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Autore: Ulissae    13/04/2011    7 recensioni
[Piccola long di due capitoli che tratterà la vita e la trasformazione di Marcus]
Pensai alla mia vita, man mano che la vedevo allontanarsi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Volturi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'enciclopedica visione dei Volturi'
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Sproloqui di una folle che ha deciso di cimentarsi in una folle impresa: vi ho fatto aspettare praticamente un mese per il secondo capitolo dell'Enciclopedica e caso ha voluto che anche la Meyer, l'altro ieri, abbia pubblicato la sua guida al mondo di Twilight -dove ha sparato tante, ma tante boiate!
Probabilmente d'ora in avanti, essendo le sue coglionate messe nero su bianco, tutto ciò che ho scritto sarà un What if...? o un AU, perché si discosta dalla trama di quella mente bacata. Ma whocares? Sinceramente non io ;)
Aveva lasciato del sano nella sua storia, farò finta che non abbia scritto niente e passerò oltre -Dante docet.
Dopo 'sto triste trafiletto, passiamo a noi! Marcus, il nostro amato Marcus. Credo sia il personaggio che ha più consensi dalla sua parte. Non c'è team che regga, lui è amato.
Io non so sinceramente che sentimento provo verso di lui, diciamo... affetto, su. 
Ambientata nell'antica Roma, tra il 17 a.C. e il 37-40 d.C.  Il titolo riprende le numerose opere latine e in italiano (di Boccaccio e di Petrarca).
Mentre leggete, ascoltate le rapsodie ungheresi di Liszt, io non ho potuto scrivere la storia senza :3
Le spiegazioni saranno fatte alla fine :D

De viro illustre


Marcus l'aveva conosciuto per caso, mentre sedeva in un angolo in un caffé letterario; quel ragazzo l'aveva attratto sin dal primo istante, con i suoi capelli lunghi e trasandati e quegli occhi sognanti affondati in un massiccio libro.

Ora stavano in silenzio dentro la macchina del vampiro, ascoltando entrambi distratti la radio che trasmetteva musica classica.
Il giovane, dalla pelle scura e dai lineamenti un poco esotici, osservava intorno a sé, piuttosto stupito, l'interno della macchina. Non era nuova, lo si notava dalla targa, ma era così perfettamente linda e pulita al suo interno da farla sembrare tale. Solitamente ogni macchina ha un odore particolare o un piccolo segno che la contraddistingue -lo specchietto un po' troppo voltato, un oggetto ai piedi del sedile- invece questa era innaturalmente intonsa.
Non parlarono a lungo, ascoltando le note di Lizt. L'espressione di Marcus non variava neanche di un millimetro, rimanendo talmente imperturbata che più volte il ragazzo si voltò e trasalì per lo spavento.
Aveva accettato l'offerta di fargli da modello perché gli era parso un uomo affascinante e tale era, solo che in quel primo istante non era riuscito a cogliere appieno il perché lo fosse. Ora l'aveva capito: era inquietante a tal punto da risultare attraente.
Arrivarono a Volterra in poco tempo, più o meno un'ora. Era già buio e il giovane non si accorse della strada che percorse; avevano lasciato la macchina all'inizio di una stradina buia e stretta, si avventurarono e a lui parve piuttosto normale che quell'uomo abitasse in un posto del genere. Sembrava come se non potesse esistere altro posto al mondo adatto a lui. Infilando una chiave lunga nella toppa di una pesante serratura la fece scattare ed entrò.
Subito venne investito da un intenso odore di fiori, tanto che per un attimo credette di essere in una chiesa e istintivamente indietreggiò. Marcus si voltò un attimo e sorrise flebilmente, sussurrando: «vieni, seguimi».
Forzando il suo stesso corpo il ragazzo lo seguì e si iniziarono ad addentrare in corridoi oscuri, con alle pareti quadri e arazzi in un caos di estetica e bellezza che lo intimorì; ogni pochi passi erano presenti mobili pregiati sui quali erano posati vasi colmi di fiori multicolore.
Non c'era un'anima e la casa sembrava una reggia, tanto pareva infinita. Superarono innumerevoli stanze, dalle quali non provenivano rumori di nessun genere, e le loro porte sembravano serrate da secoli, chiuse. Immaginò cosa tale uomo potesse chiuderci dentro e non poté non avere un tremendo sospetto. Era forse un assassino?
Proprio mentre formulava tali pensieri lui si voltò e nuovamente gli sorrise in un modo calmo e posato. Tale gesto sembrò acquietarlo, finché non giunsero davanti a una porta isolata, che si situava in un angolo dell'abitazione.
La porta si aprì con un semplice tocco e al suono di un click le luci nella stanza si accesero, mostrando quattro pareti completamente ricoperte di figure umane. I dipinti sembravano appartenere a più epoche, uomini di ogni etnia sembravano racchiusi su quei muri, ognuno di loro completamente intento in un'attività. Assorbiti ognuno in se stesso, parevano non curarsi di chi li guardava. All'eccezione di queste decorazioni, tanto minuziose e precise, c'erano solo un baule, un tavolaccio e due sedie: una era uno sgabello al quale era attaccato un liso pezzo di stoffa color porpora sbiadito, l'altro era una sedia semplice, ma dai magnifici intarsi di legno.
«Accomodati pure» disse Marcus, indicandogliela e avvicinandosi al baule. Lo aprì sempre mantenendo il silenzio nella stanza e ne estrasse delle piccole polverine. Le posò sul tavolo e tranquillamente iniziò a impastare i colori.
«Mi chiamo Tommaso» il ragazzo se ne uscì senza rendersene conto, spalancando subito gli occhi e guardando stralunato Marcus. Questi sorrise e annuì, gentilmente: «io sono Marcus, hai fatto bene a presentarti».
Quel silenzio l'aveva sopraffatto e non era riuscito a mantenerlo, si morse un labbro e si lasciò cadere sulla sedia, rivestita di pelle, che gli parve estremamente morbida.
«Devo spogliarmi, mettermi in qualche posizione strana?» domandò curioso, mentre osservava la sua schiena china e lui intento a pasticciare con quei pigmenti dai colori forti.
«Come ti senti più a tuo agio» gli rispose sempre di spalle, spalmando alcuni colori su una tavolozza e avvicinando il vecchio sgabello a l'unico punto della parete che sembrava abbastanza vuoto da permettere di dipingere ancora.
Le pareti erano piene, stracolme, ma quella stanza dava solo l'impressione di essere un luogo di volti e occhi morti, freddi, che non si curavano di niente se non del loro piccolo spazio di muro.
Il ragazzo seguì il suo consiglio e si mise più comodo tra i braccioli della sedia, iniziando a far vagare lo sguardo verso l'alto. A loro volta anche gli affreschi sembravano essere rilassati, nelle più disparate posizioni.
«Allora, da quanto dipingete?» chiese curioso.
Marcus voltò un secondo la testa e gli sorrise, mesto, poi rispose: «da un po', ora, però, ti pregherei di stare fermo, Tommaso. Cerca qualcosa di interessante da fissare e fermati».
Imbarazzato, come sentendosi ripreso da una persona molto più adulta di lui, si immobilizzò, decidendo che lui stesso sarebbe stato ciò che avrebbe intrattenuto il suo tempo da bella statuina.
«Come mai avete iniziato a dipingere?» le labbra si mossero appena.
Marcus aveva iniziato a tracciare i contorni della figura con un tratto di carboncino leggero, lo guardò un attimo e poi rispose in un soffio: «vuoi che ti racconti una storia? Tutti loro l'hanno ascoltata. Vuoi che la racconti anche a te?» il tono sommesso gli donava l'impressione di essere come un padre.
Tommaso lo fissò e poi annuì, curioso: «che storia è?»
Marcus tese le labbra in un sorriso sardonico, poi, ritornando con gli occhi scuri e neri sulla tela iniziò a narrare.
«Sono nato nel 17 a.C. Da una famiglia del rango equestre, la cui posizione nel senato le faceva onore da più di un secolo. Ero il secondo di cinque fratelli e quando nacqui, mi raccontò Livio, mio fratello maggiore, il cielo notturno si illuminò come se Apollo fosse passato con il suo carro. Augusto, il buon principe, aveva regalato al suo popolo i ludi che esso tanto amava, e come ripeté mia madre per tutta la sua vita: “ero nato sotto l'amorevole sguardo di Giunone”.
Sono stato un bambino dall'infanzia felice, sempre pronto a stringermi al petto di mia madre o di una delle tante balie che ci accudiva. Sono nato a Roma e là passai la maggior parte, se non tutta la mia vita mortale».
Il ragazzo trasalì e si strinse alla poltrona; l'aria della stanza sembrava essersi raffreddata e nonostante le parole di Marcus sembrassero una dolce poesia, il loro significato non poteva non impaurirlo. Era inquietante, se ne era reso conto, e ora capiva anche il perché.
«È una storia, vero?» gemette spaventato.
Il vampiro lo fissò, poi annuì, come per rassicurarlo: «solo una storia, per favore, non muoverti».
Spostando lo sguardo sulla parere riprese il suo racconto.
«Come ti dicevo, avevamo una casa che distava pochi passi dalla via Sacra e si ergeva su una piccola collina. Anni dopo potei vedere sorgere poco lontano da essa l'enorme e imponente figura del Colosso e dell'anfiteatro Flavio. Ma quando ero giovane lì non c'era che un pantano. Con i miei fratelli ci avventuravamo di tanto in tanto, più per curiosità e per passare il tempo. Fino ai dodici anni tentai con Livio e Flavio -il fratello appena più piccolo- di entrare nel tempio della Dea Vesta, ma quando nostro padre lo scoprì decidemmo di evitare altri possibili tentativi. Sapevamo che se avessimo ripreso non ci saremmo trovati più gambe con cui correre, tanto ci avrebbe bastonato. Mio padre, Tito, nonostante rare occasioni in cui superavamo il limite era un uomo mite e buono, totalmente fedele a mia madre. Spesso quando ci trovava intenti a giocare in giardino si avvicinava e ci stringeva la testa tra le sue grandi mani, baciandoci la fronte e lasciandoci poi andare.
Essendo noi cinque ed essendo i giorni in cui mio padre andava al foro proprio cinque, ogni giorno sceglieva uno di noi e ci portava con sé. Avvolto nella mia piccola toga rossa, trotterellavo al suo fianco. Alcune volte potei entrare perfino dentro al senato, osservandone una seduta.
Nonostante mio padre odiasse l'Iliade, io di nascosto la preferivo all'Odissea, nella quale il carattere doppiogiochista e incerto di Ulisse mi urtava e infastidiva.
Coltivai i miei studi seguito da un istruttore greco dalla pelle olivastra e dal naso aquilino, del quale ora non ricordo il nome; ma i suoi modi erano posati e la sua voce chiara, nonostante non riuscisse a pronunciare molto bene alcune parole in latino.
Al contrario io avevo tremendi problemi di apprendimento per la lettera erre e come noterai, li conservo tutt'ora. Nonostante amassi l'ambiente familiare che mi circondava invidiavo quei fanciulli che venivano accompagnati dai loro schiavi nelle scuole pubbliche, dove all'aperto e insieme apprendevano tutto ciò che io, invece, ero costretto a imparare al chiuso della piccola corte interna della nostra casa.
Tolsi il sottile cerchio di porpora che mi cingeva la vita sin dall'infanzia a diciassette anni, mentre mio padre, orgoglioso, mi aiutava a indossare la mia prima toga. Quando avvertii quel peso in meno intorno ai fianchi ebbi un sussulto; capii come se all'improvviso tutta la mia vita dipendesse da me e da me soltanto. Che né gli dèi né i genitori a me cari avrebbero potuto aiutarmi.
Mentre lasciavo che mi vestissero sentii la gola bruciarmi, gli occhi inumidirsi e una tremenda voglia di piangere aggredirmi.
Comunque capii velocemente che i vantaggi di essere un maggiorenne erano di gran lunga maggiori degli svantaggi: frequentando la scuola oratoria al foro iniziai anche a conoscere il mondo esterno, che fino a quel momento mi era stato precluso.
E mi piacque. Oh, mio caro, neanche puoi immaginare quanto mi piacque.
Lucrezio fu la prima persona che conobbi in quell'ambiente e anche la prima che mi introdusse nel suo mondo dorato. Era figlio di un importante magistrato, suo padre aveva avuto per lungo tempo l'incarico di governatore in Lucania e ora lui viveva a Roma da solo.
Frequentava ogni notte banchetti dalle mille e mille portate, donne dall'aspetto esotico e dalle abilità piuttosto speciali.
«Vieni, su, seguimi stasera. Ti divertirai» me lo disse mentre uscivamo dal foro e io mi incamminavo verso casa.
«Sai che mio padre detesta quei banchetti. Lui e Catone potrebbero sposarsi, per quanto sono affini» borbottai, già immaginandomi l'ira funesta di mio padre.
«Tuo padre non sta a Roma e poi sei un adulto. Marcus, per l'amor di Giove, seguimi! Voglio farti conoscere certe donne... ti innamorerai delle loro cosce!» scoppiò a ridere, mentre prendevamo la leggera salita che mi conduceva verso casa.
«Non fare l'idiota. Ci penserò su» tagliai corto, bussando alla porta e guardandolo male. Lui scoppiò a ridere e superando una fiumana di persone che si dirigeva verso il foro lo vidi sparire.
Passai l'intero pomeriggio cercando di togliermi dalla testa l'idea di quel banchetto, cercando di concentrarmi sui miei studi; ma tutto fu impossibile. La mia mente continuava a tornare a quelle immagini che mi ero creato nella testa e che risultavano così attraenti da trasportarmi via con loro.
Alla fine, non appena si fece sera, mi alzai e vestendomi velocemente, uscii di casa. Lo trovai a pochi passi dall'entrata, con un sorriso beffardo a solcargli il viso, piuttosto soddisfatto di se stesso.
«Allora hai ceduto» ridacchiò, avvicinandosi e prendendomi allegro sottobraccio.
«A casa non c'era niente da fare» borbottai stranito. Non ero mai stato un tipo molto loquace, ma da quando conobbi Lucrezio qualcosa in me cambiò.
Mi portò a casa di un suo amico, un ricco panettiere, dove le pareti della sala da pranzo erano ricoperte da scene di banchetti erotici. L'andazzo della serata l'avrei dovuto intendere dall'enorme pene di Priapo che ci aveva dato il benvenuto.
Comunque, non appena varcammo la stretta soglia della casa venimmo investiti dal fortissimo odore di carne alla brace e da un altrettanto forte profumo di donna. Infatti il numero di signore presenti superava gran lunga quello dei signori. Ci avvicinammo e ci accomodammo su un triclinio. Accanto a me era sdraiata una ragazza orientale -probabilmente proveniente dall'Egitto- dai lunghi capelli chiusi in una treccia sfatta, che le ricadeva su un fianco. Stava bevendo vorace da un calice laccato in oro; il tempo di notare tale particolare che anche a me ne venne offerto uno simile, pieno fino all'orlo.
Lo bevvi titubante, tutta quella situazione mi pareva surreale, ma al primo assaggio.
Il primo assaggio fu come se Dioniso stesso mi avesse stretto tra le sue braccia e mi avesse regalato un profondo e lungo bacio. Non era annacquato e le spezie presenti erano così buone e ben amalgamate che mi spinsero ad affogarmi in quel calice.
Bevvi senza freno e in breve mi scordai di Lucrezio e di tutto il resto. La stanza si restrinse alle singole persone sulle quali cadeva il mio occhio. E in particolar modo sulle ragazze.
Quella notte imparai a conoscere non solo le dolci labbra del Dio del vino, ma anche le morbide gambe della dea dell'amore».
Tommaso sembrava talmente rapito dalle parole da essersi sporto in avanti. Marcus lo fissò sorridendo amichevolmente e disse, calmo: «per favore, ritorna al tuo posto, non vorrei sbagliare le proporzioni».
Il tono era pacato, ma così tremendamente severo e deciso che il ragazzo fece come disse senza neanche pensarci. Fece aderire nuovamente la schiena alla sedia e fissò il suo sguardo su di lui.
Gli occhi di Marcus sembravano per metà persi nell'affresco che poco alla volta stava prendendo vita e per l'altra metà in quella storia surreale, del quale sembrava un protagonista indiscusso.
«La mia vita cambiò radicalmente: una volta che assaggiai i frutti dell'abbandono ai sensi non potei più farne a meno. Divisi la mia vita in due distinte e nette parti: il giorno -in cui ero un ottimo e brillante studente, capace di aiutare i propri maestri nelle cause più difficili, e la notte -durante la quale al seguito di Lucrezio e i suoi amici cominciammo a frequentare case di sconosciuti e banchetti completamente privi di freni.
Ormai avevo conosciuto le donne e scoprii di non poterne farne a meno, il mio umore migliorò visibilmente e tutti a casa se ne accorsero. Finché mio padre fu in vita presi tutti gli accorgimenti necessari per non farmi mai riconoscere, arrivai perfino, seguendo l'esempio di Ulisse, a darmi nomi fittizi, inventati tanto per prendere in giro i nuovi conoscenti.
Alla morte del mio genitore, iniziai ad abbandonarmi totalmente ai piaceri che la notte e le serate mi procuravano.
Ormai avevo iniziato a lavorare da solo, poco alla volta la mia fama di avvocato si iniziò a far sentire. Nonostante ciò continuai a vivere nella mia vecchia casa e continuai a seguire Lucrezio -ormai un fannullone a tempo pieno- nelle notti di baldoria.
Raggiunsi i venticinque anni senza aver avuto neanche l'intenzione di sposarmi e questa cosa addolorava profondamente mia madre, che aveva già visto Livio e Flavio sposarsi con due donne di ottima famiglia e di bellissimo aspetto.
Io amavo le donne e mi sembrava piuttosto stupido privare a tutte loro il mio amore, per donarlo solo a una.
Così, nonostante i suoi pianti di dolore e le sue numerose preghiere a tutte le dee che riteneva capaci di mettermi la testa apposto, lasciai che tutto continuasse a scorrere.
Giunto all'età di trent'anni, ormai ero rimasto l'unico dei cinque fratelli a non avere una moglie. Mia madre si era trasferita con Decimo, il più giovane, in Sabina, in una cascina nella quale lui aveva avviato, insieme al fratello di sua moglie, un'attività che produceva olio.
Una volta che nella mia casa fummo solo io e i miei servi, per grande gioia di Lucrezio, iniziai io stesso a organizzar feste, entrando ancora di più dentro quel meccanismo di perdizione e di piacere.
Amavo tutto quel lasciarsi andare ai propri istinti, quell'abbandonarsi ai profumi del vino per poi affondare il viso in morbidi seni e profumate carni.
La tavola era sempre imbandita e le danzatrici sempre in movimento davanti agli occhi dei miei invitati.
Tutto sembrava andare per il meglio, finché Livio non morì.
A differenza mia lui aveva abbandonato ben presto la carriera di avvocato, introducendosi, con gli ultimi aiuti di mio padre, nella politica. In breve era riuscito a diventare governatore di una piccola regione al nord, in Etruria.
Afflitto come mai mi era accaduto in tutta la mia vita -la morte di mio padre, straordinariamente, mi era scivolata addosso come se niente fosse- decisi che sarei partito subito, sperando di raggiungere in tempo casa sua.
Non partii con molto addosso, scelsi perfino una delle carrozze più spoglie e semplici che trovai. Sapevo che i predoni e i briganti erano un rischio più che sicuro, così preferii eludere qualsiasi problema di questo tipo.
Mi misi in viaggio di giorno e per la fine della giornata, che fortunatamente non fu piovosa, riuscimmo a raggiungere i confini del Lazio. Decisi di fermarmi ad alloggiare in una locanda al confine con l'Etruria.
Non mi sono mai fidato degli Etruschi, li reputavo imbroglioni e ladri, loro e le loro predizioni da quattro soldi. La loro magia, le loro leggende, la loro lingua che sembravano non voler condividere con il resto dell'impero... nonostante ciò mi vidi costretto ad alloggiare in quell'ostello da poco.
Non avevo portato con me servi, perché temevo che Lucrezio avrebbe fatto qualche stupidaggine e avrebbe organizzato qualcosa senza il mio permesso e mi dissi che più uomini c'erano a casa più forze potevano contrastarlo.
Mai avrei immaginato che un servo avrebbe potuto cambiare il corso della mia storia. Non riuscivo ancora a realizzare che mio fratello fosse effettivamente morto, forse perché ogni qualvolta ci pensavo una morsa alla gola mi faceva smettere di respirare. Bevvi avidamente tutto il vino annacquato che l'oste mi portò e quando una delle cameriere mi venne vicino, con fare malizioso, non persi l'occasione e la seguii».
Marcus si fermò e sorrise tristemente a Tommaso, mentre affondava per la prima volta il pennello nel colore, tracciando la prima linea di un rosso fiammante, come la sciarpa che il ragazzo indossava.
«Siete sposato?» domandò curioso il giovane, cercando di muovere meno muscoli possibili.
«Oh, questa è una lunga storia, ma ci arriverò» sospirò, tristemente «ora ti prego di fare attenzione a ciò che mi accadde, non fidarti mai di una donna che decide di donarsi a un uomo senza neanche conoscerlo» disse teatralmente, pur non riuscendo a nascondere la tristezza intrinseca alla sua persona.
«E degli uomini?» mormorò Tommaso.
Marcus si zittì e rise, sommessamente: «sei molto sagace. Ma come ti stavo dicendo, a quel tempo non ci pensai la seguii e basta. Il tempo di affondare il viso nei suoi seni e un colpo violento si abbatté sulla mia testa.
Mi svegliai la mattina dopo, colpito da una puzza insopportabile e da un ondeggiare ritmico. Aprii gli occhi e mi resi conto di trovarmi in un carro, completamente chiuso da sbarre di ferro mal lavorato. Intorno a me più di una decina di altre persone, tutte disperate e dai visi emaciati. I loro lineamenti erano quelli dell'oriente: labbra gonfie e nasi larghi, occhi di un bianco accecante, se confrontati con la loro pelle.
Spalancai gli occhi agitato e mi misi seduto, facendomi spazio tra tutta quella calca di corpi maleodoranti ed emaciati. Provai a urlare ma vidi che ero stato imbavagliato e che ai miei polsi erano state messe dei legacci che mi avevano segato la pelle. Mugugnai qualcosa, cercai disperatamente con gli occhi qualcuno capace di aiutarmi. Ma la via era deserta e davanti a noi si poteva vedere solo un enorme carro, dal quale provenivano profumi deliziosi.
Ero stato rapito. Per l'amore del pantheon tutto, ero stato rapito. E ora mi ritrovavo tra una quindicina di schiavi, tutti provenienti dall'Africa, diretto chissà dove.
Nessuno di loro parlava latino, lo vedevo dal modo con cui mi ignoravano e non riuscivano a decifrare i miei mugolii disperati. Frustrato e disperato iniziai a battere contro le sbarre come potevo, alla fine, la sete, la fame e la stanchezza mi vinsero e io caddi addormentato.
Non ricordo quanti giorni passammo in quelle situazioni pietose, ma sulla strada non incontrammo mai nessuno; superate quelle che mi parvero le prime Alpi iniziò a piovere e non sembrava esserci rimedio alla pioggia, nella nostra situazione.
Tutte le volte che mi toglievano il bavaglio tentavo di urlare e strepitare, ma dopo le prime bastonate che ricevetti capii che era meglio lasciar stare. La mia unica salvezza sembrava risiedere nelle dogane di confine.
Ma così non fu: i funzionari corrotti fecero passare tranquillamente il carro e l'avermi picchiato a sangue poche ore prima, fece sì che mi rannicchiassi per il dolore e che la mia pelle diversa non si notasse.
Durante quel viaggio folle non pensai agli dèi, smisi di pregarli dopo poco, ma pensai alla mia famiglia, a mio fratello morto, al fatto che il suo funerale si sarebbe celebrato senza di me; pensai a Lucrezio e ai miei servi, pensai al senato e a quegli uomini che mi avevano affidato le loro vite.
Pensai alla mia vita, man mano che la vedevo allontanarsi.
Superato il confine italico i due carri si fermarono. Stavamo proprio all'interno di un fitto bosco. Ero così stanco che non riuscivo neanche a sollevare la testa dalla posizione fetale nella quale mi trovavo, chiusi gli occhi, tremando: i vestiti bagnati erano gelati e il freddo di quelle zone mi stava penetrando nelle vene.
All'improvviso, però, iniziai a sentire delle grida. In un primo momento pensai a dei briganti e che la mia situazione, alla fin fine, poteva comunque migliorare. Meglio pagare un riscatto che venir venduti come schiavi ai confini della terra!
Provai a tirarmi su, ma la gente intorno a me era così agitata che mi fu impossibile, mi rannicchiai tentanto di non farmi schiacciare.
C'era frenesia, gli occhi di tutti quegli uomini erano spalancati e spiritati. Urlavano in quella lingua gutturale che non riuscivo a comprendere, disperati cercavano di uscire.
Non capivo e non riuscivo a fare qualcosa per capire; ero così stanco e sfinito che solo tenere gli occhi aperti era un'impresa.
Senza che me ne rendessi conto le grida iniziarono ad attutirsi, fino a sparire completamente, sul mio viso era schizzato qualcosa di caldo e viscoso, e l'odore intenso mi suggeriva fosse sangue. Pensai che ci avessero attaccato dei lupi, ma mi chiesi come degli animali potessero aver distrutto delle sbarre così pesanti e spesse.
Avvertii dei passi leggeri, quasi impercettibili, che fecero oscillare un poco il carro.
«Nóg» sussurrò una voce cristallina e limpida. Non capii cosa stesse dicendo, ma a fatica mi misi supino, aprendo gli occhi.
Era un bambino, dagli occhi rossi. Era un bambino completamente rosso. Rosso era il suo viso, coperto di sangue e rossi erano i suoi capelli, macchiati di quella ninfa vitale.
Gemetti e provai a dirgli qualcosa.
«Portami a casa» mormorai, avevo le labbra secche e screpolate per la sete.
«Heim» lo vidi sorridere e sulle sue labbra mi parve aprirsi un'espressione spaventosa, completamente estranea a quel viso divino, dolce. Batté una mano sul suo petto e si inginocchiò accanto a me. Mi sfiorò i lineamenti, soffermandosi sul naso e sui miei capelli, che usavo portare lunghi.
«Heim mik» continuò, in quella lingua dura e allo stesso tempo gentile.
Rantolai, ero esausto, stanco.
Vidi i suoi capelli biondi coprirmi la vista e le sue labbra gelide sfiorarmi il collo; intorno a noi era pieno di cadaveri, alcuni ancora vivi gemevano addolorati.
«Portami a casa» ripetei frustrato, ma all'improvviso lo sentii mordermi delicatamente. Istintivamente provai a staccarlo, lanciando un grido soffocato, ma la sua presa era ferrea e decisa e non ci riuscii. Disperato cercai di toglierlo da me, ma mi parve impossibile.
In un attimo mi sentii invadere da un bruciore insopportabile e l'unica cosa che fui capace di fare fu di urlare e urlare.
Prima di cadere in un oblio senza luce udii un'ultima volta la sua voce delicata: «hró».



Angolo autrice:
mamma! Ecco la prima parte ♥ Devo essere sincera, scrivere questa storia mi è piaciuto terribilmente e non vedevo l'ora di proporvela. Questa prima parte è un po' più lenta, ma la seconda... non so, sarà da Narciso, ma me ne sono innamorata :3
I luoghi da me citati sono stati volutamente scelti e niente è stato affidato al caso (: La casa di Marcus esiste veramente, ora come ora è una chiesa (piuttosto famosa), una delle mie preferite. Volevo lasciarvi una foto fatta da me, ma non ho fatto in tempo a farvela. (Chiesa dei lampadari1) È molto usata per i matrimoni, e mi sembrava adattissima per un romanticone come Marcus -battuta triste XD
I nomi:
per quanti alcuni siano veramente sparati alla Random, altri sono stati pensati (come per esempio quello di Florian, vedi in basso).
Ho chiamato il migliore amico di Marcus Lucrezio in onore del magnifico e mio amato poeta latino, nonostante l'accostamento con l'epicuresimo sia veramente forzato (non è proprio esempio di equilibrio) il suo attaccamento alle cose terrene e la sua morte precoce mi ha fatto pensare a lui.
Florian, perché il nome e perché lui.
Sono sempre stata affascinata dall'idea di un creatore bambino, è come se al suo interno conservasse il più grande controsenso esistente. Non si tratta di un ragazzino né di un pre-adolescente. Lui è proprio un bambino. E perché un bambino di appena cinque anni è un vampiro? Ho ipotizzato che prima dei Volturi molto spesso i vampiri non si rendessero conto di trasformare attraverso il semplice morso, e che quindi esistessero vere e proprie schiere di disperati trasformati accidentalmente, uno di questi è Florian. Il nome mi è stato gentilmente suggerito dalla mia cara Alex, impietosita dal povero pimpo. Io ho pensato che fosse adattissimo per un bambino che viveva tra i boschi e che Marcus avrebbe potuto tranquillamente dargli un nome che ricordava il nome di Flora, la dea romana. Il fatto che sia germanico mi ha portato a farlo parlare in questa lingua, le cui poche parole sono tutte un grazioso e amabile prestito di wikipedia
e da qui.
-Nóg= abbastanza
-Heim= casa
-mik= me
-hró = sangue

Per crearlo mi sono ispirata alla critica che Kant ha fatto all'idea di uomo in natura di Rousseau, non è né buono né cattivo, semplicemente innocente.
Nel 17 a.C. Un certo Giulio Ossequente scrisse che in quest'anno “una fiaccola celeste, che discese da sud verso nord con un'immensa luce, rese la notte simile al giorno”. Più facilmente interpretabile come una cometa. Nello stesso anno Augusto organizzò i ludes. http://www.portalidiroma.net/storia/romani/fanciulli.htm
Il rapimento. Era frequentissimo che nelle osterie si venisse rapiti, tanto che era assai difficile che le persone viaggiassero da sole. Ho ipotizzato che, essendo veramente molto sconvolto per la morte del fratello, Marcus non abbia pensato a tale pericolo. Per le case e i personaggi mi sono ispirata a quelle che ho visto a Pompei e vari studi che ho fatto con la scuola o per conto mio (:
Vi lascio anche la solita linea temporale (: qui.

Ho fatto! Vado a cena e creo la serie ;)

Ho deciso di farmi un account facebook per chiunque mi volesse aggiungere e fare una chiacchierata Ulissae EFPaggiungetemi (:
Se avete un livejournal, questo è il mio: [info]ulissae
Idem per anobii (ha trovato il giochino, la bimba): Ulissae anobii
 

Se invece volete farmi una qualsivoglia domanda, ecco il mio formspring: Ulissae
 
   
 
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