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Autore: My Pride    04/04/2011    4 recensioni
«Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?»
«Quel che basta per capire cosa sta succedendo»
«Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo. Non hai nulla a che vedere con tutto questo»
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights'
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Under a bloody sky_1 Autore: My Pride
Titolo: Under a bloody sky
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long fic
Genere: Generale, Vagamente Introspettivo, Romantico (Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di romantico), Drammatico, Thriller, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Nota: Alcuni personaggi presenti in questa storia provengono da Na doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal
Avvertimenti: Probabilmente Non per stomaci delicati, Heterosexual, Slash, Femslash
Introduzione: «Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?» mi domandò con voce sottile e tagliente. Sembrava che ci fosse qualcosa che lo rendeva nervoso, dato il modo in cui mi si era rivolto.
Mi limitai semplicemente ad incrociare le braccia al petto. «Quel che basta per capire cosa sta succedendo», risposi con fare ovvio, vedendolo finalmente voltarsi verso di me. Il suo viso era una maschera marmorea, e la sua bocca era ritratta a scoprire le zanne candide e affilate.
«Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo», disse, per nulla cordiale. «Non hai nulla a che vedere con tutto questo».


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



ATTO I
INCONTRI INATTESI E INDAGINI IRRISOLTE

    Il picchiettare insistente delle gocce di pioggia contro i vetri stava facendo salire in me una sempre più crescente irritazione.
    Seduta al solito posto, in quella bettola che il proprietario si ostinava a chiamare bar nonostante fosse una tavola calda per trasandati, osservavo svogliatamente il poco paesaggio che si scorgeva oltre quell’ammasso incrostato di sudiciume che, nei bei tempi d’oro di quel locale, aveva portato il nome di finestra.
    Stringevo in una mano un Bloody Mary che non avrei mai bevuto, ma che Harry, il sopracitato possessore del posto, ci teneva sempre a portarmi per dare ad una buona fetta della clientela l’impressione che consumassi qualcosa, visto il tempo che sprecavo nello starmene lì. Avevo sempre odiato quel suo modo di fare, ma persino provare a minacciarlo come durante i tempi ormai andati era servito a ben poco. A quanto sembrava, difatti, non gli incutevo più lo stesso timore che gli avevo suscitato quasi un secolo prima.
    Oh, aye. Un secolo, esatto. Eravamo entrambi quello che, da tempi immemori, gli esseri umani chiamavano vampiro. Fra noi ci chiamavano in ben altro modo, ma tutte le lingue del mondo mortale non sarebbero riuscite a dare un giusto suono a quell’unica e determinata parola. Comunque sia, sebbene in confronto all’età che mi portavo sulle spalle Harry apparisse poco più d’un infante, aveva imparato in un tempo relativamente breve che ciò che più riusciva a divertirmi e ad eccitarmi, specialmente durante una caccia, era il terrore che provocavo nelle mie vittime e che sentivo nelle loro membra un attimo prima della fine.
    Spaventare lui aveva perso quel perverso fascino da quando si era dimostrato indifferente alle mie minacce e alle mie provocazioni. Quasi mi mancavano i tempi in cui era ancora un comune umano e il fatto che tremasse dinnanzi ad una donna. Nonostante l’aria menefreghista che sfoggiava adesso, difatti, quand’era in vita era sempre stato un vero e proprio cacasotto. Chi l’aveva reso uno di noi l’aveva scelto solo per il suo aspetto, visto che sembrava essere uscito da uno di quei vecchi film d’indiani e cowboy. Era alto e parecchio robusto, dagli zigomi e dalla mascella squadrata, con il naso aquilino e quel taglio all’orientale che faceva apparire i suoi occhi neri piccoli e rapaci. Spesso e volentieri, poi, si legava i capelli scuri in un basso codino o in due bizzarre trecce, tanto da dare quasi l’impressione d’essere davvero un sioux, un apache o comunque un esponente d’un’altra tribù nativa americana. Altre volte invece lasciava la sua chioma sciolta, esattamente come quella sera.
    Adocchiandolo appena, lo vidi intento a passare uno straccio sul bancone, anche se dalla scarsa concentrazione che gli vedevo dipinta in viso sembrava stesse solo occupando un po’ di tempo. Quella infatti era una serata fiacca, sia per gli affari che per il nutrimento. A causa della pioggia torrenziale non erano in molti quelli che si ritrovavano per strada, figurarsi quindi se, di punto in bianco, a qualcuno veniva la stramba idea di gettarsi in quel sudicio posto. Già per la poca clientela presente, Harry doveva ringraziare un qualunque Dio.
    Per quanto mi riguardava, invece, starsene lì seduta a battere bellamente la fiacca era una delle poche cose che mi piacevano oltre l’andare a caccia. Non avevo il minimo problema, quella notte: se avessi deciso di voler bere un goccio avrei anche potuto chiedere ad uno dei pochissimi camerieri che lavoravano in quel posto. Sarebbe bastato sfoggiare la mia cosiddetta grazia femminile, anche se il mio aspetto di femminile aveva davvero poco o niente, e loro mi avrebbero donato il loro sangue senza fare tante storie.
    Peccato che il più delle volte non mi bastasse. Siccome ero uno di quei vampiri ad aver quasi passato i settecento anni, spesso mi mancava quel sapore di sfida che si riversava nel sangue delle mie prede insieme alla paura. Non era raro, quindi, che mi ritrovassi a cacciare come si usava fare quando le creature come noi venivano braccate dai cacciatori. Tutt’oggi lo facevano, era vero, ed era proprio per questo che ci limitavamo ad una cerchia ristretta, così da mantenere il nostro segreto senza esporci ai pericoli che potevano insidiarsi in ogni dove. Ma come dicevano i mortali «Le vecchie abitudini sono dure a morire», e quello a quanto sembrava era esattamente il mio caso. Spesso non riuscivo a resistere al richiamo selvaggio della caccia e a ciò che il mondo del ventunesimo secolo poteva offrirmi.
    Fu in quel mentre che, ancora immersa nei miei pensieri, vidi l’aiutante di Harry sbucare dalla piccola cucina posta sul lato destro del locale. Il ragazzo appariva scapestrato come al solito e aveva il grembiule macchiato d’olio, forse vecchio anche di settimane. Sotto quel grembiule lercio si nascondeva un ventenne mingherlino con la fissa degli abiti hip hop, che lo facevano sembrare ancor più scarmigliato di quanto non apparisse normalmente.
    Sentii Harry richiamarlo ma non approfondii il discorso che seguì subito dopo, distogliendo lo sguardo per puntarlo nuovamente sul vetro ormai inesorabilmente appannato. Se fossi stata umana avrei scorto la mia immagine che mi fissava, ma vedevo solamente la patina bianca dell’umidità.
    Sbuffai appena e, dopo essermi passata le dita d’una mano fra i miei corti capelli chiari, cominciai a far vagare lo sguardo un po’ ovunque, ricevendo delle occhiate dalle poche ragazze presenti e anche da Matthew, uno dei clienti abituali di Harry. Era a sua volta un vampiro, ma a differenza di molti altri sembrava osservare tutto ciò che lo circondava come se fosse sempre in allerta, come se un angolo oscuro, per lui, anziché un rifugio significasse chissà quale trappola mortale. Mi stava fissando con lo sguardo fisso, in quel momento, con gli occhi quasi fuori dalle orbite che lo facevano somigliare ad un folle.
    Fui la prima a distogliere lo sguardo dal suo, sentendo uno strano senso d’inquietudine e di ribrezzo. Non mi era mai andato a genio, lo ammettevo.
    La serata continuò comunque fiacca fino all’una passata, orario in cui di solito cominciavano a farsi vivi i veri e propri clienti di Harry. Ma anche di loro non si vide nemmeno l’ombra, quella notte, tanto che mi ritrovai a gettare un’ennesima occhiata verso il bancone per cercare una qualche sorta di spiegazione nell’espressione che il viso di Harry aveva assunto. Sebbene stesse tranquillamente conversando con Tom, un altro dei suoi aiutanti - sulla quarantina, calvo e un po’ in sovrappeso -, e Jim, quell’aria di superficiale calma di cui si era rivestito tradiva ciò che realmente stava provando. Un senso d’inquietudine strisciava sotto la sua pelle, facendo fremere le sue membra e donando a tutta la sua persona un bizzarro stato d’allerta. Non avrebbe dovuto temere nulla, in teoria, ma c’era un qualcosa che si stava condensando con lentezza estenuante intorno a noi. E forse fu proprio quello a lasciare anche dentro di me l’opprimente sensazione che quella non fosse affatto una comune notte di pioggia. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse tenendo d’occhio, come se avessi degli sguardi puntati su di me. Il mio istinto aveva cominciato a mettermi in guardia, esattamente come succedeva quando s’avvicinava un pericolo o come quando l’alba era alle porte. Fu quindi con quella stessa attenzione che mi voltai svelta verso l’entrata quando sentii la porta della tavola calda aprirsi, osservando i movimenti di quel nuovo arrivato. Indossava un lungo impermeabile nero che gocciolava fiaccamente alla base, mentre il cappuccio che indossava gli copriva praticamente tutto il viso.
    Dirigendosi al bancone scambiò giusto qualche parola con Harry, chiedendo probabilmente scusa con il capo per l’aver interrotto la sua discussione con Tom e Jim, e vidi proprio quest’ultimo intromettersi per fare un rapido cenno verso di me.
    Sbattei le palpebre quando quello sconosciuto si voltò nella mia direzione, probabilmente frastornato, tornando poi a guardare gli altri tre per rivolgere loro un cenno di ringraziamento. Si avviò fra i tavoli, raggiungendo quello che stavo occupando io per sedersi tranquillamente dinanzi a me senza aspettare che io glielo consentissi.
    «Lewis Ride, giusto?» domandò incerto, sebbene la sua sembrasse semplicemente una costatazione. La sua voce era bassa e cortese, con un lieve accento del sud.
    Mi misi in guardia, scrutandolo con attenzione. «Dipende da chi lo sta cercando», replicai seccamente, vedendolo finalmente liberarsi del cappuccio. Il suo volto aveva dei lineamenti molto fini, quasi da donna, ma il resto del suo viso faceva ben intendere la sua appartenenza al genere maschile. Nonostante le lunghe ciglia che possedeva le sopracciglia erano folte e arcuate, e portava i capelli molto corti, ma non abbastanza per essere definito un marines.
    Mi rivolse appena l’ombra d’un sorriso prima di presentarsi. «Jackson Winchester», il tono acquisì una sfumatura calda e cordiale. «Le dirò la verità, mi aspettavo che lei fosse, beh...», si interruppe, quasi stesse cercando le parole adatte. Poi continuò, nuovamente sorridente. «Mi aspettavo che lei fosse un uomo».
    Chissà cosa ti ha tratto in inganno, ragazzo mio, mi ritrovai a pensare con fare sarcastico. Tra il mio aspetto e il mio nome, non mi stupivo affatto che chi non mi conosceva mi scambiasse per un uomo e non per la donna che ero. Ma ci si faceva l’abitudine, e spesso, data la mia condizione, era sempre meglio far credere di essere un maschio. Ero meno esposta, in quel modo.
    «Non sei il primo che me lo dice», gli risposi semplicemente, ammiccando. «Cosa vuoi da me?» soggiunsi, arrivando subito al sodo. E di questo lui se ne rese conto immediatamente, dato il modo in cui mi osservò e mi rispose.
    «Abbiamo un amico in comune, signorina Ride».
    A quel dire sollevai un sopracciglio, cominciando a squadrare quel ragazzo da capo a piedi: poteva avere sì e no venticinque anni, non gliene avrei dati né più né meno. Non era sicuramente un vampiro ma nemmeno un licantropo, e faticavo quindi a credere che facesse parte di quel nostro gruppo ristretto, dato che non aveva per niente un volto familiare.
    «E sentiamo, Jack - posso chiamarti Jack, vero? -, chi sarebbe questo nostro fantomatico amico in comune?» gli chiesi, per nulla gentile. Non era mai stato da me fingermi simpatica con degli estranei o persino con gli amici, nemmeno quand’ero ancora umana.
    Ma quel che mi sorprese fu il suo sorriso. «Dovrà restare ancora un po’ nell’anonimato, signorina Ride, mi spiace», mi rispose tranquillo. «Ciò di cui sono venuto a parlarle questa notte riguarda questo», aprì di poco l’impermeabile, cominciando a frugare all’interno prima di tirarne fuori una piccola cartellina plastificata che poggiò sul tavolino. Con due dita la fece scivolare verso di me, invitandomi ad aprirla con un cenno.
    Riluttante mi ritrovai ad obbedire, abbassando lo sguardo per osservare quell’unico foglio di carta presente - e ancora odorante d’inchiostro, tra l’altro - e quella miriade di fotografie. Scattate probabilmente su una scena del crimine, ritraevano in ordine sparso donne e uomini che, almeno ad un occhio esperto come il mio, erano morti a causa d’uno scarso quantitativo di sangue. In più punti, tra l’altro, la pelle appariva livida e violacea, come se in quel determinato punto si fosse addensato del sangue prima della morte. La ragione più probabile era da imputare a delle contusioni, forse provocate da un oggetto pesante e, forse, anche di forma ovale. Ciò che maggiormente risaltava all’occhio, comunque, erano i segni di morsi in prossimità di quei lividi e lo sternocleidomastoideo probabilmente lacerato da zanne.
    Alzai nuovamente lo sguardo per incontrare quello del ragazzo: i suoi occhi verdi sembravano scrutarmi con attenzione già da un bel po’ di tempo. «Sei della scientifica, per caso?» gli domandai di getto, ancor prima che il mio cervello potesse formulare quelle parole.
    Lui sorrise ancora, scuotendo leggermente il capo. «Non lo sono, ma ho i miei... mezzi di persuasione. Ed ho sfruttato questa mia piccola dote per recuperare questa documentazione fotografica», replicò semplicemente, agitando appena una mano per liquidare cortesemente quella faccenda. «Comunque sia, da quel che si evince in quelle foto, è stato qualcuno della vecchia scuola ad uccidere tutte quelle persone».
    «E cosa potrebbe mai importarmene?» ribattei immediatamente e con tono sprezzante, inculcando nel mio tono tutto il mio cinismo. «Sono per caso nella lista dei sospettati?»
    «Potrebbe esserlo, e non in quella della polizia», mi informò, senza abbandonare nemmeno per un attimo quella sua irritante maschera cordiale. «So bene chi è lei e dove va a caccia, signorina Ride, sebbene non sapessi che fosse una donna fino a questo momento», si fermò un attimo, per poi continuare con tono più basso. «E mi creda, non sono l’unico a conoscerla. Ed è proprio perché anche lei appartiene ai più anziani della vostra razza che i miei colleghi la tengono sott’occhio».
    Non del tutto convinta dalle sue parole, cercai di leggere nei suoi occhi chiari se mi stesse mentendo. «Se è come dici, perché mai sei venuto da me con tali informazioni?» gli chiesi ancora, forse nel tentativo di metterlo in difficoltà. «Chi ti dice che non sia stata realmente io ad uccidere quella gente?»
    Parve rifletterci, ma il sorriso sulle sue labbra non vacillò nemmeno per un attimo. «Se fosse stata lei sarei già morto, o forse sbaglio?» constatò, spiazzandomi e lasciandomi senza parole. Quel ragazzo probabilmente era più in gamba di quanto pensassi. «Sono venuto da lei proprio perché potrebbe esserci d’aiuto per individuare il vero colpevole», continuò, riscuotendomi. «Quindici persone è un numero un po’ troppo alto per soli tre giorni».
    Scossi il capo. «Ragazzo, ti rendi conto della stronzata che stai dicendo?» sbottai, lasciando da parte l’etichetta delle buone maniere e osservandolo con attenzione. «Io non posso aiutare né te né altri, e tutto per un semplice motivo», invece di spiegarlo a parole, aprii di poco la bocca e feci fare capolino dalle mie labbra le zanne a scopo dimostrativo.
    Lui le guardò con un po’ di timore, ma confermò la sua fermezza e s’evitò di deglutire. Voleva fare il duro, a quanto sembrava, e con questo guadagnò mio malgrado un punto. «Non la prenda come la richiesta d’un mortale che cerca d’aiutare altri mortali, signorina Ride», fece infine con fermezza. «La consideri più che altro... una specie di sfida».
Non capendo, diventai maggiormente scettica. «Una sfida?» ripetei, vedendolo semplicemente annuire.
    «Una sfida, esatto», confermò. «C’è qualcuno, là fuori, che si diverte ad ammazzare la gente. Così facendo rischia d’esporre anche voi... voi che cercate in tutti i modi di passare inosservati il più possibile. Quindi non crede che salvaguarderebbe anche i suoi confratelli, se ci aiutasse?»
    Sembrava fermamente convinto di ciò che diceva, e non lo rendeva palese solo ed unicamente il suo tono di voce: la sua espressione, la sua postura, persino il modo in cui aveva poggiato le mani sul tavolo indicavano che credeva nelle sue parole come se esse rappresentassero un’antica fede.
    Scossi nuovamente la testa, quasi incredula. «Proverò a scoprire qualcosa», rimbrottai, vedendo il suo viso illuminarsi d’un sorriso. «Ma non ti assicuro niente, ragazzo».
    Lui abbassò lo sguardo, accompagnandolo con un cortese cenno del capo. «La ringrazio della collaborazione, signorina Ride», disse, tornando cordiale come in principio. «Devo confessarle che temevo una sua risposta negativa, specialmente dopo le poche parole scambiate poco fa con i suoi compagni».
    A quel dire sbuffai. Passare troppo tempo con gli esseri umani mi stava rammollendo. Mi stava rammollendo o stava facendo finalmente sorgere il mio lato femminile, una delle due. «Non ringraziarmi, non ho nemmeno detto che l’avrei fatto gratis».
    Quel ragazzo alzò immediatamente il viso e finalmente la sua espressione cambiò, divenendo sorpresa. «Vorrebbe essere pagata?»
    «Non si fa mai niente per niente», ribattei con semplicità, godendo di quell’aria persa che gli si era dipinta in volto. «Decideremo il compenso a lavoro compiuto... che ne pensi?»
    Sbatté le palpebre, ancora sconvolto. «Ma io... ecco, non...» si prese un po’ di tempo, come se stesse cercando le parole adatte. «Non vorrei risultare scortese, signorina Ride, ma cosa se ne fa del denaro?»
    Il modo in cui lo disse mi fece scoppiare in una sonora risata, tanto che richiamai su di me l’attenzione di Harry, rimasto solo da chissà quanto, e di quelle poche anime ancora presenti in quella tavola calda.
    Guardai il ragazzo, sorridendogli e avendo al contempo l’accortezza di non scoprire nuovamente le zanne. «Sono un tipo vizioso e anche un po’ avaro, Jackie», gli risposi, pronunciando il suo nome con troppa enfasi. «Le cose materiali mi conquistano più di quanto si creda in giro, e vado letteralmente pazza per cose frivole come i gioielli, anche se prediligo i libri. Non dico di no neanche ai piaceri della carne, se devo essere sincera. In fondo, in quanto vampiro, non dovrei essere una creatura che, per natura, ammalia e affascina?»
    Stavolta lo vidi distintamente deglutire, prima che allungasse con circospezione una mano per recuperare la cartellina. «Ne discuterò con i miei superiori, allora», volle semplicemente dire, come se stesse cercando di chiudere in fretta quel discorso. «Se riusciremo a risolvere tutta questa faccenda avrà il suo compenso. Parola d’onore», e detto ciò s’alzò in piedi, riponendo la sua documentazione all’interno dell’impermeabile. Richiuse poi quest’ultimo, rivolgendomi un cenno di saluto prima di coprirsi nuovamente il viso con il cappuccio. Fu però con una strana apprensione che s’allontanò, salutando anche Harry con il medesimo cenno prima d’imboccare la porta e sparire nuovamente all’esterno.
    Dal bancone sentii una risata, vedendo lo stesso Harry con un sorriso beffardo dipinto sulle labbra sottili. «Cos’hai detto a quel poveraccio?» mi domandò divertito. «Sembrava avere il Diavolo alle calcagna, mentre usciva».
    Scrollai semplicemente le spalle, alzandomi a mia volta per avvicinarmi a lui. «Le solite quattro cazzate», ribattei sarcastica, rifilandogli un centone che sfilai dalla tasca dei jeans. «Per il Bloody Mary», soggiunsi, ignorando la sua occhiataccia.
    «Non l’hai mica consumato», mi tenne presente, strappandomi un sorrisino ilare che mi fece apparire più femminile, glielo vidi negli occhi.
    «Vorrà dire che sarà per la prossima volta, Harry», replicai semplicemente, soffiandogli un bacio prima d’avviarmi verso l’uscita mentre lo salutavo con una mano.
    «Guarda che ci conto, Lewis», lo sentii dire prima che uscissi, riconoscendo la sfumatura sarcastica con cui enfatizzò sul mio nome. In realtà quello era solo il mio secondo pseudonimo, pseudonimo che usavo già da due o trecento anni.
    Quand’ero ancora in vita, da bambina, ero stata cresciuta con la credenza che se qualcuno, specialmente se si trattava di un nemico, conosceva il tuo vero nome, poteva poi rivendicare grazie ai poteri occulti il controllo della tua persona. Erano stati i miei nonni e i miei genitori - entrambi appartenenti ad una tribù nomade e sorretta da vecchie tradizioni - ad inculcarmi quel credo secoli addietro, e anche dopo la mia trasformazione non ero riuscita a liberarmi di quella convinzione. Avevo quindi abbandonato il mio vero nome il giorno stesso in cui ero rinata, lasciando che durante quegl’anni fossi conosciuta come Samantha, affettuosamente chiamata Sam da quei pochissimi amici che avevo. Solo quando dopo i miei vagabondaggi ero arrivata nella vecchia St. Louis avevo deciso di adottare il nome che portavo tutt’oggi. Era spesso simbolo di fraintendimenti ma, ehi, a me poco importava. Non cercavo un compagno come la maggior parte delle vampire presenti in città né tanto meno ne volevo uno, sebbene qualche volta non mi mostrassi per nulla indifferente alle loro attenzioni. Ma da qui ad accoppiarmi con uno di loro e mettere su famiglia ne correva davvero molta di acqua sotto i ponti. Amavo la mia vita scapestrata, la libertà che mi ero guadagnata con tanta fatica e il mio modo di fare.
    A quei pensieri, scossi immediatamente il capo, alzando lo sguardo verso quel cielo scuro e nuvoloso. Non pioveva più a dirotto, ma una lieve pioggerellina persisteva ancora e rendeva l’aria abbastanza umida. Forse era soltanto una mia impressione, però qualcosa mi dava la certezza che quella sera così bizzarra sarebbe stata soltanto la prima di tante altre.



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