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Autore: _Pulse_    01/04/2011    7 recensioni
[Avril Lavigne]
«Mamma… perché piangi?», le domandò a bassa voce, tornando ad abbracciarla con delicatezza, come se avesse paura di romperla.
«Vorrei che tu fossi felice, che ridessi invece di piangere, ma… non c’è nient’altro che posso fare oltre ad amarti più che posso».
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è nulla di che, ma ho adorato questa canzone di Avril ("Darlin") sin dal primo momento in cui l'ho sentita e questa one-shot è nata del tutto spontaneamente nella mia testa (:
Spero vi piaccia almeno un po' e che lascerete qualche recensione *-*


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Entrò in casa e si sbattè la porta alle spalle, furiosa.
Non c’era nessuno, suo fratello era ancora al lavoro, il silenzio regnava sovrano tra quelle mura.
Camminò a passo di marcia verso la sua camera, mentre si toglieva bruscamente la giacca di dosso, e una volta chiusa dentro la sbattè sul letto e ci si gettò a capofitto pure lei, stesa a pancia ingiù, con la faccia immersa nel cuscino. Vi soffocò un urlo di rabbia, ma non le bastò; poco dopo, le lacrime iniziarono a scorrerle sulle guance, rigandole di matita nera e sporcando anche la federa.
Era stanca, stanca e demoralizzata. Stanca, demoralizzata e furibonda. Aveva lasciato tutto, la scuola, gli amici; si era trasferita in quell’appartamento a Greenwich Village piena di speranze, aggrappata al suo sogno che credeva che in una città come New York si sarebbe realizzato con un semplice schiocco delle dita. In fondo non era un sogno irraggiungibile, anzi… credeva che fosse più che modesto, in confronto alle grandi aspettative che aveva sentito in quel quartiere di artisti. Il suo unico, grande sogno: vivere di musica, ciò che amava con tutta se stessa.
E invece no, non stava andando proprio come si era aspettata. E pensare che dopo la firma di quel contratto discografico con l’Arista Records le era sembrato che il mondo della musica si fosse aperto solo per lei! Ora la fredda New York non le sembrava più il paradiso per cui aveva discusso molte volte coi suoi genitori, fino a quando non avevano ceduto e l’avevano incoraggiata a trasferirsi lì. Stava provando sulla sua pelle quello che non si sarebbe mai immaginata e che aveva negato con ostinazione prima della partenza e durante i primi mesi lontana da casa: la nostalgia, la solitudine e lo sconforto, la paura di non farcela e di aver sbagliato a lanciarsi così in quel mondo più grande di lei. E di certo quegli invadenti degli autori non l’aiutavano, mettendole pressioni su pressioni.
Da quanto tempo era che non si svagava un po’ con dei ragazzi della sua età? Per quanto aveva sopportato gli autori che provavano e riprovavano imperterriti a fare il suo lavoro?
Sentì la porta di casa aprirsi dopo una mandata di chiave.
«Avril!?», la chiamò suo fratello Matthew dall’ingresso.
La ragazza saltò giù dal letto e lo guardò fermandosi in mezzo al corridoio. Pochi metri li dividevano, ma preferirono scrutarsi da lontano, per capire come prendersi a vicenda.
«È andata male anche oggi, vero?», le domandò lui, con un sorriso amaro sulle labbra.
«E a te pure, vero?», gli chiese lei con lo stesso tono comprensivo, anche se la sua voce era ancora un po’ nasale a causa del pianto.
Solo allora andarono l’uno dall’altra e si abbracciarono forte. Matt posò il mento sul suo capo e le accarezzò le spalle, mentre lei aveva incominciato di nuovo a piangere.
«Glielo dici tu a quei rompipalle che se non riesco a combinare nulla di nuovo non è perché non ho voglia, ma perché non ho più alcun tipo di ispirazione?».
Matt sorrise, le prese il viso fra le mani e gli passò le dita sulle guance per levarle il trucco sbavato. «Penso di non poterlo fare. Però magari tu potresti parlare con quell’inumano del mio capo, potresti fargli paura solo guardandolo».
Avril ci passò sopra anche i dorsi delle sue mani e poi se li pulì sui jeans. Alzò lo sguardo sul fratello maggiore e con tono estremamente serio disse: «Scappiamo?».
Lo fece ridere, una risata leggera che stava a simboleggiare un “sì” che arrivò qualche istante dopo: «Preferirei dire a mamma e papà che ci siamo presi una vacanza».
La ragazza sorrise raggiante e gli gettò le braccia al collo per soffocarlo in un abbraccio.



«Tesoro! Oh, tesoro!». Sua madre l’abbracciò e la strinse forte a sé, accarezzandole i capelli sulla nuca.
Avril sorrise col viso contro la sua spalla e respirò il suo profumo così buono: era bello essere di nuovo a casa.
«Papà?», domandò suo fratello Matt, guardando la madre.
«Dovrebbe arrivare a momenti», rispose con un sorriso. «Com’è andato il viaggio? Siete stanchi? Avete fame?».
«No, mamma, stiamo bene», Avril ridacchiò, divertita da tutte quelle premure: vivendo da sola con suo fratello si era in un certo senso dimenticata dell’enormità di attenzioni che la loro mamma gli aveva sempre riservato.
«Matt! Avril!».
I due ragazzi si girarono verso il corridoio che portava alle camere da letto e videro Michelle, la loro sorellina, corrergli incontro con le braccia aperte, pronta a gettarsi sopra di loro. E in effetti fu quello che fece, catapultandosi nell’abbraccio del suo fratellone.
«Mi siete mancati così tanto!».
«Anche tu ci sei mancata», esclamò Avril, quando fu il suo turno per gli abbracci.
«Dovevi andare da qualche parte?», domandò la sorella maggiore, guardando l’abbigliamento non casalingo di Michelle.
«Sì, mamma mi doveva accompagnare al centro commerciale! Stasera devo andare ad una festa e non so proprio cosa mettermi… Visto che sei qui potresti accompagnarmi tu!», gridò con gli occhi brillanti, artigliandosi al suo braccio.
«E va bene», ridacchiò.
Le due sorelle uscirono di casa e si diressero al centro commerciale. Avril si sentiva bene, era felice di essere tornata a casa dalla sua famiglia, aveva come la sensazione di essere protetta, lontana da quel mondo “da grandi” in cui aveva vissuto fino al giorno prima, a New York.
Ma quella felicità venne spazzata via in un attimo, quando incontrò uno dei suoi più cari amici, se non proprio il migliore, in un negozio di abbigliamento. Appena l’aveva visto con la ragazza più smorfiosa della scuola il suo umore era decisamente crollato, ma sua sorella l’aveva spinta ad andare a salutarlo comunque.
Avril gli andò incontro con passo incerto e quando ormai c’erano solo pochi metri ed un cesto di capi scontati a dividerli, lui alzò lo sguardo e la vide.
La ragazza ebbe subito la forte tentazione di fuggire da quello sguardo, ma la sua coscienza le disse di non fare la fifona e la trattenne lì.
Erano soltanto pochi mesi che non si vedevano, ma sembravano passati anni.
Alzò la mano in segno di saluto e sorrise in modo impacciato. «Ciao».
Dennis la fissò con sguardo cauto, come se avesse paura di fare una gaffe, e imbarazzato. «Abbey?».
Avril socchiuse gli occhi ai ricordi che quel soprannome le riportava alla mente, tra cui la discussione che avevano avuto giusto prima che lei partisse.


«Ma sei sicura di voler andare?», le chiese l’amico, seduto sul suo letto.
«Mai stata più sicura di così», ribatté Avril, intenta a preparare le valige.
Domani sarebbe stato il grande giorno, avrebbe lasciato quella cittadina di pochi abitanti e si sarebbe trasferita a New York per rincorrere il suo sogno di diventare una cantante e vivere di musica.
Dennis sospirò, rammaricato. «Non ti facevo così, Abbey».
Avril si girò e lo guardò negli occhi, notò il suo viso contratto in un’espressione dura, quella che sfruttava quando era triste e non voleva farlo vedere. Ma lei lo conosceva troppo bene, non poteva nasconderle nulla… o almeno così credeva.
«Così come?», gli domandò, confusa.
«Così egoista».
«Che… che cosa?», balbettò, incredula a dir poco. Lei, egoista? Perché? Che cosa aveva fatto?
«Non dirmi che trasferirti così da un giorno all’altro a New York non sia egoista da parte tua. Perché è proprio necessario il trasferimento? Cosa c’è là che qui ti manca?».
Avril non riuscì a staccare gli occhi da lui nemmeno per un attimo, lo ascoltò più attentamente che poté, ma i suoi discorsi… non li capiva.
Non ne avevano già parlato del perché? Non era stato contento per lei? Non si erano promessi di rimanere amici comunque? Perché da un giorno all’altro sembrava aver messo tutto di nuovo in discussione?
«Lo sai benissimo che a New York non avrei distrazioni, mi concentrerei di più sul mio lavoro… È la mia grande occasione, non posso buttarla nel cesso».
L’amico si alzò e si infilò le mani nelle tasche, guardandola negli occhi con sguardo affilato. «Quindi è solo per questo? Solo perché non penseresti ad altro che a lavorare?».
«Beh… sì. E poi non vedo appunto che cosa cambi, qua o là. Ho qualche motivo in particolare per restare qui?».
«Sì, ce l’hai», rispose con serietà e si avvicinò a lei, che tutto ad un tratto si irrigidì; posò le mani ai lati del suo viso e sussurrò: «Me».
Avril boccheggiò, presa alla sprovvista, e Dennis continuò: «Non partire, Abbey. Resta qui».
«Io… non posso», mormorò con le lacrime agli occhi e gli allontanò le mani, portandogliele sul petto. «Mi… mi dispiace tanto».
«Vaffanculo», berciò lui ed uscì da camera sua, e dalla sua vita, sbattendosi la porta alle spalle.


Avril scosse il capo per estraniarsi da quel flash-back e tornò a concentrare la propria attenzione sul suo ex migliore amico, che le chiese:
«Tu… che ci fai tu qui? Non dovresti essere a New York a quest’ora?». Nei suoi occhi balenò un lampo di risentimento e la ragazza lo colse al volo, anche perché le fece piuttosto male, come un ago infilato nel cuore.
«Sono tornata a casa per stare un po’ di tempo con la mia famiglia», rispose con un mezzo sospiro. «Ti… ti trovo bene, hai… insomma…», accennò con la testa in direzione dei camerini, dove allora si trovava la sua nuova ragazza.
«Oh, lei», annuì, quasi come se volesse convincere anche se stesso di avere una relazione con una ragazza del genere: quando lui ed Avril erano amici si divertivano un mondo a sfotterla e a farle i dispetti a scuola, era il loro passatempo preferito. «Le cose cambiano», aggiunse guardandola negli occhi. «E non potevo continuare ad aspettarti».
«Ora però sono –».
«Orsacchiotto!», gridò con la sua vocetta stridula la smorfiosa, interrompendo Avril e facendo voltare Dennis.
«Che cosa c’è?», le domandò lui con tono un po’ infastidito.
La smorfiosa intercettò lo sguardo di Avril e la fulminò, per poi appiccicarsi come un polipo al suo ragazzo, facendo le moine. «Volevo solo farti vedere come mi sta il vestitino che voglio comprarmi…».
«Lo sai che non ne capisco nulla di queste cose», sbuffò.
«E dai, non farti pregare!», piagnucolò come una bambina. Il ragazzo fu costretto a cedere.
«Adesso devo andare», disse alla sua ex migliore amica. «Stammi bene». Non le rivolse nemmeno l’accenno di un sorriso e si allontanò dandole le spalle, in maniera più silenziosa della prima volta, ma forse ancora più dolorosa.
Non era felice, glielo aveva letto negli occhi, quegli occhi che non erano più belli e luminosi come quando lo aveva conosciuto ed erano ancora amici, ma spenti e tristi. La consapevolezza che una parte di colpa ce l’aveva anche lei, se non la maggior parte, le faceva malissimo.
Tornò dalla sorella e le chiese se se ne potevano andare – le era già passata la voglia di stare chiusa lì dentro – ma forse Michelle aveva trovato qualcosa di carino da prendere e voleva provarselo. Costrinse Avril a seguirla e ad entrare nel camerino con lei e fu proprio allora che la quasi cantante ricevette la batosta più grande, perché Dennis e la sua nuova ragazza erano del camerino accanto a farsi comodamente i fatti loro ed intanto parlavano di lei.
«Ma quella era la ragazza di cui mi hai parlato una volta? Quella che ha preferito trasferirsi a New York per il suo sogno invece di restare con te?».
«Sì», ansimò il ragazzo, mentre la ragazza contro di lui faceva lo stesso riuscendo pure a conversare.
«E che ci faceva qui?».
«È venuta a trovare i suoi».
«Sì, certo… ti avrà detto così, ma secondo me quella fallita non è riuscita a concludere un bel niente a New York, anzi, l’hanno rispedita qui con un calcio in culo».
«Non sai un cazzo, stai zitta».
«Ah, orsacchiotto, piano… Non essere arrabbiato per quella, lo sai che tu ti meriti solo il meglio, cioè me».
«Chiudi quella bocca ti ho detto».
Avril, che aveva ascoltato tutto nel camerino affianco, aveva iniziato a piangere senza nemmeno rendersene conto, ma presto le lacrime di tristezza si trasformarono in rabbia e nervosismo, tanto che iniziò a prendere a calci la parete di legno che comunicava con il loro camerino, dando della puttana alla smorfiosa, fino a quando sua sorella non la trascinò via da lì, prima che finisse male.
Lo shopping di Michelle fu un completo disastro, perché viste le condizioni di sua sorella aveva preferito evitare di entrare in qualche altro negozio, così erano tornate a casa, a mani vuote l’una e col cuore spezzato e la fottuta sensazione di essere proprio una fallita l’altra.

Quella sera Avril mangiò poco o niente a cena e rimase in silenzio per la maggior parte del tempo. Suo padre aveva cercato di scucirle qualche parola di bocca, ma… era come se non ci fosse; la sua mente era ancora a ciò che era successo in quel negozio e come se volesse torturarla le riproponeva in continuazione le scene salienti, una dopo l’altra.
Quando sua madre passò a raccogliere i piatti vuoti, il suo era ancora quasi del tutto pieno.
La donna si fermò al suo fianco e le accarezzò i capelli con sguardo apprensivo. «Tesoro…».
Avril non volle ascoltare un’altra parola, si alzò e corse nella camera che condivideva con la sorella prima di scoppiare a piangere di fronte a tutti.
Il suo fu un pianto liberatorio, che le alleggerì il petto, ma non la aiutò a scacciare tutte le preoccupazioni e le paure che aveva creduto di dimenticare una volta a casa, tornate a vivere dentro di lei più forti di prima.
Dopo un po’ di tempo qualcuno bussò alla porta, lei non rispose, ma sua madre entrò comunque. Si mise seduta al suo fianco, sul letto, e la guardò con un sorriso dolce sulle labbra, mentre si stringeva le gambe al petto e tirava su col naso.
«Perché sorridi?», le chiese la figlia, sorpresa da quanto quell’incurvamento di labbra potesse essere bello, tanto da sconvolgere, da far sentire meglio.
La madre posò una mano sulle sue e gliele strinse, avvicinandosi un po’ di più, in modo tale che potesse parlare a bassa voce. «Sai che cosa facevi sempre da bambina, quando le cose non andavano bene e piangevi?».
«Che cosa?».
«Ti nascondevi nell’armadio».

Darlin, you’re hiding in the closet once again
Start smiling

Avril rimase sorpresa da quell’affermazione, se fosse stato un altro momento probabilmente non le avrebbe creduto, ma dentro di sé sentì come una specie di… emozione, un ricordo tanto intenso da farle sentire il profumo dei vestiti appena lavati misto a quello del legno del vecchio armadio in camera dei suoi genitori e il cotone dei vestiti di sua madre che le solleticava il viso e che qualche volta usava per asciugarsi il viso dalle lacrime.
«La prima cosa che ho pensato quando ti sei alzata da tavola in quel modo è stata: “Adesso vado in camera, apro le ante dell’armadio e la vedo lì, proprio come quando era piccola”».
Avril incrociò lo sguardo e il sorriso tenero della madre e si appoggiò a lei per rifugiarsi in uno dei suoi abbracci.
La donna la strinse a sé, posando le labbra sul suo capo, e le massaggiò un braccio. Poi, sospirando, disse: «Ne vuoi parlare?».
«Mi piacerebbe», rispose con la sua voce ancora nasale.
«Ti ascolto…».
«È così difficile, seguire i propri sogni… Mi chiedo se alla fine ne valga veramente la pena. Fino ad adesso a New York non ho combinato un bel niente, io… forse non ce la faccio, pretendo troppo da me stessa, forse…».
«Tesoro, mi sorprendi», sorrise. «Quando ti sei trasferita a New York eri così positiva, volevi cambiare il mondo con la tua musica… Lo so che è difficile, che a volte sembra più semplice fuggire, ma… bisogna sempre guardare avanti, al futuro, perché il domani non mai è uguale a ieri. Non importa quanto sia stata dura andare avanti oggi, bisogna guardare al domani ed essere pieni di energie, perché sarà sicuramente diverso e le cose miglioreranno, prima o poi».

I know you’re trying real hard not to turn your head away
Pretty darling
Face tomorrow, tomorrow’s not yesterday…

«E se non ce la faccio? Se mi dimostro una vera fallita?».
La madre le prese il volto fra le mani e la guardò intensamente negli occhi. «Tu, una fallita? Posso sapere chi ti ha inculcato queste cose? Perché deve per forza essere stato qualcuno, tu non avresti mai detto una cosa del genere».
Avril abbassò il capo e tirò su col naso, poi mormorò: «Ti ricordi di Dennis?».
«Dennis? Certo che mi ricordo di lui… è stato lui a dirti che sei una fallita?».
«No… la sua nuova ragazza, la più smorfiosa della scuola. Non avrei mai immaginato che potesse… Lui non è felice con lei, eppure… ha preferito stare con lei, si è accontentato, piuttosto che aspettarmi. Forse dovrei accontentarmi anche io, dovrei vivere quello che ho adesso e non puntare troppo in alto…».
«Tesoro, non devi nemmeno dire queste cose! Lo so che è dura quando si ricevono delle delusioni dalle persone a cui vogliamo bene e che è difficile fare finta di niente; so anche cosa vuol dire quando ti sembra che nessuno abbia fiducia in te, ma… sappi che io, papà, Michelle e Matt crediamo in te e siamo certi che tu ce la farai».

Darlin, I was there, once a while ago
I know it’s hard to be stuck with people that you love
When nobody trusts

Avril, non ancora confortata da quelle parole, continuò ad osservare la trapunta sul suo letto e disse: «Quand’è che sei stata delusa te? Quand’è che nessuno aveva fiducia in te? Tu hai sempre avuto papà al tuo fianco, voi due… siete sempre stati felici».
«Oh, quanto ti sbagli…», ridacchiò. «Tesoro, siamo stati giovani anche noi e io ne ho passate tante quando avevo la tua età, so per esperienza quello che ti sto dicendo… E poi non si può essere sempre felici, anche con tuo padre vicino. Ma bisogna sempre andare avanti a testa alta e…».
«Sei mai stata sola come lo sono io?». Avril non riuscì a trattenere un singhiozzo, ma non ne fece un dramma e continuò: «A parte voi non ho praticamente nessuno, tutti i miei amici sono spariti da quando mi sono trasferita a New York, li ho persi per inseguire il mio sogno, persino Dennis. Mi sono gettata a capofitto nel mondo dei grandi, spinta dalla voglia di… di fare finalmente quello che amo di più al mondo, suonare e cantare, ma… ho perso tutti, sono… sola».
La madre sorrise comprensiva e le posò un bacio sulla tempia, stringendola un po’ di più a sé per far riversare sul suo petto le sue lacrime. La lasciò sfogare per un po’ e quando si calmò si appoggiò con la guancia alla sua testa e sussurrò: «Non sei l’unica che ci è passata, anche io sono stata sola come lo sei tu adesso, ma… voglio solo che tu sappia che non è colpa tua, non è colpa tua».

And you’re not the only one whose been through
I’ve been there alone and now so are you
I just want you to know, want you to know it’s not your fault, it’s not your fault

«Non è giusto mamma, non è giusto… Mamma…». Avril singhiozzò più forte, si lasciò completamente andare al pianto, e si aggrappò con le braccia al collo di sua madre, come faceva da bambina.
La donna provò a consolarla, fece di tutto, le cantò persino la sua ninna nanna, ma non riuscì a fare molto.
«Tesoro, per favore… basta piangere, asciugati le lacrime…».

Pretty please, I know it’s a drag,
Wipe your eyes and put up your head

Andò a finire che anche sua madre iniziò a piangere contro di lei, appoggiandosi alla sua spalla, sentendosi impotente di fronte al dolore della figlia.
Quando Avril se ne accorse, si fermò un attimo e la guardò scioccata. Non aveva mai visto sua madre piangere e anche se l’avesse vista prima, l’effetto sarebbe stato comunque sconvolgente: quella era la sua mamma, l’essere invincibile che era sempre pronta ad aiutarla, in qualsiasi momento e per qualsiasi cosa; quel suo lato debole non avrebbe dovuto nemmeno esserci, o almeno non di fronte a lei… In quel momento capì che lei e la sua mamma, mostrandosi così apertamente l’una all’altra, avevano appena aggiunto un altro anello, uno dei più importanti, alla catena indissolubile che le univa.
«Mamma… perché piangi?», le domandò a bassa voce, tornando ad abbracciarla con delicatezza, come se avesse paura di romperla.
«Vorrei che tu fossi felice, che ridessi invece di piangere, ma… non c’è nient’altro che posso fare oltre ad amarti più che posso».

Wish you could be happy instead
There’s nothing else I can do
But love you the best that I can…

Avril fu profondamente colpita da quelle parole e ancora non sapeva che se le sarebbe portate dietro per molti anni, che si sarebbe aggrappata ad esse quando le cose andavano male e si trovava a vivere situazioni difficili.
Ancora non sapeva che per il suo quarto album, l’ultimo dei suoi grandissimi successi, avrebbe scritto una canzone con le parole che la sua cara mamma le aveva rivolto per confortarla, facendo però molto ma molto più…


Le luci si fecero ancora più soffuse, un faro illuminò proprio lei quando gli altri componenti della band smisero di suonare e rimase da sola, seduta al centro del palco, con la sua chitarra acustica in grembo.
Avril alzò lo sguardo sull’immensa folla di fronte a sé e sorrise felice e commossa, cantando al microfono le ultime parole:
«
Darlin, you’re hiding in the closet once again. Start smiling».

   
 
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