Flâneurie
Appena mise il piede sull'ultimo gradino una
folata di aria calda le mozzò il respiro. Quell'aria opprimente, soffocante,
tipica dei sotterranei della metropolitana. Era un odore poco piacevole quello
che aleggiava lì, dove le persone si accalcavano per prendere il mezzo
pubblico, lì dove il ricircolo dell'aria era dato solo da bocchette
artificiali; ma ormai il suo naso aveva fatto l'abitudine e non si storceva più
da un bel pezzo.
A quell'ora della sera, però, non c'era più quella
calca di uomini e donne impazziti e drogati dal tempo che scorreva troppo
velocemente per i gusti di tutti; a quell'ora della sera c'erano poche decine
di persone, le ultime che rientravano da una lunga giornata di lavoro e che non
vedevano l'ora di sedersi a tavola per un bel piatto sostanzioso. Anche lei
stava tornando da una giornata sfiancante, ma non perché avesse lavorato troppo
per i suoi standard, anzi. Non aveva lavorato per niente. Erano giorni interi
in cui verteva in quello stato catatonico, in cui continuava ad osservare il
monitor del suo pc con la speranza di trarne qualche
ispirazione, lì, al dodicesimo piano di un grattacielo vetrato. Mancavano solo
due misere settimane alla scadenza mensile con cui doveva presentare i suoi
lavori e ancora non aveva in mano niente, il nulla più assoluto.
Raccontare storie, di qualsiasi genere, le era
sempre venuto spontaneo, una dote che aveva acquisito sin da bambina, quando
trotterellava accanto al nonno per i boschi vicino alla sua casa in campagna.
Lui parlava sempre di antiche leggende o di favole inventate sul momento,
perché era un grande cantastorie; e lei era ben felice di condire quei racconti
fantastici con la sua fervida immaginazione, che delle volte vagava anche più
velocemente di quella dell'uomo.
Era così che all'età di diciannove anni aveva
preso la decisione di iscriversi all'Accademia Giornalistica, dove aveva
frequentato i corsi più interessanti, tra cui la fotografia, una delle sue più
grandi passioni. Aveva una passione morbosa per le foto, per quegli scatti che
immortalavano momenti unici e che raccontavano molto più di un libro. Amava le
fotografie in bianco e nero, con contrasti molto forti; amava quelle
inquadrature inusuali, che le permettevano di vedere il mondo da un'altra
prospettiva. E amava terribilmente le vecchie macchine fotografiche, quelle con
il rullino, che a parer suo scattavano immagini anche più belle di quelle
digitali; adorava il suono dell'otturatore quando scattava, adorava regolare la
macchina per mettere a fuoco l'inquadratura, adorava trattenere il respiro
qualche secondo prima dello scatto, per evitare al meglio le vibrazioni.
Era in quel modo che raccontava le sue storie,
attraverso le fotografie e attraverso la scrittura. Aveva iniziato con il
giornalino universitario, dove scriveva in una piccola rubrica settimanale; poi
un docente aveva notato la sua dote, aveva compreso la passione che si celava
dietro quelle parole e dietro quelle immagini mai casuali, e le aveva dato la
possibilità della sua vita: lavorare per una rivista mensile ben avviata nel
mercato. Come poteva rifiutare un'offerta simile? All'inizio era stata dura:
era giovane, doveva finire di laurearsi e molto spesso si era trovata a portare
il caffè ai suoi colleghi o a fare fotocopie. Ma aveva stretto i denti, perché
sapeva che tutti loro erano passati per quella gavetta infernale prima di avere
anche loro una scrivania lì.
Nel giro di pochi anni si era ritrovata a dirigere
una rubrica tutta sua, che aveva chiamato Moments de vie, momenti di vita. Girava spesso per le strade affollate o
meno, per i parchi e per i musei, catturando piccoli istanti che per lei erano
significativi e su cui ricamava storie a non finire.
Ma nell'ultimo periodo della sua vita, un periodo
nero da cui non vedeva via di uscita, si era accorta che non riusciva più a
sfornare idee come una volta. Da quando quello stesso nonno che le aveva
regalato quella passione se n'era andato, anche una parte della sua anima
l'aveva lasciata per raggiungerlo, ovunque fosse. Le mancava terribilmente e
non la costante presenza dei suoi genitori, che tentavano di farla distrarre
preparando cene in casa, né la sua cerchia di amicizie fidate, che volevano a
tutti i costi farla maritare con una sfilza di uomini improbabili, riuscivano a
tirarle su il morale. La frustrazione, poi, di non avere più idee per la testa
le faceva cadere ogni tipo di voglia. Non aveva mai passato un periodo così
lungo e buio, e aveva sempre sperato di non viverlo mai. Eppure era arrivato e
non sapeva come uscirne.
Ora, lì in attesa del prossimo metrò che l'avrebbe
riportata a casa, fissava senza interesse le persone che le si fermavano
accanto: uomini in ventiquattrore, giacca e cravatta allentata, donne con le
buste della spesa, ragazzini che avevano fatto un po' troppo tardi per tornare a
casa ma che evidentemente non se ne curavano troppo, ridendo e scherzando. La
vita trascorreva intorno a lei, ma non riusciva a catturare niente.
Il metrò arrivò due minuti più tardi. Le porte si
aprirono all'unisono e poche persone scesero a quella fermata. Lei e pochi
altri presero posto nei tanti sedili liberi a loro disposizione e, prima che le
porte venissero chiuse, un'ultima persona salì a bordo. Si trascinava dietro la
custodia di una chitarra, che aprì non appena si sedette, a cinque posti di distanza
da lei.
Osservò l'uomo senza vederlo realmente, ma
qualcosa scattò nella sua testa. Indossava una felpa grigia con la zip aperta,
sotto la quale si vedeva una camicia scozzese rossa, i jeans erano un po'
stracciati ma puliti e ai piedi calzava degli scarponi neri. Iniziò a suonare
pochi istanti dopo in cui il mezzo si era messo in movimento e lei chiuse gli
occhi, stanca. Doveva sorbirsi dieci fermate prima di scendere per tornare a
casa e un po' di musica non le avrebbe fatto sicuramente male. Riconobbe
immediatamente gli accordi di Don't cross
the river, e tornò sveglia immediatamente. Gli
America, il suo gruppo preferito.
Si voltò a guardarlo con più attenzione: aveva gli
occhiali da sole, il capo, coperto da un berretto bianco e blu, leggermente chino
per osservare le sue dita muoversi tra le corde della chitarra, anche se era
convinta che non ne avesse bisogno, dato che suonava molto bene. Aveva messo un
bicchiere per terra, nella speranza che qualche anima benevola gli gettasse
qualche soldo in elemosina; solo una vecchia signora, colpita dalla sua musica,
si era avvicinata e gli aveva buttato una manciata di monete, e lui l'aveva ringraziata
con un cenno del capo e un mezzo sorriso.
Aveva una bella voce, infine. Niente a che vedere
con quella fine dei cantanti originali della band, ma una voce profonda,
virile, a tratti roca, di uno che aveva fumato per tanto, troppo tempo e aveva
smesso da poco per chissà quale motivo. Probabilmente non aveva un lavoro
sicuro affinché potesse permettersi lussi come quello di un pacchetto di
sigarette al giorno, né un pasto caldo a pranzo e a cena, e riponeva le sue
speranze in una metropolitana poco affollata che non aveva niente da dargli.
Oppure lo aveva perso, il lavoro? Non sembrava uno scapestrato che non aveva
voglia di guadagnarsi il pane come tutti, né un poveraccio che verteva in
quelle condizioni di elemosina da anni, anzi. Era fin troppo pulito e
fisicamente in forma.
Sbarrò gli occhi appena si accorse di aver ripreso
a fantasticare su qualcuno. Possibile che quello sconosciuto le avesse fatto
tornare la voglia di raccontare storie semplicemente ascoltando la sua musica e
osservandolo attentamente?
L'uomo si sentì sotto esame e sollevò lo sguardo
alla sua destra, incontrando quello della donna proprio quando stava
concludendo la seconda canzone dell'esecuzione, Lonely People. Si mise ritto sulla schiena, togliendosi gli occhiali da
sole, mentre lei si avvicinava di tre posti, mantenendo una certa distanza, ma
mostrandosi interessata.
Aveva gli occhi verdi, notò lei.
Rimasero a guardarsi per qualche istante, in
silenzio. Poi fu lei a parlare, frugando nella sua immensa borsa nera alla
ricerca di chissà che cosa. «Un'ottima performance, complimenti.»
Quello corrugò la fronte, inclinando il capo,
incuriosito. «Grazie.» La guardò mentre toglieva fuori una vecchia reflex
biotica della Yashica, di quelle che non si vedevano in giro da almeno
vent'anni. «Bel gioiellino, quello.»
«Grazie, era di mio nonno.» disse, osservando con
affetto quel caro oggetto che aveva rimesso a nuovo con cura. «Posso farle un
paio di foto, per favore?»
Lo scetticismo dell'uomo si fece ancora più
evidente. Poi lanciò uno sguardo al bicchiere in terra. «Se lo riempie
adeguatamente potrei anche accettare l'offerta.»
Ma lei aveva già fatto ciò che lui aveva suggerito.
Aveva preso alcune banconote e gliele aveva messe nel taschino della camicia,
in modo che fossero al sicuro da mani indiscrete, e si era seduta qualche
sedile più avanti, di fronte a lui. Questo scosse il capo, sorridendo mestamente,
si riabbassò gli occhiali sul naso e riprese a suonare. Sister Golden Hair.
L'adorato suono dell'otturatore che scattava la
fece sentire meglio, come sempre. Le era mancato infinitamente. Nel frattempo
le porte del metrò si erano aperte e richiuse, e un altro signore aveva gettato
qualche spicciolo nel bicchiere. L'uomo aveva ringraziato mestamente, ancora
una volta.
Lei si era avvicinata di nuovo, dopo aver
immortalato una decina di foto, e rimase ad ascoltarlo finché la canzone
terminò. Aveva del talento, non poteva negarlo.
«Perché lo ha fatto?» le chiese, poggiando le
braccia sul suo strumento musicale.
«Cosa?»
«Pagarmi per delle foto.»
Si strinse nelle spalle, accarezzando
distrattamente la macchina fotografica. «Per lavoro. Lei perché lo fa?»
Quello fece una smorfia rassegnata. «Perché io un
lavoro non lo ho.» disse, togliendosi occhiali e cappellino. Aveva i capelli
neri. Occhi verdi e capelli neri, che scompigliò con una mano. «Non più,
almeno.»
«Le va di parlarne?»
«Fa parte anche questo del suo lavoro?»
Lei accusò il colpo chinando il capo e mordendosi
l'interno della guancia sinistra. Non voleva offenderlo in alcun modo, ma doveva
sapere di più sul suo conto, almeno per vedere se avesse azzeccato le sue
ipotesi. «Se le va possiamo parlare davanti ad una buona tazza di tè. O a cena,
visto che è quasi ora di mangiare.»
«Non ho niente da dirle.» rispose, allargando le
braccia. «Cosa vuole sentirsi raccontare? Che mi hanno licenziato perché
l'azienda non ha più soldi? Che ho divorziato da poco e che non so come
riprendere in mano la mia vita?»
Aveva immaginato che ci fosse una storia simile
dietro quell'uomo. L'idea di aver indovinato un minimo l'elettrizzò, ma si
diede mentalmente della stupida per aver esultato della cosa. Quello che stava
vivendo era orribile e improvvisamente si sentì in colpa e in pena per lui.
Anche lei era in crisi con il lavoro e non le era mai capitato di vedere così
nero; ma la sola idea di perdere il lavoro l'avrebbe mandata nello sconforto
più totale. Capiva perfettamente, quindi, come potesse sentirsi quell'uomo. «Mi
dispiace, davvero.»
«Oh, ne dubito, ma grazie ugualmente.» fece
seccato quello, riponendo la chitarra nella custodia. Stava per arrivare la sua
fermata. Si alzò, avvicinandosi alla porta scorrevole e sostenendosi su una
sbarra verticale.
Anche lei fece ugualmente e continuò a guardarlo
anche quando quello si inforcò nuovamente gli occhiali e si accinse a scendere.
«Spero che quelle foto le portino fortuna.» le
disse, e la salutò con un cenno del capo, prima di andarsene. Lei socchiuse le
labbra per rispondere ma non fece in tempo, perché le porte si erano già
chiuse. Lo vide voltarsi e ricambiare il suo sguardo finché il metrò non sparì
nel buio della galleria.
"[...]
È
un luogo comune, comunissimo starsene seduti in metropolitana e osservare le
persone che ti stanno intorno. Chi non ha mai fantasticato sulla signora
imbellettata e ben vestita, dallo sguardo altero e superbo, così stonata con
l'età che ha? Probabilmente sta andando a teatro con le sue amiche attempate e,
pur di dimostrare di essere una persona giovane dentro, si ostina ad indossare
lucenti scarpe con il tacco, cappotti in lana lunghi fino alle ginocchia, un
trucco pesante sugli occhi e sulle labbra rugose e un'acconciatura da giorno di
matrimonio.
Oppure
sull'uomo d'affari, in giacca e cravatta, con l'auricolare del telefono
cellulare all'orecchio, che controlla ogni due minuti l'orologio, sperando che
il tempo si fermi per un istante? Lo attende la moglie con i figli a casa, e la
cena si starà raffreddando. Probabilmente avrà fatto tardi per una riunione
dell'ultimo momento... oppure perché si stava intrattenendo con l'amante? E che
scusa toglierà fuori quando guarderà negli occhi la donna che ha sposato?
O
infine sulla ragazzina ribelle, dai capelli tinti, carica di piercing al labbro
e alle orecchie, con l'iPod sparato a tutto volume di
musica punk udibile anche dall'altra parte del comparto? Le relazioni con i
suoi genitori sono delle più burrascose ed è arrabbiata con tutto e tutti,
perché non capiscono le sue esigenze, i suoi desideri.
È
un luogo comune, certo, ma cosa succede quando incontri qualcuno credendo di
sapere tutto di lui solo osservandolo e scoprire che la verità che si nasconde
dietro è più triste di quanto si possa immaginare?
Chi
è l'uomo che ogni sera suona la sua vecchia chitarra acustica seduto in un
angolo, in attesa di un'elemosina? Può essere chiunque: un uomo che non ha
voglia di lavorare e che spera di guadagnare qualche soldo per la birra e le
sigarette così, strimpellando due note.
Ma
no, quell'uomo è troppo ben distinto per essere un poveraccio. Probabilmente è
solo uno che ama la musica e vuole condividerla con gli altri, approfittandone
per arrotondarsi lo stipendio per soddisfare qualche sfizio.
Eppure,
dietro quegli occhiali da sole si nasconde uno sguardo triste, una vita di
sofferenze che è impossibile raccontare senza avere una stretta al cuore. Quegli
occhi verdi che mi hanno guardata con infelicità e le poche parole che mi ha
rivolto sono bastati a farmi desistere: non
ho più un lavoro.
Cosa
c'è di peggiore per un uomo perdere uno dei motivi principali di vita? Per
l'uomo il lavoro è tutto: è fonte di orgoglio, oltre che di sostentamento. Un
lavoro è più di un modo per guadagnarsi da vivere, per molti: un lavoro
permette di soddisfare le tue passioni, di portare a casa soddisfazioni e
delusioni, ma continuerai ad amarlo nel bene e nel male, perché è quello che ti
fa alzare la mattina presto, ogni giorno, sacrificandoti, spesso e volentieri.
E
quando lo perdi è come perdere una parte di se stessi, è come perdere la
propria dignità. Devi avere tanto, molto coraggio e forza di volontà per non
perdere anche la testa.
Spero che quelle foto le portino fortuna, mi ha detto l'uomo. Io spero vivamente che almeno
la sua musica lo porti a salire una scala più alta di quella in cui è
precipitato.
E
continuo ad ascoltare un vecchio disco degli America, gli stessi che stava suonando lì, sulla linea rossa, tra le otto e le
otto e mezza."
Restituì il giornale ad un signore che, dopo
averlo riconosciuto, gentilmente gli aveva fatto leggere l'articolo e mostrato
le belle fotografie in bianco e nero che quella donna gli aveva scattato. Lo
ringraziò molto per la cortesia e sorrise quando quello gli lasciò una lauta
mancia. Da quando quell'articolo era uscito sulla rivista - poco più di una
settimana - aveva notato che le persone lo osservavano con più interesse, così
come aveva notato un graduale incremento delle sue entrate. Le persone lo
riconoscevano, incredibilmente, gli rivolgevano un saluto e i migliori auguri
di buona fortuna, sperando che potesse risollevarsi presto da quel brutto
momento.
Era una sensazione strana essere circondato da
perfetti estranei che entravano nella sua vita per pochi minuti, ma che
parevano comprenderlo pienamente. Persino la sua ex moglie con i suoi
bellissimi gemelli era andato a trovarlo il giorno prima per sincerarsi delle
sue condizioni e dargli una mano, nonostante il loro passato burrascoso. Gli
aveva addirittura trovato un lavoro in un ristorante, sgridandolo parecchie
volte per non averle detto niente di quella sua brutta situazione.
Oh, se solo avesse potuto ringraziare a dovere
quella strana donna che lo aveva lasciato perplesso e persino infastidito!
Si guardò intorno, sistemandosi le mani in tasca,
libere da chitarre varie. Quella sera aveva deciso di indossare una giacca
marrone e un paio di jeans neri, aveva tolto il berretto e gli occhiali da sole
e si era spruzzato un po' di dopobarba.
Non si erano più rivisti da quel giorno. Lei aveva
preso poche volte quella linea a quell'ora, perché aveva finalmente ritrovato
la sua vena artistica. Eppure, anche se lui non se n'era accorto, qualche sera
lei era lì, gli occhiali da sole vintage dalla vistosa montatura bianca calati
sul viso e la coda alta, quasi in incognito, ad ascoltarlo e a bearsi della sua
voce e della sua musica. Rimaneva incantata ogni volta nel seguire il movimento
fluido e sicuro di quelle dita sulle corde della chitarra.
Quando s'incontrarono nuovamente, dopo un mese,
sulla stessa linea, alla stessa ora e sul medesimo scompartimento, si sorrisero
entrambi. Lui si avvicinò ma rimase in piedi, di fronte a lei, seduta.
«L'invito di cenare insieme è ancora valido?» le
chiese, i suoi occhi verdi ora ridenti e più sollevati. «Offro io. Ho ritrovato
la mia dignità.»
Il cuore di lei perse un battito. Era stato il suo
articolo a fargli trovare lavoro? Sorrise ampiamente, felice. «Ma certo, sempre
valido. E no... non faccio così con tutti.»
Lui soppesò quelle parole, piegando il capo incuriosito.
«Lusingato, signorina Rebecca Taylor.»
«Lei conosce il mio nome, vedo, ma io non conosco
il suo. Non crede che dovrebbe ricambiare il favore?» gli disse la fotografa,
incrociando le braccia.
Lui le porse una mano. «David Morris, piacere di
conoscerla.»
Rebecca ricambiò il gesto, rabbrividendo. Quella
voce era musica per le sue orecchie. «Dove mi porta, dunque?»
Quello ci pensò un po' su. «Non è l'unica che
riesce a comprendere il prossimo solo osservandolo. Guardandola ho capito molte
cose su di lei, quindi agirò di conseguenza.»
«Per esempio?»
«Ha una morbosa passione per tutto ciò che è più
vecchio di trent'anni fa. Ha un'aria molto anni Sessanta, per certi aspetti,
mentre per altri mi pare che sia rimasta ferma agli Ottanta. C'è un locale in
centro che rispecchia un po' questi periodi. Ho pensato di portarla lì,
sperando che basti a ringraziarla almeno un minimo.»
«Giudicherò
a fine serata.»
Quando le porte si aprirono alla loro fermata,
David le porse nuovamente la mano per aiutarla ad alzarsi. Il metrò partì pochi
secondi dopo e loro erano già spariti, immersi in una discussione varia che
sarebbe durata fino a tardi, quando si sarebbero salutati davanti a casa di
lei, scambiandosi il numero di telefono e promettendosi di rivedersi, ancora
una volta.
Spazio dell'autrice:
Flâneurie: termine francese introdotto
da Charles Baudelaire per indicare il momento in cui si vaga per la città per viverla
appieno, per osservare tutto ciò che ci circonda.
Non so come mi sia venuta in mente questa one shot, ma è nata tra ieri sera
e questo pomeriggio, indi per cui eccola qui! Fatemi sapere che ne pensate se
volete! ;)