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Autore: shanna_b    03/05/2011    11 recensioni
Combattere la guerra per trovare la propria pace.
Dedicata a Daniela AKA TheCow81 perche` doveva essere una ff per il suo contest dell'ultimo Halloween ma non l'ho finita in tempo. Non odiarmi.
Dedicata ad Aglaja/Alaska/Claudia perche` gliela avevo "promessa" o piu` correttamante "minacciata". :-P Non odiarmi nemmeno tu.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THIS IS PEACE

 

 

 

 

 

 

(31 Ottobre 2010)

 

 

Tra le lapidi di questo cimitero aleggia quella fuggevole nebbiolina che, da piccola, vedevo in tanti disegni fatti dai miei compagni di scuola ad Halloween. Quando la maestra ci faceva dipingere ritratti di cimiteri più o meno abbandonati dove potevano alzarsi zombie da un momento all’altro da sottoterra, la nebbiolina fatta di vapore ed anime perse non poteva mai mancare.

E non mi era mai capitato di venire a portare i fiori sulla tomba dei miei genitori proprio la sera del 31 ottobre, all’imbrunire, con una luna che cresce in un cielo azzurro scuro e il freddo che mi sale per la spina dorsale e mi arriva diritto al cuore.

Mi accuccio e sistemo i crisantemi gialli con cura, mentre sorrido alle foto già sbiadite impresse sulla lastra di marmo chiaro. Sono passati cinque anni ormai, ma nei miei orecchi ancora odo le loro risate e il nome con cui i miei genitori mi chiamavano: li rivedrò un giorno, ne sono certa, in quel paradiso che da anni anelo anch’io.

Mi alzo e mi guardo attorno, recitando l’ennesimo ‘Eterno Riposo’: il cimitero è deserto e l’ora di chiusura si avvicina. E allora è meglio se me ne vado: mando un ultimo bacio alle loro immagini, all’effimero corpo che giace ormai sfatto dentro una cassa di legno, e mi avvio lungo il vialetto, tra le tombe solitarie, in un silenzio tetro.

In quel quartiere periferico di casette basse di legno in cui si trova l’Evergreen Cemetery di Los Angeles, nessuno nemmeno per strada… se non qualche gruppetto di bambini in maschera alle prese con il ‘trick or treat’ di Halloween. E il buio è sempre più fitto e sulla carreggiata passano pochissime automobili. Tutti si saranno già rintanati a casa, con il cesto di dolci pronto per i bambini che suoneranno il campanello, ma non io.

Perché io non ho una vera casa.

Non ho dolci da offrire.

Non ho bambini.

Non ho una famiglia.

In fondo sono sola.

Questo pensiero mi fa rabbrividire anche di più. Mi stringo nella mia giacca leggera e solo in quel momento mi rendo conto che ho i piedi gelati: le calze nere sarebbero anche di lana, ma i sandali non sono chiusi e il gelo si è impossessato delle mie estremità.

Affretto il passo, non ho guanti, allora metto le mani in tasca e, con sorpresa, ci trovo un dollaro.

Sì, certo. E’ il resto che mi hanno dato quando ho acquistato i fiori per i miei genitori, ora ricordo. Stringo la moneta tra le dita come se fosse la cosa più preziosa che ho e improvvisamente mi rendo conto che anche il mio stomaco è gelato e un latte caldo potrebbe essermi d’aiuto per sciogliere il ghiaccio che mi attanaglia.

Guardandomi intorno, dall’altra parte della strada noto l’insegna di un bar e un uomo che, sceso da una moto, sta entrando per la porta di vetro.

Sì. Il caldo di un bar e un latte bollente.

Ma… lo so, è peccato.

E’ un peccato che si chiama ‘gola’.

Dovrò andare a confessarmi, poi.

Ma un altro brivido mi percorre la schiena e sono certa che se non mi scaldo almeno un po’ potrei anche ammalarmi.

E allora attraverso la strada di corsa, decisa, in mezzo ai fantasmi di nebbia di una sera d’autunno.

 

 

 

Dannazione, merda, cazzo, porco***!

E chi più ne ha più ne metta!!! Porca puttana troia!

Appoggio con furia il casco della moto sul bancone di quel merdoso bar che ho trovato per strada mentre girovagavo in moto senza meta per le strade di Los Angeles, continuando ad imprecare tra me e me furiosamente.

Nebbia a Los Angeles?

Nebbia a Los Angeles?!!?!??!!?

Credevo che la nebbia al tramonto proveniente dalla baia fosse una prerogativa di San Francisco, e non della città degli angeli, accidenti! Non vedevo nulla di nulla, in moto, e, soprattutto, non so nemmeno dove sono finito!

Ma in fondo non mi importa.

Mi sono perso e… forse è meglio così, perché…

Beh… io.non.ce.la.posso.fare.

No. Non ce la faccio più.

Sono a frantumi.

Sono stanco, ridotto in miliardi di pezzi che non ricomporrò mai più, me lo sento. Non questa volta.

Mi siedo su uno degli sgabelli davanti al bancone ed ordino una birra. La prima di una lunga serie, ho deciso.

L’anno scorso a quest’ora stavo intagliando la zucca di Halloween con K., la mia ragazza, e sua figlia, mi nutrivo di biscotti fatti in casa e bevevo thé caldo. Quest’anno la zucca con K. e sua figlia la intaglia un altro uomo e a me hanno chiuso la porta in faccia.

Giustamente.

Perché io per primo non mi sono comportato bene con loro.

Perché non sono affidabile, posato, tranquillo, responsabile  come il nuovo fidanzato di K.

Perché non posso essere un buon padre per sua figlia, sono uno sbandato puttaniere e tutto quello che è successo in questo 2010, lo dimostra ampiamente. Tutto il gossip su di me, le mie tre donne a notte, le groupies e le modelle di vent’anni più giovani di me. Tutto il puttanaio di cui mi circordo, le mie notti brave, la mia fama di dongiovanni incallito, le mie colossali sbronze, le mie innumerevoli dipendenze.

Tutto è contro di me.

E quindi K. non si fidava più.

Non si fida più.

Giustamente.

Ma mi fa male.

Un male da morire.

Un male al cuore al quale non trovo rimedio, da mesi, non solo da oggi.

Perché io la amavo, a mio modo ma la amavo. Era l’unica donna che mi capiva al primo sguardo, che aveva capito chi fossi davvero, che non stava con me per soldi o fama. O, per lo meno, non del tutto.

Ma io ho rovinato tutto.

Soltanto io.

E trovarmi per caso in questo bar vicino ad un cimitero della periferia, dopo averla girata per tutto il pomeriggio, proprio questa sera di Halloween, io, da solo con il barista, è ancora peggio. Una umiliazione senza precedenti, per me.

Una guerra persa.

Una guerra contro tutto e tutti.

E anche contro me stesso.

Prendo la birra e ne bevo un lungo sorso. Ho il malumore alle stelle, ma se torno a casa da Jared, mio fratello me lo fa venire il doppio tentando di psicanalizzarmi.

Appoggio i gomiti al bancone e mi prendo la testa tra le mani, mi stringo le tempie, socchiudo gli occhi: vorrei far uscire tutti i miei pensieri, tutta la rabbia e il dolore che provo, ma non so come, cosa dire, come agire e…

La porta del bar si spalanca e la folata di vento quasi artico che mi si appoggia sulla nuca come una mano gelida, mi fa girare di scatto.

Ecco.

Attorniata da un velo di nebbia diaccia, ci mancava anche quella ragazza lì, che entra nel bar vestita in maschera, per accrescere l’anima nera che mi divora.

 

 

 

 

Due o tre anni?

Non so, ma è tanto che non entro in un bar.

E quei due paia di occhi che mi fissano intensamente non mi aiutano ad affrontare con leggerezza questa cosa.

Il barista e quel motociclista che ho visto entrare prima, mi osservano ad occhi aperti, spalancati, dalla testa ai piedi.

Lo so che è quasi ora di cena e sono una donna sola ma… non hanno mai visto nessuna vestita come me?

Ed io arrossisco. Non sono abituata a vedermi osservata così. Mi ci vuole un attimo per riprendere il controllo, vincere l’imbarazzo e ad avanzare verso l’interno del bar, chiudendomi l’entrata dietro.

Timidamente saluto e mi avvio verso l’ultimo sgabello del bancone, quello più lontano dalla porta e da quello strano motociclista che, con stizza mal nascosta, ora si è rimesso a fissare il suo bicchiere di birra mezzo vuoto.

Il barista, di chiara origine ispanica, con coda di capelli neri lunghi fino a metà schiena ed orecchini a go-go, mi si avvicina, mentre mi arrampico sullo sgabello ed adocchio gli addobbi di Halloween appesi un po’ ovunque: “Che ti porto, bellezza?”, chiede, dando una passatina al bancone con uno straccio unto e sfilacciato che ha visto fin troppe passatine sul bancone.

Mi schiarisco la voce, arrossendo nuovamente. Erano secoli che nessuno mi chiamava così: “Un-un bicchiere di latte caldo…”

“Col cioccolato?”

“N-no, no, va bene anche senza…”, rispondo con un filo di voce, mentre il barista va verso il frigorifero.

In realtà se non stessi morendo congelata, da lì sarei già fuggita a gambe levate, visto che mi sento in un imbarazzo tremendo, ma l’orologio sul muro segna le sette e mezza e io ho l’autobus per tornare tra oltre mezzora… posso stare qui ancora per un po’… meno male che gli avventori sono pochi… non c’è nessuno, nemmeno al biliardo o ai giochi elettronici.

Solo della musica in sottofondo che non sento bene e una piccola TV accesa ma senza audio, dietro alle spalle del barista, incastrata in un mobile zeppo di bottiglie e bicchieri di tutte le fogge e colori.

E quell’uomo che beve la sua birra, pensieroso e sostenendosi la testa con una mano. Finché il barista mi prepara il latte, curiosamente mi metto a fissarlo: giacca nera di pelle, fazzoletto nero a fiorami attorno alla testa, capelli castani corti e spettinati, una corporatura robusta e prestante, un bell’uomo e…

Fermo i pensieri subito.

No, questo peccato si chiama ‘Desiderio’.

Metto anche questo in coda per la confessione?

No.

Meglio di  no.

Il barista mi porta il latte bollente. Finalmente. Appoggio subito le mani sul vetro caldo del bicchiere, sospirando.

Meno di mezzora e poi sarò al sicuro dentro un autobus.

E questa trasferta dall’altra parte della città potrò archiviarla, nel reparto ‘uscite necessarie ma inopportune’.

E questo unico pensiero mi tranquillizza.

 

 

 

 

Il terzo bicchiere di birra fresca mi scivola giù che è un piacere e la mia mente si sta già annebbiando. Finalmente. Sono stanco di pensare ai miei guai. Anzi, sono stanco di pensare e basta.

Dove si preme il pulsante per smettere di pensare? In quale punto della testa si trova? Qualcuno me lo dica, accidenti!

“Serataccia, stasera?”, mi chiede il barista, con un sorrisino di sbieco.

Chissà quanti ne ha visti, di tipi depressi come me semisdraiati sul suo bancone: “Sì. Anche la tua, vedo.”

Il barista si appoggia sul lavello e si mette a lucidare un bicchiere. Non gli par vero che qualcuno gli dia retta: “Sì, pochi clienti, stasera… tutti rintanati in casa per Halloween.”

“Sai cosa ti dico, amico? “, lo guardo negli occhi, alzando la birra come per brindare. “Che Halloween è una festa di merda.”, sogghigno.

Il barista si mette a ridere: “Decisamente sì.”

“E poi tutta questa gente in maschera… adulti anche…”, con la testa indico la ragazza seduta in fondo al bancone, “Ma che cazzo… Chi glielo farà fare?”

Il barista mi si avvicina con il viso con aria complice, l’occhio da uomo di mondo: “La bambola dovrà rimorchiare a qualche festa, stasera…”

Ci giriamo entrambi a fissarla, ridacchiando da ebeti, ma la bambola in questione sta ipnotizzando il bicchiere di latte caldo che tiene stretto tra le mani e non bada affatto a noi.

Mi metto a fissarla, esaminandola. Beh, vorrà anche rimorchiare, ma vestita così, non so se ci riuscirà. Mi sposto un attimo per osservarla meglio: una giacca nera cerata tipo impermeabile, una gonna lunga grigia scura oltre il ginocchio, calze nere spesse e strani sandali aperti. Un velo nero in testa a coprire dei capelli castano chiari, tagliati corti e con frangetta, una camicetta bianca candida di cui vedo il colletto e i polsini, abbottonata sul collo al limite del soffocamento.

Non vedo seni al vento, cosce esposte, rossetti color del fuoco o ciglia finte che possano attirare chissà che uomo, anzi… la ragazza è piuttosto insignificante e sciatta… chissà perché si è vestita così… a che festa andrà? Quelle delle depresse della parrocchia? Tenterà di concupire il sacrestano, forse?

“Dolcetto o scherzetto?”

Sento il barista che scoppia a ridere alla vista dei tre bambini vestiti da fantasmini che sono entrati nel bar e mi giro pure io. Il mio pensiero corre subito alla figlia di K.: come sarà vestita quest’anno? E starà anche lei facendo il giro delle case vicine? Chissà…

Il barista offre caramelle a manate e i bambini entusiasti se ne vanno subito, di corsa, a caccia di altri a cui estorcere dolcezze.

Ritorno alla mia birra.

“Dolcetto o scherzetto?”, ma il barista stavolta non ride e si limita ad alzare le braccia al cielo. Mi giro verso la porta lentamente.

Due uomini con un passamontagna calato sul volto e vestiti da scheletri ci puntano due pistole addosso.

Sempre meglio.

Odio Halloween ogni momento di più.

 

 

 

 

L’ultima voce non era affatto quella di un bambino e aveva anche una strana intonazione.

Mollo il latte, mi giro allarmata, scendo di scatto dallo sgabello e mi ritrovo una canna di pistola contro. Carica.

“Ferma lì, sorella. E alza le mani.” Uno dei banditi mi si è avvicinato velocemente, mentre il secondo bandito chiude a chiave la porta, gira il cartello sulla scritta ‘CLOSED’ e poi punta la pistola sulla nuca del motociclista, chiedendo in malo modo al barista di svuotare la cassa.

Ho la pistola puntata sul petto: “Svuota le tasche, sorella.”

“Io… non ho nulla… solo… un dollaro.” E glielo do subito.

Gli occhi del rapinatore mi guardano male: “Cellulare?”

“No, no…” Rovescio le tasche della giacca e poi la apro e ribalto anche le tasche del vestito grigio scuro da novizia che indosso. “Non ho niente. Noi… suore… noi suore non portiamo niente.”

“Il crocefisso che hai al collo?”

“O-ottone.”

Il bandito per fortuna si convince che non ho nulla di cui rapinarmi. Dalla voce sembra anche piuttosto giovane: “Vabbè, sorella, mettiti là in fondo, non ti muovere e non ti succederà nulla.”

Obbedisco e mi appiattisco contro la porta in fondo al bar, quella che dà ai bagni, mentre il rapinatore si fa dare dal motociclista il portafogli e un cellulare, mentre l’altro sta svuotando la cassa tenendo sotto tiro il barista.

“E ora, fratello, vai là in fondo con tua sorella.”, ordina, ma il motociclista non si muove. E il rapinatore gli appoggia la pistola sul collo. “Muoviti, amico…”

E allora l’uomo si alza lentamente e poi, di scatto, si gira e tira un pugno sul braccio armato del rapinatore che perde la pistola per terra, per poi saltargli addosso.

Ma il secondo rapinatore colpisce alla nuca il barista e poi si avventa anche lui sul motociclista, con la pistola puntata. Lo prendono per le braccia mentre tenta di dibattersi e lo buttano a terra, davanti a me. Lui cade supino, semisvenuto ai miei piedi, battendo pesantemente la schiena e la testa a terra e il rapinatore gli punta la pistola contro.

“NO, NON SPARARE!”, con uno scatto, mi metto davanti all’uomo armato con le braccia alzate, “Non sparare, per favore.  Non sparare! Noi… non ci muoviamo, promesso… Vi prego…”

“Togliti da davanti, sorella…”

Congiungo le mani, mi inginocchio ai loro piedi: “No, vi prego… avete avuto quel che volevate, per favore… per amor di Dio, non uccidete per pochi soldi… Non fatelo, vi prego…”

Il bandito mi punta la pistola alla fronte, proprio al centro: “Hai finito di prelevare i soldi?”, chiede all’altro, scrutandomi negli occhi come per leggermi la mente.

“Sì.”

L’uomo annuisce e abbassa l’arma. “Bene. Allora andiamo via. Ma prima sistemiamo i due piccioncini.”

I due ci legano le mani dietro la schiena con una corda e poi uno contro l’altro, dorso a dorso, come salami, come nei cartoni animati, con le nostre mani che si toccano. Poi ci chiudono a chiave nella dispensa, buttandoci sul pavimento gelato, al buio.

Stringo gli occhi, facendo finta di non sentire male al gomito sul quale sono caduta, e comincio mentalmente a pregare.

Grazie a Dio non ci hanno fatto nulla.

Ma temo che perderò il mio autobus.

 

 

 

 

Sono caduto su una spalla con violenza e domani avrò sicuramente un grandioso ematoma viola. E se questa cosa mi impedirà di suonare, sarò furioso, lo so.

Ma per fortuna, e grazie alla ragazza, sono vivo.

Soffoco una bestemmia e tento subito di alzarmi, mettendomi seduto, ma non mi riesce di piegare le gambe a sufficienza e quello che ottengo è soltanto di schiacciare con il mio peso, doppio del suo, mi sa, la ragazza legata a me.

“Ahia.”

Sbuffo, infastidito. “Mi dispiace, honey. Ma se fai forza anche tu sulle gambe ci alziamo, sennò restiamo qui sdraiati fino a domani.” Il buio è rischiarato soltanto dalla debole luce proveniente da una minuscola finestrella di nemmeno mezzo metro di lato da cui passa solo la luce lattea della luna. “Al mio tre, spingi con la schiena, va bene? Piega le gambe, fai forza e vediamo di alzarci…”

“Sì. Ho capito.”

Inizio il conto alla rovescia, la ragazza ubbidisce e in un attimo siamo in piedi, diretti verso un presunto interruttore vicino alla porta, che trovo e accendo con un gomito, anche se con difficoltà.

La luce proiettata dalla lampadina sporca è poca e arancione, ma sufficiente per capire dove siamo.

Mi guardo un attimo intorno: una stanzetta di un paio di metri per lato, foderata di scaffali pieni in ogni ordine e grado di scatole, barattoli, lattine più o meno grandi di cibo e bevande. Una dispensa. “Beh, almeno non muoriamo di fame e sete…”, commento, puntando gli occhi su una cassetta di  birra rossa doppio malto olandese.

“Ehm… e adesso?”, sento che chiede lei.

“Hai un coltello, qualcosa per tagliare le corde?”

“No. Però… Aspetta…”

Sento che comincia a muovere le mani e gli avambracci e i tre giri di corda con cui siamo avvolti iniziano a scivolare verso l’alto. Ho capito cosa vuole fare: dalla fretta non siamo poi stati legati così stretti e lei lo ha capito. In un attimo ho la corda attorno al collo e siamo liberi. Poi è un gioco da ragazzi slegarci uno con l’altro le mani, sciogliendo i nodi.

E finalmente, massaggiandomi i polsi, mi giro e la posso guardare in faccia.

Nessun filo di trucco, pelle tanto bianca da essere diafana, ciglia nere lunghe e arcuate, espressione tranquilla, serena. Lei mi sorride un attimo ma poi abbassa subito gli occhi, due stupendi occhi azzurro chiaro.

“Tutto a posto?”, le chiedo.

Annuisce: “Sì-sì.”

“Mi dispiace che tu non riesca ad andare al tuo party di Halloween, sweetie…”, le dico, per rompere il ghiaccio. Ma stranamente la sua espressione tranquilla mi innervosisce, mi mette sul chi vive e mi intimidisce in un qualche strano modo. Io, che non sono timido con nessuna donna e ci provo con tutte. A priori.

La ragazza mi guarda in modo interrogativo: “Scusa, non capisco…”

Cos’è? Una mezza scema? “Ma… non hai preso il tuo vestito per Halloween dal set di ‘Sister Act’? ”

Lei scuote la testa: “No… ehm… no… perché dovrei?”

Mi viene il dubbio: o forse il mezzo scemo sono io? “Ma… non sei vestita in maschera?”

“No. Veramente io…  beh… io… sono una suora per davvero. Una suora delle sorelle di San Francesco, una… una novizia.”

SUORA?!?!?!?!?

Mi batto una mano sulla fronte, strappandomi il foulard ormai ridotto ad un cencio e ficcandomelo nella tasca del giubbotto: “Per la madonna, adesso non posso nemmeno bestemmiare in pace!”

 

 

 

 

Non mi tappo gli orecchi con le mani solo perché un tempo bestemmiavo più di quanto faccia lui, credo. Certe cose escono di bocca senza pensare, dannata e compromessa natura umana, e questo ragazzo mi sembra proprio nervoso: “No, è meglio di no. Non è bestemmiando che usciremo di qui.”, gli dico, tanto per dirgli qualcosa.

Perché quello che voglio fare adesso, è uscire e sparire nella nebbia e non certo fare conversazione. Devo tornare al convento di corsa e poi scordare questa brutta e strana avventura. E allora comincio con il provare a tirare la maniglia della porta. Niente, è chiusa a chiave. E quindi provo a bussare forte alla porta chiamando il barista, ma temo che sia ancora svenuto dietro il bancone, visto che non risponde e al di là della porta non si sente alcun rumore.

Sospiro e mi appoggio all’uscio, girandomi a guardare il motociclista: “Niente. Che si fa?”

“Come ti chiami?”

Certo che altre domande più inutili non poteva farmene, vero? “Ehm… Suor Francesca.”

“Ma il tuo vero nome qual è?”

Non lo direi per nessun motivo al mondo: “Non importa…”

Ma lui insiste: “Voglio saperlo.”

“No, non è importante. Il mio vero nome non esiste più. E il tuo, invece?”

“Shannon.”

Bello.

Ma è un nome da donna, per lui che è uomo al diecimila per cento. Scaccio quel pensiero subito e cerco di non accorgermi di quanto siano belli quei suoi occhi e quelle sue labbra perfette: “Ah, OK… ma… ehm… Shannon… come usciamo da qui?”

“Hai una forcina? Proverei a fare come MacGyver.”

Quasi mi verrebbe da ridere all’idea di Shannon che costruisce una bomba con un barattolo di sottaceti. “Oh, sì… Sì, sì…” Me la tolgo dalla testa e il velo mi scivola e così lo faccio scivolare e lo metto in tasca, mentre gliela porgo e lui la infila nella serratura e si mette ad armeggiare.

Ma la porta non si apre e allora Shannon comincia a guardarsi attorno, buttando la forcina per terra e cominciando ad innervosirsi, ancora di più: “Ma vuoi che non ci sia niente qui che può servire? Un piede di porco, una lima, una leva? Niente di utile in mezzo a tutte queste cose?”

Ci mettiamo a cercare, ma non c’è nulla se non cibi in scatola, e anche l’assalto di Shannon alla finestrella coperta da una grata non dà alcun esito. Mi siedo abbattuta su una cassa di legno sotto la stessa finestrella.

Tutto mi sarei aspettata ma non di restare chiusa in una dispensa con un motociclista tatuato.

Sospiro e prendo il mio rosario di tasca.

Prima o poi qualcuno entrerà in questo bar e capirà cos’è successo, chiamerà la polizia e ci apriranno la porta.

Non c’è nulla che possa fare, al momento.

Sì, una cosa c’è.

Mi faccio il segno della croce e sospiro: non mi resta che attendere.

E pregare.

 

 

 

 

Francesca.

E ovviamente avrà preso il nome da San Francesco, no? Sicuramente. Ovviamente ovvio. Banale, direi…

Mi metto a fissarla: la ragazza ora ha anche preso il rosario e si è messa a pregare e devo dire che il suo atteggiamento mi irrita alquanto. Mettersi a pregare a che serve? Quando mai mi è servito a qualcosa?

Cazzate.

Vado verso il mobile sulla destra e prendo una bottiglietta di quella birra che avevo visto prima, aprendone il coperchietto sul bordo di metallo del ripiano, e ne prendo un lungo sorso, passeggiando per la dispensa.

Avessi almeno il cellulare, accidenti. E invece ho perso anche quello e tutti i numeri delle groupies che ci avevo registrato dentro. Mannaggia!

Mi giro verso di lei: “Perché preghi?”

La ragazza fa spallucce: “Non possiamo fare nulla…”

Le sogghigno: “Se bestemmiare non serve ad uscire, pensi che pregando si apra la porta? Pensi che Dio, con tutte le cose che ha da fare, si preoccupi di me e di te rapinati e chiusi in una dispensa, stanotte?”, scoppio a ridere, “Deve far girare il cielo, la terra e l’intero universo, non ha tempo per noi… non ha tempo per le sue creature…”, lo dico con rabbia e come se quell’ultima parola fosse tra virgolette.

La ragazza abbassa gli occhi e guarda il rosario, indifferente: “Pensa quello che vuoi, Shannon. Non devi convincermi di nulla, come io non sto cercando di convincere te. Io non faccio proselitismo. Tanto meno chiusa in una dispensa.”

Ah, no? Ma io sono irritato, incazzato nero di essere chiuso qui dentro, furioso, di cattivo umore già da prima e devo pur prendermela con qualcuno: “E perché?”, le ringhio contro.

Francesca guarda la luna dalla finestrella: “Perché penso che ognuno trovi la sua fede in qualcuno o qualcosa soltanto quando è il momento… né un minuto prima, né un minuto dopo… il proselitismo non serve.”

Ecco, brava. Mi ha tappato la bocca e questa cosa mi irrita ancora di più. Finisco di bere la birra e poi, con rabbia, getto la bottiglietta contro il muro di mattoni, mandandola in frantumi, vicino a lei. Ma la ragazza non si scompone un attimo. “Perché sei così arrabbiato, Shannon? Perché sei in guerra con il mondo intero?”

Mi giro verso di lei con i pugni chiusi: “NON SONO IN GUERRA CON NESSUNO, PORCO***!”

Ecco! Mi sono saltati i nervi.

 

 

 

 

Mi alzo di scatto dalla cassa e lui viene contro di me. E’ imbestialito e non capisco perché. E la domanda che mi fa la capisco ancora meno.

“Perché ti sei fatta suora?”

Resto un attimo interdetta ma poi alzo le mani per tranquillizzarlo. E’ quasi ubriaco e si sa che gli ubriachi sono poco propensi al ragionamento. Ci provo lo stesso. “Shannon, stai calmo… arriverà qualcuno presto, OK? Non ti agitare…”

“Rispondi.”

E il tono in cui lo dice mi fa quasi paura. Dopo tutto sono sola, indifesa, chiusa in una dispensa con un uomo sconosciuto che si è scolato birra come fosse acqua e che potrebbe essere un maniaco o un assassino: “Ehm… ascolta… non… non mi pare il caso. Né il momento. Stai tranquillo, dai…”

Ma lui si avvicina ancora di più e mi prende per un polso, gli occhi color dell’inferno e i denti stretti: “DIMMELO. ORA!”

Cerco di divincolarmi, ma ottengo solo che lui stringa di più: “Ma… perché… perchè ti interessa?”

“VOGLIO SAPERLO!!!”

Mi divincolo di nuovo, il polso mi fa un male tremendo, ma non riesco a liberarmi e l’espressione di Shannon è sempre più rabbiosa. Va bene. Mi arrendo ma… “Lasciami il braccio, allora…!!!”, gli urlo addosso. Lui ubbidisce, si allontana di un passo e io mi risiedo sulla cassa di legno. Prendo un lungo fiato tremolante. Magari raccontando il tempo passa ed arriva qualcuno, ma... fa male. Fa molto male. “Sei… sei sicuro che vuoi saperlo?”

Shannon annuisce: “Certo che sì.”

“OK.” Prendo fiato nuovamente, respiro col diaframma, cerco un bandolo da cui partire, un inizio da cui raccontare la vicenda. Il mio peccato. Quello per il quale il mio inferno ultraterreno si spalancherà, nonostante sia una suora. Già lo so. “Io… io ho ucciso delle persone.” E mi fermo subito.

“Cosa?”, la voce di Shannon è un sibilo. Si accuccia subito davanti a me, incredulo come se qualcuno lo avesse colpito sulle gambe, una mano appoggiata sulla cassa, gli occhi spalancati. “Cosa hai detto?”

Smetto di guardarlo e abbasso il volto, mi guardo le mani alla luce della luna. “Sì.”

“Ma, ma… Cristo! Sei una suora!!!”, quasi urla.

“Io… non sono sempre stata una suora, io… io sono stata in Iraq, come soldato, tre anni fa. Guidavo un elicottero e… ho bombardato villaggi, ucciso uomini e donne e bambini… E… ne ho viste talmente tante che… beh… odio questo mondo e, non voglio averne più nulla a che fare, ecco…” Mi guardo fisse le mani, senza avere il coraggio di guardarlo in viso, terrorizzata dall’idea della sua espressione, gli occhi che mi si riempiono di lacrime. “Anche se non potrò mai riportare in vita in nessun modo chi ho ucciso. Nessuno. Nessuno di loro. E… beh… l’ho fatto soltanto per avere i soldi, soltanto perché i soldati volontari vengono pagati abbastanza e io all’epoca non avevo un dollaro, ero orfana e...” Mi passo una mano sul viso. “Alla fine ho ucciso per denaro. E ora non voglio più nemmeno quello. Ho fatto voto di povertà.”

Alzo gli occhi: Shannon è lì accucciato davanti a me e mi scruta ad occhi spalancati, con un’espressione che non capisco del tutto. Sorpresa, rammarico, dolore, non so… non capisco… Ma forse non dovevo dirgli queste cose, non dovevo fargliele pesare: “Io… scusami, non… non dovevo raccontarti niente, non…”

Sembra quasi che la sbronza gli sia anche passata. Sembra più calmo e lucido. “Scusami tu. Non avevo diritto di chiedertelo. Non erano affari miei, in fondo… Io… Non volevo farti ricordare… Ma…”

Scuoto la testa, ormai è tardi. E’ tardi per tutto. La mia vita è cambiata troppe volte perché non sia tardi. “Non ha importanza, Shannon… Io, non sono più quella, quella ragazza è morta. Ora sono Suor Francesca. E basta. Il tenente dell’esercito americano Susan Baker, esperta di arti marziali, con tanto di tatuaggio fatto a teschio sul braccio, che scorrazzava per il deserto iracheno sparando a tutto e a tutti, drogata fino al midollo per sopportare quello che faceva, ora… ora non esiste più...”, dico, con amarezza e un dolore radicato nel profondo, sordo e forse totalmente inutile.

Shannon si siede sulla cassa vicino a me. “Ed è per questo che l’hai fatto?”, chiede, sporgendosi verso di me, vicinissimo, a cercare i miei occhi, costringendomi ad appoggiarmi alla parete.

Non capisco cosa dice: “C-cosa?”

“Tu… tu… per questo prima ti sei messa davanti a me? Mi hai salvato dai banditi? Per questo? Per espiare le tue colpe?”

Spalanco gli occhi, non ci avevo nemmeno pensato, non avevo pensato razionalmente di averlo fatto per quello: “Io… non so… l’ho fatto senza pensarci… mi è venuto spontaneo, non so…”

“Ma tu se avessi voluto, avresti potuto…”

Abbasso lo sguardo, ho capito cosa vuole sapere: “Sì… Io… io avrei potuto spezzar il collo ai banditi in due secondi. A tutti e due.”

 

 

 

 

Mi passo una mano sulla fronte. Sono sconcertato.

E una miriade di pensieri mi passano per la mente in un attimo. Luoghi comuni, forse, ma assolutamente veri.

E’ vero che niente è come sembra.

E’ vero che tutto può accadere in un attimo.

E’ vero che la vita è fatta di secondi diversi uno dall’altro.

E’ vero che in questo momento potrei essere morto.

E che Francesca faceva parte di un mondo di morti, portatori di morte.

Io… non avrei mai creduto di entrare nel suo mondo in questo modo. In questa sera assurda, squallida e desolata per me.

Non ci avevo mai pensato, nemmeno quando con mio fratello giravo il video di “This is war”.

Perché la mia vita scorre in modo completamente diverso.

Musica.

Party.

Groupies.

Droga.

Alcool.

Divertimento.

Ma al mondo c’è il resto.

Guerra.

Armi.

Disperazione.

Odio.

Soldati.

Morti.

Paesi lontani nello spazio e nel tempo, per i quali le situazioni che vivo io sono così disgiunte da essere assurde, inesistenti, incredibili.

“Oddio…”, non mi viene niente di meglio da dire, sicuramente non da bestemmiare. Mi metto una mano sulla fronte, sconvolto.

“Io… Shannon… questa cosa che ti ho detto… beh…”

La voce di Francesca è un sussurro e lei abbassa nuovamente gli occhi mentre io mi porto le mani al petto. Come per giurare. “Sì sì… io… non dirò niente… lo giuro… io…”

La ragazza scuote la testa e mi appoggia una mano su un braccio: “No, non è quello… è che… non sentirti in qualche modo colpevole, ecco… Non sentirti in colpa se la tua vita, qualsiasi sia, è diversa da quella che ho avuto io… quando lo racconto la gente pensa che… insomma… pensa che sentirsi in colpa significhi giustificarsi in qualche modo per avere una vita migliore di quella di altri… io… so come ci si sente… e non voglio che tu…”

Francesca ha colpito nel segno. E’ vero. In questo momento mi sento un peso addosso che tutto quello che credevo fosse importante prima, mentre mi piangevo addosso al bancone del bar, è niente. Perché quelle erano solo cazzate, in confronto a quello che deve avere passato lei. E i suoi compagni.

Gettati per soldi in una cosa più grande di loro, orrenda e disumana solo come può essere una guerra.

Una guerra vera.

La ragazza si sposta la frangetta da un occhio e continua: “Una volta un mio compagno d’armi mi ha detto che ognuno nasce con un percorso già in parte segnato e che è solo suo. Lui era induista e mi diceva che i tre guna della prakriti, la materia di cui siamo fatti, generano il tuo karma e il tuo comportamento nella vita. E che i klesah, i tuoi difetti, influenzano il tuo karma e ne sono influenzati… insomma… che in fondo nessuno è colpevole del destino assegnato al momento in cui nasce, ma nello stesso tempo lo diventa. Un peccato originale da espiare e da correggere. Per cui… non sentirti in colpa per la mia vita. Pensa solo alla tua. Solo quella è importante.”

La guardo ad occhi spalancati ed improvvisamente capisco molte cose.

Di lei.

E di me.

Dei molti miei errori ripetuti.

Sempre quelli.

Giorno dopo giorno.

Anno dopo anno.

E che probabilmente si ripeteranno ancora.

E per sempre.

Perché sono fatto così. E non è una giustificazione, ma solo un dato di fatto da cui non si sfugge.

E se voglio migliorare li devo accettare.

Ripartire da essi.

Quasi smetto di respirare.

Le stringo la mano che mi ha appoggiato sul braccio e lei ricambia la stretta, un leggero sorriso.

La guardo fissa negli occhi.

E il tempo si ferma.

E’ bella.

E’ bella la serenità che traspare dai suoi occhi.

E’ bella la certezza di avere trovato una risposta ai propri errori.

La vorrei anch’io.

E sono certo che la troverò.

 

 

 

 

 

Non so quanto tempo passi.

Ma Shannon mi fissa e mi stringe la mano e nessuno di noi si accorge subito che la porta si è aperta e sono entrati due poliziotti.

Ci alziamo di scatto solo quando ci puntano le pile addosso, e loro ci identificano, ci interrogano, eseguono tutta la procedura prevista per il reato di “rapina ed affini”. Sembra che abbiano anche già catturato i rapinatori, chiamato l’ambulanza per il barista, svolto tutte le pratiche… ed in breve ci ritroviamo fuori, liberi anche se frastornati, mentre sto andando verso la fermata del bus con Shannon vicino che mi accompagna, tenendo la sua Ducati per mano.

“Posso darti un passaggio?”, mi chiede, sollecito.

Sorrido: “No, grazie, io… vado in autobus.”

“Dove devi andare?”

“Al convento di San Francesco, in Golden Gate Avenue…”

Insiste: “Ma davvero non vuoi salire e…”

Mi metto a ridere apertamente: “No, Shannon. Se mi vedessero arrivare in moto con te, la madre superiora chiamerebbe l’esorcista e una fila di frati, dai…”

Shannon scoppia a ridere anche lui e non posso fare a meno di pensare a tutte le donne che smanierebbero per vederlo ridere con loro come adesso ride con me. Mi fermo davanti al cartello della fermata e mi giro a guardarlo, mentre dal fondo della via vedo comparire il mio autobus.

E mentre guardo quei suoi occhi un po’ persi, metto una mano in tasca e prendo una cosa. Perché mi è venuto in mente di fare questo non so, ma sento che è così. Poi gli prendo una mano e gli metto attorno al polso il mio rosario, un filo di elastico con perline di legno blu e marroni e una croce, che subito si confonde in mezzo agli altri bracciali che ha.

Se lo tocca, come a contare le perline: “Ma… é… il tuo…”

“Sì, un rosario… Viene… viene da Medjugorie. Dal Santuario della Regina della Pace. E… ti auguro di trovare la tua pace, Shannon.”

Poi salgo in autobus e lo saluto con la mano dal finestrino.

 

 

 

 

(30 Novembre 2010)

 

Il convento delle Sorelle di San Francesco non dista poi molto da casa mia, ma non credo di esserci mai passato davanti, altrimenti mi ricorderei la sua facciata bianca, il giardino con le siepi basse e quella chiesa di mattoni rossi sulla sinistra che fa a pugni con il resto dell’architettura della via.

Parcheggio la Ducati sul marciapiede lì davanti e, con circospezione, mi avvio verso la porta, mentre mi tolgo il casco e gli occhiali.

Solo due ore fa scendevo dall’aereo che atterrava e ora sono qui.

Perrchè devo restituire a Francesca il suo rosario.

In teoria.

In pratica è solo una scusa.

Una scusa per rivederla e parlare con lei, dopo un mese da quanto successo la sera di Halloween.

Non so perché lo faccio, ma, tornato dalla tournee ne ho sentito il bisogno. Perché devo raccontarle che ho capito quello che voleva dirmi… che ho capito tutto e…

E allora suono il campanello, convinto.

E la suora che mi apre la porta non è poi tanto diversa da una di quelle del film di “Sister Act”, ma non ha la stessa espressione simpatica, visto che questa mi guarda in modo piuttosto circospetto, per non dire in cagnesco.

“Buonasera, desidera?”

“Buonasera, io… cercavo…”, mi blocco subito. Cercavo chi? Come posso dire? Una ragazza, una donna, una signorina? Che diavolo dico? “Cercavo… ehm… suor Francesca…”

Lo sguardo della suora/custode/portiere si fa ancora più sospetto e penso che, se potesse, imbraccerebbe volentieri un fucile a canne mozze e mi sparerebbe altezza ginocchia per farmi allontanare: “Suor Francesca?”

“Ehm… sì…”

Scuote la testa, uscendo di più dalla porta: “Qui non c’è nessuna suora di nome Francesca.”, proclama, sicura.

Sono forse nel convento sbagliato? Non sono pratico di queste cose, di night club, forse, ma di conventi no… “Ma… è questo il convento delle Suore di San Francesco di Golden Gate Avenue, giusto?”

“Sì.”

“E allora qui…”

La suora non mi lascia nemmeno finire: “No. Non c’è attualmente una suora con quel nome, le ripeto…”

“Ma… è giovane, castana, con gli occhi azzurri e…”

Scuote la testa nuovamente: “No, mi dispiace. Non c’è nessuno che corrisponde alla descrizione.”

Non capisco più niente, ma insisto. “E’ una novizia…”

“No, mi dispiace, signore. Arrivederci.”

E mi chiude la porta in faccia.

Dopo un attimo, mi giro e ritorno verso la moto.

Sono frastornato.

Ma… non può essere… non può essere… io…

Francesca mi aveva detto che era questo il suo convento e poi l’ho anche vista prendere l’autobus che porta qui, per cui…

Le suore non mentono, no? Non possono! E’ peccato!

Ma perché lei qui non c’è?

Mi fermo vicino alla moto e guardo il mio polso sinistro: il rosario di legno di Francesca è qui ed è la prova che lei esiste e che la sera di Halloween è stato tutto reale e…

Improvviso mi sorge il sospetto che la suora custode non mi dica la verità. Decido di tornare sui miei passi ed interrogarla di nuovo, magari con più veemenza, ma una inconsueta nebbia è calata attorno a me, non vedo più la porta del convento e le luci della strada sono diventate lattiginose. Vedo soltanto una strana luna crescente in un cielo azzurro scuro, il cielo del tramonto, esattamente come la sera che ho incontrato lei.

E capisco tutto.

E allora prendo la moto e me ne vado.

A combattere la mia guerra.

Per trovare la mia pace.

 

 

 

 

Scosto lentamente le tende della portineria e, tra i fantasmi di nebbia, lo vedo salire in moto.

“Come facevi a sapere che sarebbe venuto?”. Suor Maria, la madre superiora, è una donna di mondo.

Scuoto la testa: “Non so. Ma me lo sentivo. Gli avete detto…”

Annuisce e mi si avvicina: “Sì, Francesca. Come concordato…”

“Grazie, madre.”

“Ho detto una bugia per te. Sai che non dovrei…”

“Mi dispiace, madre. Ma era a fin di bene.”

“Sì, lo so, ma sei sicura di aver…”

“Fatto la scelta giusta? Sì, sono sicura. Ognuno deve trovare la sua pace. E Shannon deve farlo da solo. Non posso farlo io per lui. Nessuno può farlo. Lui deve combattere la sua guerra, per trovare la sua pace.”

Senza pensarci, gli mando un bacio con la mano.

E chiudo la tenda, mentre le luci posteriori della sua moto spariscono in fondo alla strada.

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 









   
 
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