso è quello. E senza nemmeno rendertene conto, la impugni.

Fai scorrere le mani su di lei. È una sensazione fortissima, molto diversa da come la immaginavi. Senti il suo corpo tra le tue mani, pronto a reagire. La tua pelle brucia al contatto con quell'arma duttile che è il suo corpo, e che si muove elegante e sinuoso ad ogni tuo gesto. Risponde al tuo desiderio, e ti trascina nel suo, inebriandoti. Siete una cosa sola, come quando lei faceva scorrere le sue mani su di te.

Ora non hai più paura. Vedi la tua paura ergersi davanti a te. Indietreggia, sconfitta. I tuoi amici assistono senza parlare. Tuo padre è lì e ti guarda, forse per la prima volta.

Ti avvicini. Senti la paura che sta per spezzarsi. Ti grida qualcosa, ti aggredisce, ma tu non l'ascolti. Le sue ferite non ti fanno alcun male. È tutto passato.

Poi alzi l'arma. E in un momento tutto finisce.

 

 

*

 

 

La stazione era vuota. Due fila di binari correvano dritte verso il deserto, perdendosi vagamente all'orizzonte in entrambe le direzioni. Sotto il calore del sole, le traversine esalavano un odore acre di catrame e di ruggine, che aleggiava denso nell'aria ogni volta che il vento cessava per un attimo di soffiare.

Soul alzò gli occhi verso il punto più lontano in cui si perdevano i binari. Un vago baluginio si levava dalla sabbia riarsa, sperdendosi tremolante nell'aria fino a confondere il profilo irregolare dei monti più lontani.

L'orologio della stazione segnava l'una. Soul lanciò ai binari un'ultima occhiata, spingendo gli occhi là dove già da molto avrebbe dovuto far la propria apparizione il suo treno.

Nulla. Sospirò.

«A quest'ora è sempre in ritardo».

Si volse. Maka stava salendo in quel momento sulla pensilina, avanzando a passo lento verso di lui. Sorrideva.

«Cosa fai qui?» le fece lui, lanciandole un'occhiata smarrita. Daniel li osservava imbronciato poco lontano. A un cenno di lei, il bimbo sollevò il piede e calciò un sassolino, prima di correre a raggiungerli.

«Credevo ci fossimo già salutati».

«Non mi bastava».

Maka gli si fermò accanto, il piccolo Daniel che scrutava torvamente Soul avvinghiato al corpo della madre. Lei rise, passandogli una mano a spettinargli i capelli.

«È arrabbiato» disse lei, come per rispondere all'occhiata interrogativa che Soul le aveva appena lanciato. «È voluto venire a controllarmi, perché è convinto che mi porterai via con te».

Soul sorrise.

«Davvero pensi questo?»

Daniel annuì torvo, stringendosi ancora di più alla madre.

«Dove vado io non c'è posto per lei» gli disse lui. «E nemmeno per un ragazzino petulante e noioso come te».

Daniel arrossì. Maka assisteva alla scena divertita.

«Però...» riprese Soul «tornerò a trovarvi. E se vorrai, mi farà piacere tornare a parlare con te. E anche vedere se sei finalmente diventato capace di giocare a basket».

«Io sono capace» protestò Daniel. Soul inarcò un sopracciglio, per nulla convinto.

«Daniel, ora vai ad aspettarmi dentro» fece Maka, indicando con un cenno la stazione alle loro spalle. «Io e il professor Evans abbiamo bisogno di parlare un po'».

Daniel annuì, obbediente. Quindi fece un passo avanti verso Soul e gli tese la mano. Soul la strinse, sorridendo leggermente sorpreso.

«Mi ha fatto piacere conoscerla, signore» disse Daniel, serio. «Ma non credo che diventerò mai una Buki».

Soul gli rivolse un'occhiata curiosa. «Ah, davvero?» fece. «E come mai?»

«Perché credo che sia una gran fregatura».

Soul scoppiò a ridere, seguito da Maka. Daniel li guardò entrambi, sorridendo a sua volta. Quindi abbracciò improvvisamente Soul, che restò impietrito a guardarlo.

«Grazie» disse il bambino. E scappò via, correndo.

«Hai fatto colpo» mormorò Maka, intenerita, mentre guardava suo figlio aprire la porta della sala d'aspetto e sedersi obbediente su una panchina. «Credo che non ti scorderà facilmente».

Soul ammiccò.

«E tu?»

Maka lo guardò di sbieco, sorridendo maliziosa. Quindi si voltò e con le mani intrecciate dietro la schiena si mise a fissare i binari.

«Che hai fatto ai capelli?» le chiese Soul. Lei scrollò le spalle, arricciando leggermente le labbra.

«Li ho tagliati» fece. «Ho dovuto farlo, visto che ieri a causa tua ho perso un intero codino... o te ne sei dimenticato?»

«Non stai male» bofonchiò lui, imbarazzato. Lei sorrise, divertita da quella sua goffa reazione.

«Lo prenderò come un complimento».

Il treno annunciò il suo arrivo con un fischio prolungato, che si propagò in lontananza. Soul e Maka si voltarono a guardare nella direzione in cui si intravedeva una densa nuvola di vapore bianco levarsi alta fino al cielo, là dove il vento leggero di quella splendida giornata di autunno la disperdeva velocemente.

«Direi che ci siamo» fece Soul, caricandosi in spalla il suo sacco. «Questo è un addio, allora».

Maka nicchiò. Nascose tra i suoi occhi una lacrima e si scosse la frangia dagli occhi, con un'elegante scossa del capo.

«No» fece, tendendo la mano. «È solo un arrivederci».

Soul sorrise. Le guardò la mano e la strinse nella sua, quindi «non so quando tornerò» disse. «Ma lo farò. Dovrò viaggiare molto per i primi tempi, Shinigami mi ha avvertito. Ma se questo è il prezzo da pagare per riacquistare la sua fiducia e quella di tutti, non mi tirerò indietro».

Maka annuì.

«Sai già dove andrai?»

«Per qualche mese viaggerò con mio padre» rispose Soul. «Shinigami lo ha richiamato in servizio e gli ha affidato alcuni compiti da svolgere prima dell'inizio delle lezioni di primavera. Per allora credo che avrò già raggiunto il Giappone, dove mi vedrò con Tsubaki e Black Star, che per allora si saranno già trasferiti là».

«So che ci rimarranno per un po'» fece Maka. «Tsubaki ha bisogno di tranquillità e penso che tornare a casa dei suoi le possa fare bene. Black Star ha avuto una bella idea. Credo che starsene un po' da soli li aiuterà a ritrovare quella serenità di cui entrambi hanno bisogno per affrontare il futuro».

Il treno fischiò nuovamente. Stava per entrare in stazione.

«Maka, io non so cosa mi riserverà il futuro» saltò su Soul, turbato, «ma... prima che parta, voglio solo dirti che tornerò. Davvero. Con questo non ti chiedo di aspettare per forza... voglio solo che tu sappia che anche se non posso sapere quando ci rivedremo, so che un giorno accadrà di sicuro. Fosse anche per vederti solo...»

«Basta».

Lei gli prese la mano e la strinse. Quindi restò a guardarlo tra le lacrime che ora non riusciva più a trattenere.

«Non hai bisogno di dire nulla» disse. «Torna da me appena puoi. Torna. E non dimenticarti di farlo».

Lui annuì. Lei gli prese il volto tra le mani e lo baciò sulle labbra.

«Non sarà la distanza a dividerci» mormorò lei. «Non adesso, non più. Io e te condividiamo qualcosa che va al di là di tutto questo. Tu hai una parte di me di cui prenderti cura, ora; e io sarò sempre con te ovunque andrai, per bastonarti nel caso tu commetta qualche sciocchezza» rise. Soul le baciò la fronte, aspirando il profumo caldo dei suoi capelli.

«Solo, non dimenticare di guardare ogni tanto qui dentro» continuò lei, posandogli le mani sul cuore. «Se dovessi sentire la mia mancanza, o se solo volessi incontrarmi... voglio dire...» singhiozzò «io e te abbiamo la stessa parte di anima, ora. Se entrerai in risonanza con me, ovunque sarai, io ti raggiungerò».

«Lo so» fece lui. «È solo questo, che mi dà forza».

Maka trattenne il respiro. Il treno arrivò sbuffando, e lo stridio assordante dei freni coprì le ultime parole che lui le stava dicendo. Lei scosse la testa, avvolta da una nuvola di vapore bianco.

«Non ho sentito» disse. La locomotiva lanciò un fischio e lei si portò le mani alle orecchie. Soul sorrise, salendo sul predellino della carrozza.

«Soul!»

«Ci vediamo presto» fece lui. Maka scosse la testa. Il capotreno agitò la bandiera e la locomotiva prese a muoversi lentamente.

«Soul!» gridò lei, seguendo il convoglio. «Non ho capito!»

Il treno acquistò velocità. Soul si affacciò al finestrino, chinandosi fino a lei. Le strappò un bacio, un attimo prima che il treno abbandonasse la pensilina.

«Custodiscila tu» gridò lui, agitando la mano. Maka abbassò gli occhi a guardarsi intorno, confusa. Quando li rialzò il profilo del treno cominciava già a sbiadire all'orizzonte.

«Non ho capito...»

Si toccò vagamente le labbra con la punta delle dita, come a voler imprimere su di esse il ricordo del bacio caldo di lui. Quindi, colta da un'improvvisa illuminazione, si frugò in tasca.

«Ma...»

La catenella con la piccola chiave di ottone era lì, nel palmo della sua mano. Maka la fissò sorpresa, alzando poi gli occhi verso il punto in cui il treno si era ormai allontanato.

«Stupido» mormorò. Scosse la testa, con un sorriso. Quindi si passò la catenella attorno al collo e nascose la chiave sotto la camicia. La sentiva premere contro il proprio petto, là dove batteva il suo cuore. Sarebbe sempre stata lì, finchè lui un giorno non fosse tornato a reclamarla. E con essa lei, il suo amore e la sua vita intera.

Maka alzò gli occhi verso il sole, quindi si volse, a guardare Daniel che la salutava con la manina attraverso la porta a vetro della sala d'aspetto. E con un sorriso di gioia, si incamminò verso di lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti (e qualcosa in più che troverete alla fine)

 

E così, eccoci alla fine. Questo è l'ultimo capitolo e la ff si chiude. È stato davvero emozionante scrivere e avere la vostra compagnia per tutti questi mesi. Per un po' ho sognato insieme a voi, dando voce ai pensieri e alle emozioni che mi legavano ai personaggi di questo splendido anime.

Non credo che scriverò ancora su Soul Eater. Quello che sentivo di avere da dire sui personaggi credo di averlo esaurito in questa ff, quindi... questo è tutto! Non ho molto altro da aggiungere.

Tutto ciò che vorrei dire, adesso, è un grazie a tutti voi che mi avete seguito con così tanto affetto per tutto questo tempo. Grazie a chi ha recensito, chi ha speso parte del suo tempo prezioso per farmi conoscere ciò che aveva da dire su quanto scrivevo, fornendomi consigli utili e sempre preziosi, ma soprattutto mettendomi a parte di emozioni e di pensieri che hanno costellato la mia ispirazione aiutandomi nel mandare avanti questa storia. Se questa storia è arrivata fin qui, è in gran parte dunque merito vostro.

Quindi grazie. Grazie a tutti voi. Grazie ad Altariah, che mi ha seguito sempre, fino all'ultimo, e grazie a Hyakii, a Shi mei, a Rein94 la prima a recensire; grazie a Smemoranda93, a Kirara90 che mi ha suggerito delle correzioni da apportare ad alcuni miei grossolani errori presenti nell'epilogo (Grazie mille Kirara!) e anche per tutte le questioni che riusciva a sollevare e che tanto mi hanno aiutato a migliorare il mio modo di spiegare le cose. Grazie ad Eureka e grazie a Marghepepe per avermi scritto una recensione che mi ha sinceramente commosso. Grazie a La Giuli, a Gisisuperchicca e grazie a Chrona (non il personaggio!), a Cheche, e a Keyrlah, Senna, Roby rox e Cassandra Wolf... insomma, grazie a tutti coloro che hanno scritto, e a coloro di cui non ricordo il nome (vi prego di non volermene!), ma che hanno comunque lasciato in me un ricordo piacevolissimo legato a questa esperienza.

 

Ps. Non crediate che abbia pensato di restare indifferente ai vari mormorii di fondo sul finale. Per me la storia si conclude così, ok, ma siccome sono un romanticone e so che i viaggi me li sarei fatti comunque, ho deciso di pubblicare qui sotto un piccolo capitoletto che getta uno sguardo su come si sono evolute le cose dopo la fine. Non so se vi è piaciuto il capitolo in sé, non so se vi piacerà questo... insomma, posso solo sperare che siano entrambi per voi una buona lettura. Se così sarà, allora avrò raggiunto il mio scopo. Che non è quello di essere uno scrittore, ma di poter sognare, per un po', insieme a tutti voi.

 

Ciao a tutti

Puglio

 

 

 

 

5 anni dopo

 

 

L'atrio era affollato. Il primo giorno d'inizio dell'anno scolastico era sempre così. Frotte di studenti di tutte le età che camminavano per i corridoi a passo svelto, lanciando tutt'attorno occhiate curiose in cerca di qualcuno che potevano conoscere, mentre parlavano fitto fitto con le persone che avevano accanto. I ragazzi più grandi parlavano a voce esageratamente alta, per attirare l'attenzione su di loro. Alcuni ridevano in modo sfrontato, mentre tra i gruppetti di ragazze che li fissavano sognanti, cercavano con gli occhi quella a cui avrebbero volentieri chiesto un'incontro nel corridoio. Le giovani matricole, invece, si affollavano all'ingresso, sporgendo la testa dal folto del gruppo per non perdere di vista coloro che entravano, urlando in preda all'agitazione non appena ritrovavano un loro vecchio amico.

Daniel se ne stava in disparte a mangiare la sua colazione. Una ciambella ricoperta di cioccolato fuso. Adorava quel tipo di dolci, anche se in generale non era un tipo particolarmente goloso. Mentre masticava, molto lentamente, appoggiato alla parete controllava con occhi stanchi la folla che si assembrava davanti al tabellone delle assegnazioni, là dove gli studenti più in gamba della Shibusen si trovavano a cercare nel folto delle segnalazioni il compito a cui erano stati destinati in orario extrascolastico.

Senza alcuna fretta, ingoiò l'ultimo boccone, accartocciando il sacchetto e gettandolo nell'immondizia. Qualcuno passò accanto a lui, salutandolo. Daniel rispose con un cenno del capo, tornando poi a spostare gli occhi sul tabellone. Sid aveva appena finito di scrivere e la gente faceva ressa per vedere. Era ancora presto. Decise di aspettare che gli animi si calmassero, prima di avvicinarsi.

«Tu sei Daniel, vero? Il figlio del Sommo Shinigami».

Daniel alzò pigramente gli occhi sulla ragazzina che aveva di fronte.

«Tu sei...?»

«Mi chiamo Sayuki. Vengo dal Giappone, insieme ai miei genitori. Sono arrivata da pochi giorni. Comincio il triennio in questa scuola».

«Quanti anni hai?» fece Daniel, interessato. «Sembri piuttosto grande».

«Dodici» rise lei. «Ho perso qualche anno perché i miei veri genitori sono morti, sei anni fa, lasciandomi sola. Mia madre... cioè, la mia mamma adottiva, mi ha iscritto comunque al triennio, perché sia lei che papà credono che così potrò imparare meglio e recuperare ciò che mi sono persa. Ci siamo trasferiti qui apposta dal Giappone, sai? Tu li conosci, intendo i miei genitori adottivi... sono dei grandi amici di tua mamma e di tuo papà e mi hanno tanto parlato di loro e di te. La mia madre adottiva si chiama Tsubaki, mentre il mio nuovo papà è il grande Black Star».

«Ah».

Daniel lanciò un'occhiata al tabellone. La ressa sembrava essere diminuita.

«Sai già se diventare Buki o Shokunin, quindi» disse lui, avvicinandosi al tabellone con le mani in tasca. La ragazza lo seguì allegra.

«Buki» fece. «Papà ci tiente tanto. Dice che con le mie doti posso diventare una grandissima Buki, la più grande di tutte».

«Davvero?» chiese Daniel. «E che sai fare?»

«Mi so trasformare in shuriken, in katana, in wakizashi e kusarigama. Ma papà vorrebbe anche che imparassi a trasformarmi in coltello e magari in Kama. Sarebbe fantastico».

«Caspita».

«Daniel the Death?»

Daniel si voltò, seguito a ruota dalla ragazza. Un uomo alto e corpulento, con indosso l'uniforme da portiere della scuola, era in piedi davanti a loro. Tra le mani reggeva un grosso pacco di lettere.

«C'è questa per te» disse, consegnando a Daniel una busta. Lui la aprì. Conteneva una cartolina stropicciata che lui guardò aggrondando. Quindi la voltò, e finalmente sorrise.

«Una cartolina?» fece Sayuki, sporgendo le labbra. «Chi te la manda?»

«È di mia madre» disse lui. «È partita l'anno scorso, quando ho terminato il primo anno del triennio inferiore» disse.

«Partita? E ora vivi solo?»

«Certo, come tutti quelli che iniziano il triennio» disse lui. «Anche lei alla mia età ha cominciato a vivere da sola. Io ho cominciato un anno prima perché mi hanno iscritto a scuola quando avevo cinque anni. Fra un anno toccherà anche a te».

Sayuki sbirciò la cartolina. Era una vecchia cartolina spiegazzata, raffigurante il profilo di una città al tramonto ma che lei non aveva mai visto. C'era anche una parola, scritta in caratteri incomprensibili.

«Cosa vuol dire?» chiese.

Daniel abbassò lo sguardo. «Ah, questo» fece. «Significa coraggio».

Sayuki aggrondò.

«Devi sapere che questa cartolina ha una storia molto lunga» rise Daniel. «La mandò mia nonna a mia madre tanto tempo fa, in un momento in cui lei aveva parecchio bisogno di aiuto. Le diede molta forza. Quando è venuto il momento per me di trasferirmi in un appartamento scolastico, mia madre manifestò il desiderio di partire, e di allontanarsi da Death City. Io le dissi che avrei accettato il fatto che andasse via da casa solo se mi avesse scritto dicendomi di essere felice, e di aver raggiunto ciò che cercava. Questa è la lettera che aspettavo. Ora so che sta bene».

«Via da casa? E perché tua mamma è andata via?»

«Per cercare qualcuno a cui aveva dovuto dire addio tanto tempo fa, quando scelse di essere una madre, prima ancora che una donna innamorata».

Sayuki aggrondò. Non capiva molto di tutta quella storia. I suoi genitori le avevano parlato di Maka Albarn, la madre di Daniel. Ma non le avevano raccontato cose così strane.

«Ma adesso è felice, no?» domandò. Daniel annuì.

«Ora sì. E anche io».

«E dove si trova?»

Daniel girò la cartolina. Sayuki si sporse, appoggiandosi a lui e allungando lo sguardo.

«Non c'è scritto nulla» lamentò.

«Sbagli» disse Daniel. «Per me c'è scritto tutto».

Daniel infilò la cartolina nella busta e la cacciò nella tasca interna del suo giubbotto di jeans. Quindi lanciò un'occhiata a Sayuki, che lo fissava di sbieco.

«Che hai?» chiese, torvo.

«Sei strano» disse lei. «Dici che tua mamma sta bene, ma come fai a saperlo? Sai con chi è? Potrebbe essere stata persino rapita!»

«Non mi avrebbe mandato quella cartolina» disse lui, tranquillo. «E poi so benissimo con chi è».

«Cioè?»

Daniel spostò gli occhi su di lei. Quindi «sai qual è il segreto che unisce una Buki al suo Shokunin?»

Sayuki aggrondò, torva.

«Scusa, ma che c'entra?»

«Lo sai o no?»

Lei sbuffò, facendosi pensosa.

«La fiducia?»

«Saper ascoltare ciò che l'altro ha da dire» affermò Daniel. Sayuki schiuse le labbra. Lui sorrise. «Me lo ha insegnato una grande Buki. Una persona che non dimenticherò mai».

Lui si strinse nelle spalle, passandosi una mano tra i capelli. Si voltò a guardare la ragazza, che lo fissava piuttosto sconcertata.

«Senti» fece «se non ti hanno ancora assegnato a qualcuno, e se sei d'accordo, potremmo lavorare insieme. Che ne dici? Mi piacerebbe molto lavorare con te. Chissà, se lavoriamo sodo, un giorno potremmo davvero andare in missione».

Sayuki sbarrò gli occhi, fissandolo incredula.

«Io?» esclamò. «Con il figlio del sommo Shinigami? È un sogno!»

«Non montarti la testa» fece lui, serio. «Io sono uno come tutti».

Sayuki annuì. Poi alzò gli occhi sul tabellone, fissandolo con aria sognante.

«Chissà se un giorno vedremo anche i nostri nomi scritti su quel tabellone» sospirò. Daniel volse leggermente la testa, annuendo.

«Sono sicuro di sì» fece. «Se ci impegneremo, e se in parte saremo fortunati. E se non riusciremo, proveremo ancora, e ancora. Tanto abbiamo un sacco di tempo. Il mondo non crollerà adesso. Perlomeno, non ancora».



  
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