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Autore: kenjina    10/04/2011    1 recensioni
Il metrò arrivò due minuti più tardi. Le porte si aprirono all'unisono e poche persone scesero a quella fermata. Lei e pochi altri presero posto nei tanti sedili liberi a loro disposizione e, prima che le porte venissero chiuse, un'ultima persona salì a bordo. Si trascinava dietro la custodia di una chitarra, che aprì non appena si sedette, a cinque posti di distanza da lei.
[...]
«Perché lo ha fatto?» le chiese, poggiando le braccia sul suo strumento musicale.
«Cosa?»
«Pagarmi per delle foto.»
Si strinse nelle spalle, accarezzando distrattamente la macchina fotografica. «Per lavoro. Lei perché lo fa?»
Quello fece una smorfia rassegnata. «Perché io un lavoro non lo ho.» disse, togliendosi occhiali e cappellino. Aveva i capelli neri. Occhi verdi e capelli neri, che scompigliò con una mano. «Non più, almeno.»
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lei fotografa, in crisi

Flâneurie

 

Appena mise il piede sull'ultimo gradino una folata di aria calda le mozzò il respiro. Quell'aria opprimente, soffocante, tipica dei sotterranei della metropolitana. Era un odore poco piacevole quello che aleggiava lì, dove le persone si accalcavano per prendere il mezzo pubblico, lì dove il ricircolo dell'aria era dato solo da bocchette artificiali; ma ormai il suo naso aveva fatto l'abitudine e non si storceva più da un bel pezzo.

A quell'ora della sera, però, non c'era più quella calca di uomini e donne impazziti e drogati dal tempo che scorreva troppo velocemente per i gusti di tutti; a quell'ora della sera c'erano poche decine di persone, le ultime che rientravano da una lunga giornata di lavoro e che non vedevano l'ora di sedersi a tavola per un bel piatto sostanzioso. Anche lei stava tornando da una giornata sfiancante, ma non perché avesse lavorato troppo per i suoi standard, anzi. Non aveva lavorato per niente. Erano giorni interi in cui verteva in quello stato catatonico, in cui continuava ad osservare il monitor del suo pc con la speranza di trarne qualche ispirazione, lì, al dodicesimo piano di un grattacielo vetrato. Mancavano solo due misere settimane alla scadenza mensile con cui doveva presentare i suoi lavori e ancora non aveva in mano niente, il nulla più assoluto.

Raccontare storie, di qualsiasi genere, le era sempre venuto spontaneo, una dote che aveva acquisito sin da bambina, quando trotterellava accanto al nonno per i boschi vicino alla sua casa in campagna. Lui parlava sempre di antiche leggende o di favole inventate sul momento, perché era un grande cantastorie; e lei era ben felice di condire quei racconti fantastici con la sua fervida immaginazione, che delle volte vagava anche più velocemente di quella dell'uomo.

Era così che all'età di diciannove anni aveva preso la decisione di iscriversi all'Accademia Giornalistica, dove aveva frequentato i corsi più interessanti, tra cui la fotografia, una delle sue più grandi passioni. Aveva una passione morbosa per le foto, per quegli scatti che immortalavano momenti unici e che raccontavano molto più di un libro. Amava le fotografie in bianco e nero, con contrasti molto forti; amava quelle inquadrature inusuali, che le permettevano di vedere il mondo da un'altra prospettiva. E amava terribilmente le vecchie macchine fotografiche, quelle con il rullino, che a parer suo scattavano immagini anche più belle di quelle digitali; adorava il suono dell'otturatore quando scattava, adorava regolare la macchina per mettere a fuoco l'inquadratura, adorava trattenere il respiro qualche secondo prima dello scatto, per evitare al meglio le vibrazioni.

Era in quel modo che raccontava le sue storie, attraverso le fotografie e attraverso la scrittura. Aveva iniziato con il giornalino universitario, dove scriveva in una piccola rubrica settimanale; poi un docente aveva notato la sua dote, aveva compreso la passione che si celava dietro quelle parole e dietro quelle immagini mai casuali, e le aveva dato la possibilità della sua vita: lavorare per una rivista mensile ben avviata nel mercato. Come poteva rifiutare un'offerta simile? All'inizio era stata dura: era giovane, doveva finire di laurearsi e molto spesso si era trovata a portare il caffè ai suoi colleghi o a fare fotocopie. Ma aveva stretto i denti, perché sapeva che tutti loro erano passati per quella gavetta infernale prima di avere anche loro una scrivania lì.

Nel giro di pochi anni si era ritrovata a dirigere una rubrica tutta sua, che aveva chiamato Moments de vie, momenti di vita. Girava spesso per le strade affollate o meno, per i parchi e per i musei, catturando piccoli istanti che per lei erano significativi e su cui ricamava storie a non finire.

Ma nell'ultimo periodo della sua vita, un periodo nero da cui non vedeva via di uscita, si era accorta che non riusciva più a sfornare idee come una volta. Da quando quello stesso nonno che le aveva regalato quella passione se n'era andato, anche una parte della sua anima l'aveva lasciata per raggiungerlo, ovunque fosse. Le mancava terribilmente e non la costante presenza dei suoi genitori, che tentavano di farla distrarre preparando cene in casa, né la sua cerchia di amicizie fidate, che volevano a tutti i costi farla maritare con una sfilza di uomini improbabili, riuscivano a tirarle su il morale. La frustrazione, poi, di non avere più idee per la testa le faceva cadere ogni tipo di voglia. Non aveva mai passato un periodo così lungo e buio, e aveva sempre sperato di non viverlo mai. Eppure era arrivato e non sapeva come uscirne.

Ora, lì in attesa del prossimo metrò che l'avrebbe riportata a casa, fissava senza interesse le persone che le si fermavano accanto: uomini in ventiquattrore, giacca e cravatta allentata, donne con le buste della spesa, ragazzini che avevano fatto un po' troppo tardi per tornare a casa ma che evidentemente non se ne curavano troppo, ridendo e scherzando. La vita trascorreva intorno a lei, ma non riusciva a catturare niente.

Il metrò arrivò due minuti più tardi. Le porte si aprirono all'unisono e poche persone scesero a quella fermata. Lei e pochi altri presero posto nei tanti sedili liberi a loro disposizione e, prima che le porte venissero chiuse, un'ultima persona salì a bordo. Si trascinava dietro la custodia di una chitarra, che aprì non appena si sedette, a cinque posti di distanza da lei.

Osservò l'uomo senza vederlo realmente, ma qualcosa scattò nella sua testa. Indossava una felpa grigia con la zip aperta, sotto la quale si vedeva una camicia scozzese rossa, i jeans erano un po' stracciati ma puliti e ai piedi calzava degli scarponi neri. Iniziò a suonare pochi istanti dopo in cui il mezzo si era messo in movimento e lei chiuse gli occhi, stanca. Doveva sorbirsi dieci fermate prima di scendere per tornare a casa e un po' di musica non le avrebbe fatto sicuramente male. Riconobbe immediatamente gli accordi di Don't cross the river, e tornò sveglia immediatamente. Gli America, il suo gruppo preferito.

Si voltò a guardarlo con più attenzione: aveva gli occhiali da sole, il capo, coperto da un berretto bianco e blu, leggermente chino per osservare le sue dita muoversi tra le corde della chitarra, anche se era convinta che non ne avesse bisogno, dato che suonava molto bene. Aveva messo un bicchiere per terra, nella speranza che qualche anima benevola gli gettasse qualche soldo in elemosina; solo una vecchia signora, colpita dalla sua musica, si era avvicinata e gli aveva buttato una manciata di monete, e lui l'aveva ringraziata con un cenno del capo e un mezzo sorriso.

Aveva una bella voce, infine. Niente a che vedere con quella fine dei cantanti originali della band, ma una voce profonda, virile, a tratti roca, di uno che aveva fumato per tanto, troppo tempo e aveva smesso da poco per chissà quale motivo. Probabilmente non aveva un lavoro sicuro affinché potesse permettersi lussi come quello di un pacchetto di sigarette al giorno, né un pasto caldo a pranzo e a cena, e riponeva le sue speranze in una metropolitana poco affollata che non aveva niente da dargli. Oppure lo aveva perso, il lavoro? Non sembrava uno scapestrato che non aveva voglia di guadagnarsi il pane come tutti, né un poveraccio che verteva in quelle condizioni di elemosina da anni, anzi. Era fin troppo pulito e fisicamente in forma.

Sbarrò gli occhi appena si accorse di aver ripreso a fantasticare su qualcuno. Possibile che quello sconosciuto le avesse fatto tornare la voglia di raccontare storie semplicemente ascoltando la sua musica e osservandolo attentamente?

L'uomo si sentì sotto esame e sollevò lo sguardo alla sua destra, incontrando quello della donna proprio quando stava concludendo la seconda canzone dell'esecuzione, Lonely People. Si mise ritto sulla schiena, togliendosi gli occhiali da sole, mentre lei si avvicinava di tre posti, mantenendo una certa distanza, ma mostrandosi interessata.

Aveva gli occhi verdi, notò lei.

Rimasero a guardarsi per qualche istante, in silenzio. Poi fu lei a parlare, frugando nella sua immensa borsa nera alla ricerca di chissà che cosa. «Un'ottima performance, complimenti.»

Quello corrugò la fronte, inclinando il capo, incuriosito. «Grazie.» La guardò mentre toglieva fuori una vecchia reflex biotica della Yashica, di quelle che non si vedevano in giro da almeno vent'anni. «Bel gioiellino, quello.»

«Grazie, era di mio nonno.» disse, osservando con affetto quel caro oggetto che aveva rimesso a nuovo con cura. «Posso farle un paio di foto, per favore?»

Lo scetticismo dell'uomo si fece ancora più evidente. Poi lanciò uno sguardo al bicchiere in terra. «Se lo riempie adeguatamente potrei anche accettare l'offerta.»

Ma lei aveva già fatto ciò che lui aveva suggerito. Aveva preso alcune banconote e gliele aveva messe nel taschino della camicia, in modo che fossero al sicuro da mani indiscrete, e si era seduta qualche sedile più avanti, di fronte a lui. Questo scosse il capo, sorridendo mestamente, si riabbassò gli occhiali sul naso e riprese a suonare. Sister Golden Hair.

L'adorato suono dell'otturatore che scattava la fece sentire meglio, come sempre. Le era mancato infinitamente. Nel frattempo le porte del metrò si erano aperte e richiuse, e un altro signore aveva gettato qualche spicciolo nel bicchiere. L'uomo aveva ringraziato mestamente, ancora una volta.

Lei si era avvicinata di nuovo, dopo aver immortalato una decina di foto, e rimase ad ascoltarlo finché la canzone terminò. Aveva del talento, non poteva negarlo.

«Perché lo ha fatto?» le chiese, poggiando le braccia sul suo strumento musicale.

«Cosa?»         

«Pagarmi per delle foto.»

Si strinse nelle spalle, accarezzando distrattamente la macchina fotografica. «Per lavoro. Lei perché lo fa?»

Quello fece una smorfia rassegnata. «Perché io un lavoro non lo ho.» disse, togliendosi occhiali e cappellino. Aveva i capelli neri. Occhi verdi e capelli neri, che scompigliò con una mano. «Non più, almeno.»

«Le va di parlarne?»

«Fa parte anche questo del suo lavoro?»

Lei accusò il colpo chinando il capo e mordendosi l'interno della guancia sinistra. Non voleva offenderlo in alcun modo, ma doveva sapere di più sul suo conto, almeno per vedere se avesse azzeccato le sue ipotesi. «Se le va possiamo parlare davanti ad una buona tazza di tè. O a cena, visto che è quasi ora di mangiare.»

«Non ho niente da dirle.» rispose, allargando le braccia. «Cosa vuole sentirsi raccontare? Che mi hanno licenziato perché l'azienda non ha più soldi? Che ho divorziato da poco e che non so come riprendere in mano la mia vita?»

Aveva immaginato che ci fosse una storia simile dietro quell'uomo. L'idea di aver indovinato un minimo l'elettrizzò, ma si diede mentalmente della stupida per aver esultato della cosa. Quello che stava vivendo era orribile e improvvisamente si sentì in colpa e in pena per lui. Anche lei era in crisi con il lavoro e non le era mai capitato di vedere così nero; ma la sola idea di perdere il lavoro l'avrebbe mandata nello sconforto più totale. Capiva perfettamente, quindi, come potesse sentirsi quell'uomo. «Mi dispiace, davvero.»

«Oh, ne dubito, ma grazie ugualmente.» fece seccato quello, riponendo la chitarra nella custodia. Stava per arrivare la sua fermata. Si alzò, avvicinandosi alla porta scorrevole e sostenendosi su una sbarra verticale.

Anche lei fece ugualmente e continuò a guardarlo anche quando quello si inforcò nuovamente gli occhiali e si accinse a scendere.

«Spero che quelle foto le portino fortuna.» le disse, e la salutò con un cenno del capo, prima di andarsene. Lei socchiuse le labbra per rispondere ma non fece in tempo, perché le porte si erano già chiuse. Lo vide voltarsi e ricambiare il suo sguardo finché il metrò non sparì nel buio della galleria.

 

"[...]

È un luogo comune, comunissimo starsene seduti in metropolitana e osservare le persone che ti stanno intorno. Chi non ha mai fantasticato sulla signora imbellettata e ben vestita, dallo sguardo altero e superbo, così stonata con l'età che ha? Probabilmente sta andando a teatro con le sue amiche attempate e, pur di dimostrare di essere una persona giovane dentro, si ostina ad indossare lucenti scarpe con il tacco, cappotti in lana lunghi fino alle ginocchia, un trucco pesante sugli occhi e sulle labbra rugose e un'acconciatura da giorno di matrimonio.

Oppure sull'uomo d'affari, in giacca e cravatta, con l'auricolare del telefono cellulare all'orecchio, che controlla ogni due minuti l'orologio, sperando che il tempo si fermi per un istante? Lo attende la moglie con i figli a casa, e la cena si starà raffreddando. Probabilmente avrà fatto tardi per una riunione dell'ultimo momento... oppure perché si stava intrattenendo con l'amante? E che scusa toglierà fuori quando guarderà negli occhi la donna che ha sposato?

O infine sulla ragazzina ribelle, dai capelli tinti, carica di piercing al labbro e alle orecchie, con l'iPod sparato a tutto volume di musica punk udibile anche dall'altra parte del comparto? Le relazioni con i suoi genitori sono delle più burrascose ed è arrabbiata con tutto e tutti, perché non capiscono le sue esigenze, i suoi desideri.

È un luogo comune, certo, ma cosa succede quando incontri qualcuno credendo di sapere tutto di lui solo osservandolo e scoprire che la verità che si nasconde dietro è più triste di quanto si possa immaginare?

Chi è l'uomo che ogni sera suona la sua vecchia chitarra acustica seduto in un angolo, in attesa di un'elemosina? Può essere chiunque: un uomo che non ha voglia di lavorare e che spera di guadagnare qualche soldo per la birra e le sigarette così, strimpellando due note.

Ma no, quell'uomo è troppo ben distinto per essere un poveraccio. Probabilmente è solo uno che ama la musica e vuole condividerla con gli altri, approfittandone per arrotondarsi lo stipendio per soddisfare qualche sfizio.

Eppure, dietro quegli occhiali da sole si nasconde uno sguardo triste, una vita di sofferenze che è impossibile raccontare senza avere una stretta al cuore. Quegli occhi verdi che mi hanno guardata con infelicità e le poche parole che mi ha rivolto sono bastati a  farmi desistere: non ho più un lavoro.

Cosa c'è di peggiore per un uomo perdere uno dei motivi principali di vita? Per l'uomo il lavoro è tutto: è fonte di orgoglio, oltre che di sostentamento. Un lavoro è più di un modo per guadagnarsi da vivere, per molti: un lavoro permette di soddisfare le tue passioni, di portare a casa soddisfazioni e delusioni, ma continuerai ad amarlo nel bene e nel male, perché è quello che ti fa alzare la mattina presto, ogni giorno, sacrificandoti, spesso e volentieri.

E quando lo perdi è come perdere una parte di se stessi, è come perdere la propria dignità. Devi avere tanto, molto coraggio e forza di volontà per non perdere anche la testa.

Spero che quelle foto le portino fortuna, mi ha detto l'uomo. Io spero vivamente che almeno la sua musica lo porti a salire una scala più alta di quella in cui è precipitato.

E continuo ad ascoltare un vecchio disco degli America, gli stessi che stava suonando lì, sulla linea rossa, tra le otto e le otto e mezza."

 

Restituì il giornale ad un signore che, dopo averlo riconosciuto, gentilmente gli aveva fatto leggere l'articolo e mostrato le belle fotografie in bianco e nero che quella donna gli aveva scattato. Lo ringraziò molto per la cortesia e sorrise quando quello gli lasciò una lauta mancia. Da quando quell'articolo era uscito sulla rivista - poco più di una settimana - aveva notato che le persone lo osservavano con più interesse, così come aveva notato un graduale incremento delle sue entrate. Le persone lo riconoscevano, incredibilmente, gli rivolgevano un saluto e i migliori auguri di buona fortuna, sperando che potesse risollevarsi presto da quel brutto momento.

Era una sensazione strana essere circondato da perfetti estranei che entravano nella sua vita per pochi minuti, ma che parevano comprenderlo pienamente. Persino la sua ex moglie con i suoi bellissimi gemelli era andato a trovarlo il giorno prima per sincerarsi delle sue condizioni e dargli una mano, nonostante il loro passato burrascoso. Gli aveva addirittura trovato un lavoro in un ristorante, sgridandolo parecchie volte per non averle detto niente di quella sua brutta situazione.

Oh, se solo avesse potuto ringraziare a dovere quella strana donna che lo aveva lasciato perplesso e persino infastidito!

Si guardò intorno, sistemandosi le mani in tasca, libere da chitarre varie. Quella sera aveva deciso di indossare una giacca marrone e un paio di jeans neri, aveva tolto il berretto e gli occhiali da sole e si era spruzzato un po' di dopobarba.

Non si erano più rivisti da quel giorno. Lei aveva preso poche volte quella linea a quell'ora, perché aveva finalmente ritrovato la sua vena artistica. Eppure, anche se lui non se n'era accorto, qualche sera lei era lì, gli occhiali da sole vintage dalla vistosa montatura bianca calati sul viso e la coda alta, quasi in incognito, ad ascoltarlo e a bearsi della sua voce e della sua musica. Rimaneva incantata ogni volta nel seguire il movimento fluido e sicuro di quelle dita sulle corde della chitarra.

Quando s'incontrarono nuovamente, dopo un mese, sulla stessa linea, alla stessa ora e sul medesimo scompartimento, si sorrisero entrambi. Lui si avvicinò ma rimase in piedi, di fronte a lei, seduta.

«L'invito di cenare insieme è ancora valido?» le chiese, i suoi occhi verdi ora ridenti e più sollevati. «Offro io. Ho ritrovato la mia dignità.»

Il cuore di lei perse un battito. Era stato il suo articolo a fargli trovare lavoro? Sorrise ampiamente, felice. «Ma certo, sempre valido. E no... non faccio così con tutti.»

Lui soppesò quelle parole, piegando il capo incuriosito. «Lusingato, signorina Rebecca Taylor.»

«Lei conosce il mio nome, vedo, ma io non conosco il suo. Non crede che dovrebbe ricambiare il favore?» gli disse la fotografa, incrociando le braccia.

Lui le porse una mano. «David Morris, piacere di conoscerla.»

Rebecca ricambiò il gesto, rabbrividendo. Quella voce era musica per le sue orecchie. «Dove mi porta, dunque?»

Quello ci pensò un po' su. «Non è l'unica che riesce a comprendere il prossimo solo osservandolo. Guardandola ho capito molte cose su di lei, quindi agirò di conseguenza.»

«Per esempio?»

«Ha una morbosa passione per tutto ciò che è più vecchio di trent'anni fa. Ha un'aria molto anni Sessanta, per certi aspetti, mentre per altri mi pare che sia rimasta ferma agli Ottanta. C'è un locale in centro che rispecchia un po' questi periodi. Ho pensato di portarla lì, sperando che basti a ringraziarla almeno un minimo.»

 «Giudicherò a fine serata.»

Quando le porte si aprirono alla loro fermata, David le porse nuovamente la mano per aiutarla ad alzarsi. Il metrò partì pochi secondi dopo e loro erano già spariti, immersi in una discussione varia che sarebbe durata fino a tardi, quando si sarebbero salutati davanti a casa di lei, scambiandosi il numero di telefono e promettendosi di rivedersi, ancora una volta.

 

 

 

 

 

Spazio dell'autrice:

Flâneurie: termine francese introdotto da Charles Baudelaire per indicare il momento in cui si vaga per la città per viverla appieno, per osservare tutto ciò che ci circonda.

Non so come mi sia venuta in mente questa one shot, ma è nata tra ieri sera e questo pomeriggio, indi per cui eccola qui! Fatemi sapere che ne pensate se volete! ;)

   
 
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