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Autore: Ramiza    12/04/2011    8 recensioni
Qualcosa che accadde dopo il bacio dato da Alessandro a Bagoa. I pensieri di Efestione, le sue paure, ma soprattutto i pensieri e le paure di Alessandro, quelle che lo resero così divino e così umano nello stesso tempo. Il titolo è tratto da una meravigliosa canzone di Vecchioni. La storia nasce da una brevissima riflessione che troverete nella nota conclusiva.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alessandro il Grande, Efestione
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il tramonto era pieno di soldati ubriachi di futuro
fra i dadi le bestemmie e il sogno di un letto più sicuro;
ma quando lui usciva dalla tenda non osavano
nemmeno guardare:
sapevano che c'era la sua ombra sola davanti al mare.
Poi l'alba era tutta un fumo di cavalli,
gridi e risate nuove;
dove si va, passato il Gange,
Generale, parla, dicci solo dove

 

 

Efestione guardò Alessandro baciare Bagoa e avvertì qualcosa spezzarglisi dentro.

Improvvisamente capì con chi il suo re avesse trascorso tutte quelle notti in cui erano stati distanti.

Vide Rossane alzarsi e allontanarsi velocemente dalla stanza e, per la prima volta da quando lei e Alessandro si erano sposati, non provò invidia o gelosia nei suoi confronti, ma solo e semplicemente compassione.

Capì, improvvisamente, che non era solo con la sua frenata ambizione, con la sua sete di conoscenza e di dominio, con la sua infinita propensione verso l'ignoto, che stava dividendo il proprio signore. Alessandro si divideva tra troppe cose. Alessandro era un dio, e come tutti gli dei, si donava e si lasciava adorare: era nella sua natura, era ciò che lo avrebbe reso un mito.

Ma di quel mito, Efestione, non sapeva che farsene.

Aveva contribuito a crearlo.

Aveva spinto Alessandro sempre più in alto, fino ai vertici del mondo e della storia.

Aveva condiviso ogni suo sogno e ne aveva fatto un sogno proprio.

Ma di ciò che gli altri volevano, del dio umano che camminava tra loro, dell'eroe forgiatore del destino, non sapeva che farsene.

Avrebbe voluto alzarsi e andarsene come aveva fatto lei. Ma lui non era una donna. A lui non era permesso mostrare questa fragilità.

Rimase e applaudì. Si ubriacò per sentire il dolore più lieve.

Finita la serata, poi, poté finalmente ritirarsi nelle proprie stanze e si coricò, mentre le sue orecchie ascoltavano immaginari mugolii di piacere provenire dalle stanze del re.

Il giorno seguente, e in quelli che vennero dopo, Efestione tentò di comportarsi con naturalezza e disinvoltura. Tentò, semplicemente, di dimenticare, convincendo se stesso che l'amore di un tempo era finito e che nella vita di Alessandro non ci fosse posto per lui. Non quel posto che avrebbe voluto.

 

Una sera, tuttavia, Alessandro entrò nella stanza di Efestione.

Rimasero a lungo a fissarsi, a studiarsi, a tentare di capirsi. In silenzio.

“Cosa c'è che non va, Efestione?” chiese il re.

“Va tutto come deve andare” rispose con indifferenza.

“Stai mentendo”, una voce calda e intensa.

“Sbagli – rispose – non è nella mia natura mentirti”, una voce fredda, distante.

“Perché allora mi eviti e sfuggi il mio sguardo? Perché non parli durante le riunioni dei generali? Perché sei così distante?” chiese.

“Sono nel posto che mi compete, Alessandro. Il solo che posso avere. Abbasso lo sguardo di fronte a quello del mio re. Ascolto le sue parole e taccio. Ti tributo la deferenza che ti devo” disse.

Gli occhi di Alessandro si colmarono d'ira.

“Mi stai punendo per qualcosa che ho fatto, Efestione? Mi accusi senza dirmene le ragioni” gridò.

“Non ti accuso di nulla, né voglio punirti. Non spettano a me simili compiti. Ti venero come sempre, come si venera un dio” sussurrò con altrettanta rabbia.

Alessandro gli si fece più vicino.

“Mi veneri? Non è la tua venerazione che voglio” disse.

“È ciò che vuoi da tutti. Ciò che vuoi anche da me. Ora torna nelle tue stanze e lasciami solo” rispose freddamente.

“Mi stai dando un ordine, Efestione? Non è così che ci comporta con un dio, non è così che si mostra la propria venerazione” disse senza riflettere, come accecato dal dolore che stava provando.

Efestione rimase immobile per un istante.

“Uscirò da questa stanza quando lo desidererò e tu farai ogni cosa che ti ordino di fare” disse ancora.

“Hai ragione, mio signore - sussurrò allora il generale, poi piegò le sue ginocchia a terra – eccomi dunque prostrato come uno schiavo, pronto a obbedire a ogni cosa che mi chiederai”.

Alessandro lo guardò. Inginocchiato a terra, mentre pronunciava parola da prigioniero, Efestione gli parve un dio: bello come nessuno che avesse mai veduto, nobile come il più potente dei re, delicato e forte nel medesimo tempo.

Si inginocchiò accanto a lui e

“Perdonami – supplicò – perdona questo folle arrogante, reso debole dalla rabbia e dal dolore di vederti lontano. Perdona le mie parole, Efestione”.

“Non dovresti chiedere perdono, mio re” rispose.

“Non è il tuo re che ti chiede perdono. È Alessandro, la sola cosa che voglio essere per te. Oh, Efestione, perdonami ti prego” balbettò.

Il generale allora sorrise, riconoscendo in Alessandro quei consueti scatti d'ira che lo caratterizzavano.

Si alzò e gli porse la mano.

“Va' a dormire, Alessandro”.

“Non nella mia stanza. È con te che voglio restare” rispose.

“Stanotte. Stanotte vuoi restare con me, ma io non posso restare con te per una notte sola” ribatté con dolcezza.

“Non per una notte sola. Non ho mai detto questo, perché lo pensi?” chiese tremante.

“Perché il re dei re ha troppe cose a cui pensare per potermi concedere più di questo. Troppe cose che ama, troppi desideri, troppi sogni”.

“Ogni cosa che ho ti appartiene, Efestione. Ogni desiderio, ogni sogno” rispose.

“Ma non i tuoi amori, Alessandro, quelli sono soltanto tuoi, e io non posso lasciarmi accecare dalla gelosia come farebbe una donna. Non posso rischiare di odiarti, di provare rabbia nei tuoi confronti. Non posso, Alessandro” disse, mentre una parte di sé si odiava per le parole che stava pronunciando.

“Non ho altri amori al di fuori di te - rispose, questa volta con più sicurezza, con più forza – quale delle mie azioni ti ha portato a credere il contrario? Cosa fa nascere in te questa gelosia?”.

“Oh Alessandro! - esclamò intenerito – talvolta sembri davvero un dio, tal'altra è come se tu fossi il più ingenuo dei bambini. Sei il più grande degli uomini. Sei divino come lo è il sole e illumini ogni cosa che ti sta intorno. Ma io non sono altro che un uomo, Alessandro. Ho sentimenti umani, desideri umani. Desidero la gloria, il potere, la vittoria come tu li desideri, ma cerco anche tenerezza e affetto. Cerco sicurezza, amore. Sogno di tornare a quando eravamo due ragazzi e pareva che nulla avrebbe potuto dividerci. Sogno, come sogna una donna. Hai davvero bisogno di un generale come me?”.

“Io non sono nulla senza di te. Efestione, Efestione! Niente nella mia vita ha importanza se non posso dividerlo con te” rispose al limite del pianto Alessandro il Grande, colui che aveva conquistato città, inventato strade dove strade non esistevano, colui che aveva cambiato il mondo conosciuto ed era entrato di prepotenza nella leggenda.

Efestione sospirò.

“Dovrei lasciarti andare come tu dovresti lasciare andare me”.

“No, no! Perdonami se ti ho ferito, se non ti ho dato quella tenerezza e quell'affetto, ma non pensare mai più una cosa simile – gridò ormai piangendo– non farlo! Non andartene! Non abbandonarmi”, cercò le mani di Efestione, le afferrò, le strinse. A chi lo avesse veduto in quel momento, il signore del mondo sarebbe parso un bambino spaventato.

Così parve ad Efestione ed egli lo amò d'un amore profondo come la vita, enorme come il cammino che avevano percorso, possente come le montagne che avevano veduto

“Calmati, Alessandro, calmati. Non saprei andare lontano da te neppure se lo volessi davvero. Perdona le cose che ho detto, sono qua, con te” rispose accarezzandogli dolcemente i capelli.

Alessandro lo abbracciò con forza, come se avesse paura di vederlo scivolare via, inesorabilmente, lontano.

“Lasciami restare, Efestione, lasciami restare ti prego” supplicò.

Il generale lo guardò. Mentre lo abbracciava a sua volta, rise tra sé del folle pensiero che aveva formulato in quei giorni, rise della propria gelosia e delle proprie paure, davvero simili a quelle di una donna. Tutto gli parve improvvisamente sciocco e lontano, come le grida d'una battaglia che non gli appartenevano. Ne rise con gioia, con felicità, consapevole, in quel momento, che niente avrebbe mai potuto portare Alessandro lontano da lui: né gli uomini, né gli dei, né il destino.

Consapevole, infine, che per quante cose Alessandro potesse desiderare o amare, niente avrebbe mai potuto essere importante quanto loro, poiché loro, insieme, erano ciò che dava un senso al tutto.

 

Diogene avrebbe scritto, in una lettera, che Alessandro si lasciava comandare solo dalle cosce di Efestione. Alessandro avrebbe detto che era molto più di questo. Che quello era il solo luogo in cui poteva dire di sentirsi felice.

 

E mentre si voltava indietro
non aveva niente da vedere;
e mentre si guardava avanti
niente da voler sapere;
ma il tempo di tutta una vita
non valeva quel solo momento:
Alessandro, così grande fuori, così piccolo dentro.

(R. Vecchioni, Alessandro e il mare)

 


Nota conclusiva.

Alessandro è uno dei pochissimi uomini a essere entrati nel mito così com'era. Non si sono costruite leggende su di lui, lui stesso è diventato leggenda. Non avrebbe potuto divertarlo senza Efestione, qualunque fosse, nella realtà storica, il rapporto che li legava. Non avrebbe potuto diventarlo senza quell'amore.

Una persona sognava di essere come lui: non aveva capito che è soprattutto in quell'amore che risiede la grandezza di Alessandro.

 



  
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