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Autore: past_zonk    19/04/2011    1 recensioni
Pendeva dalle mie labbra come le ciliegie troppo mature pendono alle fronde degli alberi, così, come se stesse per cadere sul terriccio del giardino. Era il mio piccolo bunker protetto nel buio artificiale. Ed era il perimetro del mio corpo. Ed era le anafore.
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevi sporcato il desktop di gelato.

 
La stanza era buia.
(Bene, un’affermazione. È già un gran passo)
Ero sola.
(Continua…)
Un paio di labbra, anzi no, due labbra miravano alla mia ugola. Se premevano forte sulla gola la voce si distorceva e a quel punto i synth a che servono(?), dico io.
Le lucette leziose degli antifurti stavano all’erta.
Non ero sola. Lo so.
Che tempo verbale devo usare? Presente, passato. Il futuro non è credibile, capisci?
‘Scorre sui miei alibi, scorre sui rimpianti, scorre su di noi’
-L’importante è che tu pensi seriamente di non essere sola. Perché al quel punto non lo sei. Poche parole, ma fanno più compagnia di qualche coperta.-
In quella stanza sembrava piovere.
Mentre sentivo che lui s’accasciava accanto a me, con le spalle contro l’armadio azzurro acquamarina, persi un battito cardiaco, m’accorsi delle doppie punte, della puzza di fragola, del mio accento del sud, del gelato sulle mie mani, delle unghie viola nella carne ormai porpora del mio palmo.
Mi accorsi di tante piccole imperfezioni che esistevano nella mia testa da pochi attimi, ma nel mio cuore da sempre. Piccole cicatrici mai guarite e fratture mai ingessate.
Quando poi ci cammini, su una frattura, o non si aggiusta più e ci convivi o si ricompone in maniera errata e l’osso rimane in una posizione scomoda, errata. Storta.
Tutto storto.
Mentre ormai lui mi torceva i capelli ed io chiudevo gli occhi, mille molecole nella mia bocca avevano paura di disintegrarsi.
Pensai di dover chiamare mia sorella e dirle di scaldare un posto a Roma. La tangenziale ci aspetta, caro.
-Che fai?-
-Nulla.-
E continuiamo a respirare malaticci al muro, nell’angolo, poi nello sgabuzzino dove piango un po’.
A Roma si muore d’amore, dice il cantante.
Una saponetta bolle nella vasca idromassaggio. Avevi  un cruciverba nella tasca del giubbotto. Anche Anasclerol.
Poi t’accorgi di parlare sempre delle stesse cose, ti accorgi che, però, i suoi occhi sono sempre vivi di curiosità. Nell’ascoltare per la quinta volta la storia della fermata del bus non m’ha fermata.
Non ha detto ‘non mi interessa, già l’hai detto’.
Pendeva dalle mie labbra come le ciliegie troppo mature pendono alle fronde degli alberi, così, come se stesse per cadere sul terriccio del giardino.
Era il mio piccolo bunker protetto nel buio artificiale.
Ed era il perimetro del mio corpo.
Ed era le anafore.
Ed era i pomeriggi in spiaggia col tramonto che non avremmo mai trascorso.
Era le passeggiate utopiche.
Era il vento che mai avrebbe potuto scuotergli i capelli.
Era il raggio di luce che mai m’avrebbe lasciato contemplare il suo viso.
Perché, in quel buio malato, non avevo mai osservato quegli occhi, quelle labbra; lasciavo ogni probabile descrizione al tatto, i miei polpastrelli annotavano febbrili (ha un piccolo foruncolo dietro l’orecchio, sembrerebbe un neo) e tracciavano un vago ritratto a matita sul foglio della mia mente.
In questo modo viaggiavo.
Fra le sue labbra ero a Tokio, fra i suoi capelli a Copenaghen, mordergli l’orecchio era Vienna e il tepore del suo braccio attorno al mio fianco era pura Barcellona.
Il buio acuiva il resto. Il suo respiro era musica abbondante. Le sue parole canto diafano.
-Pronto.Veniamo a Roma-
-Tu e…?-
-Io e un amico.-
-Oh, perfetto.-
Telefonata conclusa.
Avevo davvero intenzione di portarlo fuori di lì. Decisamente visionaria, come cosa.
-Andiamo.-
-Dove?- disse lui.
-Fuori- risposi.
Il silenzio gravava ancor di più, nel nero pece.
-Ma non posso.- rispose calmo –Non posso uscire di qui, capisci?-
Ed allora pioveva ancor di più in quella stanza. L’armadio contro cui erano appoggiate le nostre schiene andava sciogliendosi. Sentivo l’ipotetico legno dipinto color acquamarina sciogliersi, la testa cadere all’indietro, il buio infittirsi. Come in un film di Kubrick, mi sentii un po’ sciogliere anche io.
-Perché non puoi?- sussurrai piano, con voce da pulcino, spaventata e spaventosa allo stesso momento.
-Ma come. Non lo sai?-
Immaginavo sorridesse. La sua voce era Sodoma. Forse Gomorra. Era il punto più profondo dell’Inferno. Forse la sua testa era incastonata nel ghiaccio. Oppure ispirava i suoi dolci discorsi alle leccornie grammaticali che soleva spesso propinarci Lucifero, quell’angelo demoniaco.
-No, non lo so. Perché non puoi uscire?-
-È alquanto semplice, non credevo di dovertelo dire.-
-Dillo.- E mentre parlavo lenta la cattiveria raggiungeva i miei polpastrelli e li sommergeva di sangue.
-Perché io, ecco, io non esisto.-
E allora l’armadio alle nostre spalle ormai è una pozzanghera, i miei capelli vi si immergono.
Ho le tempie acquamarina.
 
 
                       -Allora vai via, cosa aspetti.- dissi.
                                                                                        -Addio- disse.
 
 
                                                        -Scorro sui rimpianti.- conclusi.
 
 
 
                                     
 
 
   
 
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