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Autore: Tsukuyomi    06/05/2011    5 recensioni
Salve a tutti! Finalmente prendo coraggio e pubblico.
Questa fanfic mi ronza in testa da tanto di quel tempo che ormai si scrive da sola.
Per il momento avrete sotto agli occhi dei futuri Gold Saint, ancora bambini e innocenti (più o meno), alcuni ancora non si conoscono e altri sì, alcuni sono nati nel Santuario e altri no, alcuni dovranno imparare il greco e, di qualcuno, non si sa per quale recondito motivo, non si conosce il nome. Spero che apprezziate. La storia è ambientata ai nostri giorni, per cui, le vicende conosciute avranno luogo nel futuro.
Genere: Comico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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21 - 8 - Cuspide Milo sedeva su uno scoglio. Al tramonto, andava spesso a guardare il mare e i contorni di Antimilos. Sapeva che oltre quell’isola -  al di là del mare - c’era Atene, il luogo dove era nato e dove avrebbe presto fatto ritorno.
Alla sua destra, il sole svaniva oltre le altre isole.
«Stasera non si mangia?» il maestro gli sbucò alle spalle.
Milo perse l'equilibrio e rovinò per terra. Il cuore batteva all'impazzata, dandogli l'impressione di dover saltare fuori dalla gola. «Mi avete spaventato!» disse.
L’uomo rise. «Suvvia, che razza di cavaliere saresti? Non ti accorgi che ti arriva qualcuno alle spalle. E se fossi stato un nemico?»
«Vi avrei ucciso.» rispose, corrugando la fronte in un cipiglio con delle potenzialità, nel tentativo di mostrare un sangue freddo e una risolutezza che ancora non aveva. Avrebbe potuto spaventare qualcuno un giorno. Si tirò nuovamente a sedere sullo scoglio.
«Da morto?» domandò il maestro con ironia.
Milo abbassò il volto fino a fissare il sasso che aveva tra i piedi, prolungamento di quello su cui era seduto.
Il maestro lo affiancò e si sedette accanto a lui, spingendolo giù con la coscia. Quando Milo toccò terra, l'uomo si lasciò andare a una risata. «Ma che ti sto allenando a fare?»
Milo berciò una risposta, tirò su le ginocchia e vi poggiò sopra le braccia, unendo le mani, arrabbiato. E pensare che era caduto per far felice il maestro. Avrebbe potuto benissimo allungare una gamba e rizzarsi in piedi. Però c'era qualcosa di tenero in quelle ridicole scenette col maestro, qualcosa che gli ricordava il Santuario e tutto quello che di buono era connesso a esso.
Le punizioni, i rimproveri, gli obblighi: tutto era svanito nei ricordi; e non era interessato a recuperarli.
Milo non sapeva, che come lui, tutti erano partiti dopo aver sancito una promessa, solo che Milo era l'unico ad aver avuto dei dubbi sulle sue capacità di tenervi fede. Quando riusciva a essere davvero sincero con se stesso, si rendeva conto di quante cose non sapesse ancora fare.
Al Santuario si era drogato con le storie sui vecchi cavalieri d'oro, quegli eroi che a distanza di centinaia d'anni venivano ricordati come veri e propri salvatori. Aveva scoperto di essere stato uno dei pochi  potersi soffermare in uno dei Dodici Palazzi, e in cuor suo aveva riconosciuto uno strano sentimento di appartenenza. Si era reso conto di essere in grado di ritrovare la costellazione dello Scorpione ovunque essa fosse in cielo, in ogni momento, come se un sottile filo di energia li collegasse.
Eppure, nonostante quei piccoli privilegi che reputava unici e intoccabili, qualcosa gli rodeva lo stomaco e gli impediva di focalizzare quale fosse l'obiettivo ultimo del suo addestramento.
Coscientemente, sapeva che al termine del viaggio - se si fosse mostrato degno - avrebbe indossato un'armatura d'oro, ma qualcosa gli bloccava la strada.
«Milo, cosa rimpiangi?» domandò il maestro, poggiandogli una mano sulla spalla e scuotendolo leggermente.
«Niente.»
«Non sembra. Ogni sera, vieni qui. Ti siedi e fissi il mare. Guardi verso Atene.»
«È solo un posto.»
«Uno come tanti?»
«Già.»
L’uomo gli scompigliò i capelli. «Ci tornerai presto, devi solo impegnarti. Quando mi dimostrerai di essere in grado di possedere appieno il settimo senso e di saperlo gestire, tornerai al Santuario, e dimostrerai a tutti di essere il migliore, l’unico degno dell’armatura dello Scorpione.»
Parlava facile il maestro! Il settimo senso lo rincorreva da tempo, però ogni volta che aveva l'impressione di averlo raggiunto, di essere a un piccolo passo dalla meta, il bersaglio veniva nascosto da una densa nebbia scura. Poteva prendere la mira e tirare a caso, ma non avrebbe mai fatto centro.
Il maestro, nel vedere l'ostinata apatia del discepolo, sospirò e gli strinse i capelli, poi li tirò verso l'alto. «Allora,» avvicinò la faccia a quella di Milo. «Andiamo a procurarci al cena o rimaniamo qui a far niente?»
«Andiamo, andiamo!» gridò Milo, mentre l'adulto lo trascinava lontano dallo scoglio, stretto per i capelli.
Dopo qualche lamentela, il ragazzino ottenne di potersi spostare con le proprie gambe; scesero dalla rupe dove torreggiava lo scoglio e si addentrarono nel cuore dell'isola, tra i tronchi degli alberi.
Tra i rami, s’intravedeva il disco lunare sorgere. Uscirono su una radura e trovarono una gigantesca luna color miele a rischiarare la notte.
Milo rise e corse verso un'altra rupe, poco lontana. «Maestro!» gridò per attirare l'attenzione del maestro, che in riposta gli tirò un sasso sulla testa.
«Vuoi far scappare ogni animale nel raggio di un miglio!?» lo rimproverò, urlando e smorzando la voce allo stesso tempo.
Milo si massaggiò il bernoccolo. «Non c'era bisogno di tirarmi un sasso!»
«La vedo, Milo, non sono cieco. Non inciamperemo, ma sbrighiamoci a cacciare.» disse il maestro, come se stesse rispondendo alla chiamata per vedere la luna, lasciando Milo confuso, che rispose:
«Ho fame anche io.» 
«E non potevi cacciare invece di piagnucolare su quel sasso?!»
«Non stavo piagnucolando!»
«Ti allenavi? Meditavi? Non mi è parso. Non perdere tempo, prima sarai in grado di padroneggiare il settimo senso e prima tornerai al Santuario.»
Milo non rispose e lo precedette nel bosco.
Avanzò silenziosamente, tra gli alberi. Fu attento a non calpestare rametti. Trovò un rifugio sicuro tra un tronco marcescente e un cespuglio, e vi si intrufolò. Si fece circondare dai rumori della foresta.
Chiuse gli occhi e attese.
Un gufo bubolò pochi metri sopra di lui, e poco dopo udì la risposta dell’assiolo. Il gorgoglìo di un corso d’acqua vicino attutiva i rumori più flebili, finché Milo non riconobbe il rumore di passi. Sarà il maestro? Si concentrò fino a visualizzare il cosmo del maestro, a qualche centinaio di metri da lui. Foglie secche calpestate. Quattro zampe.
Trattenne il respiro. I passi si fecero più vicini e non li udì più. Dilatò i polmoni. Immagazzinò aria a sufficienza per una nuova apnea. Sollevò lentamente il braccio destro, portandolo all’altezza degli occhi. L’unghia dell’indice si allungò e mutò colore, diventando rosso pallido. È vicino. Sentì di nuovo il rumore dello spostamento, poi un grugnito. Dietro di me!
Si alzò in piedi, si girò e puntò il dito, verso l’animale. Un sottile raggio rosso illuminò i tronchi degli alberi, ne trapassò due e subito dopo udì il corpo cadere.
Con un salto, si lasciò indietro il tronco che gli aveva offerto riparo e andò a controllare la sua preda. Un cinghiale, proprio come pensava.
Strappò  un ramo di edera che cresceva a spirale attorno a un grosso leccio, e legò assieme le zampe posteriori dell'animale.
Non era molto grande, riuscì a caricarselo su una spalla tirandolo grazie al laccio d'edera.
Tornò alla radura e lì trovò il maestro coricato sull’erba, con le braccia piegate sotto la testa, intento a rimirare il cielo, cercando le stelle che la luce della luna copriva.
«Andiamo a cacciare! Andiamo! E poi faccio tutto io.» borbottò con sarcasmo.
Il maestro si girò e gli sorrise. «Ho trovato una famigliola di cinghiali; non aveva senso ucciderne due, quando uno ci è più che sufficiente per qualche giorno.»
Milo arricciò le labbra e scaricò la preda ai piedi del maestro, che si chinò sulla carcassa e prese tra le mani il muso della bestia. Un rivolo di sangue colava da un forellino tra gli occhi.
«Gli hai trapassato il cervello.» disse. «Vedi che quando vuoi sei in grado di fare qualunque cosa?»
«Io sono sempre in grado di fare qualunque cosa.»
«Tranne padroneggiare il settimo senso.»
Milo si morse la lingua per non rispondere a quella che per lui era una provocazione.
«Torniamo a casa.» disse il maestro. Si caricò il cinghiale su una spalla e precedette il discepolo, che lo seguì come un’ombra.

Macellarono la bestia e cenarono. Attorno al fuoco, mentre Milo finiva di rosicchiare una costola, Kaitos, cospargeva di sale la carne avanzata.
«Domani ti sottoporrò a una prova.» gli disse.
«Va bene.» rispose Milo e osservò l’osso. Non vi era che un brandello di carne ancora attaccato su un lato. Con un solo morso lo strappò e gettò il resto nel fuoco.
«Non mi chiedi il motivo?» il maestro sollevò il volto.
«Volete vedere a che punto è la mia preparazione.»
«Esattamente. Conto di rispedirti ad Atene il prima possibile, non sono fatto per prendermi cura di qualcuno.»
Si alzò e ripose il secchio con il sale in un angolo della casupola, poi tornò a sedersi al centro della stanza, dove scoppiettava il fuoco. Prese il resto della carne e la appese a due ganci che pendevano dal soffitto della capanna.
Milo lo seguì con lo sguardo. «Posso farvi una domanda?»
Kaitos si avvicinò a una cassapanca e tirò fuori un sacchetto di canapa e un piccolo rettangolo di carta. Tornò sedersi accanto al fuoco.
«Dimmi.»
«Siete un cavaliere?»
Incrociò le gambe e poggiò il sacchetto sulle caviglie, lo aprì. «Sì.» estrasse una cartina dal rettangolo e la poggiò su una coscia. «Vuoi sapere a quale costellazione appartengo?» sollevò lo sguardo per guardare il discepolo.
Milo annuì, Kaitos estrasse una manciata di tabacco e lo posizionò sulla cartina. Richiuse il sacchetto.
«Cosa ti suggerisce il mio nome?»
«Balena.»  rispose Milo.
Kaitos sorrise e arrotolò la cartina, finché la sigaretta non fu pronta. La portò alla bocca, allungò una mano verso il fuoco e afferrò un tizzone con i polpastrelli. Accese la sigaretta e lo ributtò tra le fiamme.
Milo sgranò gli occhi. «Come avete fatto?»
«Sei proprio il peggior discepolo che potessi avere!» rise. Fece una tirata e sputò una nuvola di fumo, che si unì a quello del fuoco. Porse la sigaretta a Milo. «Vuoi?»
«No. Fa una puzza orribile.» disse storcendo il naso.
«Sì, hai ragione.» e fece un altro tiro. «Milo, tu hai un cosmo ampiamente più potente del mio, ma non comprendo cosa ti blocchi. Afferrare un tizzone ardente, non è un’impresa sconvolgente, neanche per un cavaliere d’argento. Forse potrebbe esserlo per uno di bronzo, di sicuro lo è per un comune essere umano. Tu non dovresti avere problemi. Prova.»
Milo allungò una mano verso il fuoco. A pochi centimetri da esso, tirò la mano indietro. La agitò un paio di volte e riprovò.
«Non ci riesco.» ammise.
«Sciocchezze! Hai paura di scottarti. Finché non ti entrerà in quella testaccia che tu non sei una persona normale, non riuscirai mai a prenderlo.»
Milo lo guardò come se avesse appena detto una bestemmia. «Persona normale?»
Kaitos fece un tiro. «Sì, tu pensi di essere una persona normale.»
«Io sono un prescelto a diventare un cavaliere d'oro.» disse con orgoglio, sentendosi quasi offeso dall'illazione del maestro. Eppure sapeva che il maestro aveva ragione.
«Io non so cosa ti blocchi, Milo. E a questo punto non ho neanche idea di cosa tu sappia. Se sai di essere un prescelto, se sei cosciente di avere la mano di Atena sulla testa e di essere stato benedetto dalla sua luce, quale cazzo di motivo ti convince di essere tutto meno quello che sei.»
Milo abbassò lo sguardo.
«Guardami in faccia! Ora, tu metterai la mano nel fuoco e prenderai in mano un tizzone. Se sarà necessario dimostrarmi che non sto perdendo tempo, lo inghiottirai intero. E se - per caso - dovessi credere seriamente che sei inutile, ti rispedirò ad Atene domani stesso!»
Volse il palmo della mano verso il fuoco, con velocità, in un gesto che voleva essere sia un invito che un ordine.
Milo soppesò le parole del maestro e allungò di nuovo una mano
«Concentra il cosmo sulla punta delle dita, poi su tutta la mano. Come quando usi la cuspide, o ci provi.» sussurrò.
Milo obbedì e chiuse gli occhi. Il braccio iniziò a brillare. Un cosmo rossastro avvolgeva il braccio, con piccole scintille dorate.
«Concentrati ancora. Di più!»
Strinse gli occhi, corrugò la fronte. La punta delle dita divenne dorata, poi la mano e il braccio. Continuò a concentrarsi finché tutto il suo corpo non emise luce dorata. Allungò ancora una volta la mano finché le fiamme non gli lambirono la pelle e le fasce attorno al polso. Non avvertì il calore del fuoco.
Raccolse un tizzone e lo fece ricadere, soddisfatto aprì poi la mano e la riempì di braci. Le strinse tra le dita e le fece ricadere, le riprese e ci giocherellò ancora.
«Era tanto difficile?» Kaitos diede un ultimo tiro alla sigaretta e la buttò in mezzo alle fiamme.
Milo svuotò la mano. Piano piano, il bagliore svanì.
«Cosa ti blocca, ragazzo?» il tono di Kaitos era più tranquillo. Milo gli aveva appena dimostrato di avere davvero del potenziale e di essere davvero un prescelto.
«Non lo so.»
«Io credo che sia paura. Fai troppo affidamento sulle emozioni, sulle sensazioni e sui tuoi timori. Non devi. Mai. In battaglia, saper tenere lontani i sentimenti, potrebbe voler significare riportare la pelle a casa.»
«Ma come posso fare?»
«Intanto impara a usare il cosmo. Da ora in poi, voglio che tu riesca a padroneggiarlo completamente; espanderlo e contrarlo. Come se fossi sempre in pericolo di vita.» Fissò le fiamme danzare, poi cercò lo sguardo di Milo. «Ora sarà meglio riposarci un po’.»

La mattina successiva, Kaitos uscì di buon ora. Si recò nel luogo dove Milo era solito sedersi al tramonto e distrusse lo scoglio sul quale sedeva. Al suo posto lasciò un grosso cratere.
Andò a svegliare Milo al sorgere del sole. Era intenzionato a far migliorare seriamente il discepolo; ormai era lì da diversi mesi e non aveva fatto nessun miglioramento significativo. Solo di tanto in tanto riusciva a usare la puntura dello scorpione e generalmente ci riusciva dopo essere stato sgridato.
Ogni qualvolta l'orgoglio di Milo subiva un'incrinatura, allora Milo vi poneva rimedio, compiendo imprese straordinarie. L'unica cosa che Kaitos poteva fare era di mettere il discepolo nelle condizioni giuste e fargli comprendere cosa fare.
Sicuramente, non trovare lo scoglio sul quale sedeva, lo avrebbe fatto arrabbiare. Dalla rabbia sarebbe nata la voglia di rivalsa per quell'onta  e forse sarebbe riuscito a insegnare a Milo come controllare meglio il cosmo.
Milo lo raggiunse sulla spiaggia, quando il sole comparve completamente all’orizzonte.
«Ricordi cosa ti ho detto ieri?»
«Sì, che mi avresti messo alla prova.»
Kaitos annuì. «Combattiamo.»
Milo trasalì; Kaitos gli corse incontro e gli tirò un pugno, che lo colpì sullo sterno.
Il ragazzo volò a qualche metro dal punto di impatto e atterrò di schiena. La forza del colpo fu tanta che prima di fermarsi lasciò un solco sulla sabbia.
«Rialzati!» gridò il maestro.
Milo obbedì, ma prima che fosse pronto a combattere, Kaitos si lanciò nuovamente all’attacco. Sferrò un calcio diretto alla testa, ma Milo sollevò le braccia e riuscì a parare il colpo. Venne spinto via, ma rimase in piedi nonostante il contraccolpo. Milo si diede uno slancio, sfruttando l'energia ottenuta dalla parata, e ricambiò il calcio, sfiorando il fianco del maestro.
«Sei troppo lento, Milo! Svegliati!» durante la schivata si girò e allungò una ginocchiata sul costato del ragazzo, che stramazzò a terra.
Si mise in ginocchio, perse quasi l'equilibrio. Premette la mano contro la parte lesa, pochi centimetri sotto l'ascella. La compressione gli aveva tagliato il respiro, e il dolore gli impediva di respirare bene e a sufficienza. Fece leva sulla gamba sinistra, ma questa cedette, risentendo dell'impatto. Si aiutò con una mano e fu di nuovo in piedi, malfermo.
«Colpiscimi. Dimostrami che in questi mesi hai imparato qualcosa. Combatti ancora come un moccioso. Non ti serviranno a niente le nozioni apprese al Santuario se non le applichi! E dovrai migliorarle.» Kaitos lo stuzziccò, nella speranza che la beffa lo facesse reagire. Ritto in piedi, con le braccia incrociate al petto, fronteggiava Milo. «Sei o non sei uno scorpione?» lo punzecchiò ancora.
Milo arse il cosmo. Digrignò i denti, furioso. Come la sera prima, emise un bagliore rossastro che andava ingrandendosi, fino ad abbracciare il corpo nella sua interezza. Mano a mano che il cosmo  bruciava, diventava sempre più definito come forma e come colore. All'improvviso, Milo si trovò dentro una bolla di energia pura rosso scarlatto e a forma di scorpione.
Il ragazzo si lanciò all’attacco: saltò e sferrò un pugno diretto al volto del maestro, che venne parato e trattenuto. Fermo a mezz'aria, in balia del maestro, Milo ne indirizzò un pugno alla gola di Kaitos con la mano libera, ma venne deviato con un colpo di mano verso l'esterno.
Kaitos fu costretto a cambiare guardia e mollare il polso del ragazzino, che grazie a entrambe le mani libere poté iniziare un lungo uno-due contro il maestro, mirando alla testa, alla gola e allo sterno.
Lo scopo era fare male, molto male, e poi imparare da quei dolori durante la guarigione, per soffrire di meno in futuro.
Kaitos  parava i colpi uno dietro l’altro, buttando uno sguardo, di tanto in tanto anche verso le gambe di Milo.
Entrambi stavano bruciando il cosmo, e Milo possedeva qualcosa di incredibile: la facoltà di muoversi alla velocità della luce, dono del raggiungimento del settimo senso.
Anche Kaitos era in grado di usare il settimo senso, per pochissimi minuti e dopo lunghissimi periodi di concentrazione paragonabili all'ascetismo, però aveva imparato a riconoscere quella strana sensazione. Milo si muoveva alla velocità della luce, e per sua fortuna si limitava. Kaitos non capiva se il limite autoimposto fosse dovuto al desiderio di non ucciderlo o fosse qualcosa di cosciente, solo una lezione da discepolo a maestro.
I pugni di Milo divennero una sequenza indistinta, il ragazzo sembrava fermo a mezz'aria. Kaitos non riuscì più a tenere lo stesso livello di concentrazione, e non si accorse del calcio che gli dislocò la mandibola, scagliandolo a terra, di schiena.
Milo rimase sul posto, piegato in avanti, in equilibrio su una gamba sola e l’altra - quella destra - sollevata all’indietro, come fosse il pungiglione di uno scorpione, sbucava dietro la testa.
Kaitos sorrise e si alzò. «Vedo che inizi a capire.»
Mentre si massaggiava il mento, si alzò in piedi, portò i pugni all’altezza della faccia e divaricò le gambe; un riverbero di luce argentata si propagò da lui, infine invitò il discepolo ad attaccare ancora con un cenno della testa. Se non sto attento, mi uccide, pensò.
Osservò Milo attaccare ancora, ma dopo un’altra serie di scambi rapidissimi non fu più in grado di vederlo, si spostava a una velocità di molto superiore alla sua e sembrava non avesse un limite di tempo. Quando Milo rallentò, accorgendosi forse di aver superato il maestro, Kaitos approfittò della distrazione, lo afferrò per un braccio e lo lanciò in aria.
«Kaitos spouting bomber!» gridò, e subito dopo un getto d’acqua si sollevò dalla sabbia, scagliando verso l'alto il corpo di Milo che, una volta raggiunta l'altezza massima, si apprestò a ridiscendere.
Milo cercò di muoversi, sbracciandosi per allontanarsi dall’occhio del mulinello d’acqua che lo aveva imprigionato, ma la corrente era forte e lui si scoprì essere incredibilmente stanco.
Kaitos non infierì oltre e si spostò, lasciando che il ragazzo rovinasse con la faccia nella sabbia.
«Hai peccato di superbia, Milo.» gli disse avvicinandosi. Lo tirò su afferrandolo per il colletto della maglia. «Però sei stato bravo.»
Milo sputò la sabbia e tossì. «Perchè non mi avete colpito?» domandò, dandosi qualche colpo sul torace.
«Perchè devo insegnarti ancora un mucchio di cose. Avrei potuto ucciderti.» Kaitos si voltò. «Rifletti su quello che è successo»  e andò via.
Il ragazzo rimase da solo, seduto sulla sabbia. Il sole era ancora basso, ma accecante se guardato direttamente.
Mesto, decise di fare un bagno: si trascinò sulla battigia e si tuffò in acqua.
Si immerse del tutto, poi si levò con cura la sabbia che gli si era incastrata tra i capelli. Solo quando fu soddisfatto si lasciò andare, lasciandosi trasportare dall'acqua. Galleggiava.
Avvertì una fitta al costato, mosse una mano per toccare il punto dolorante e affondò. Si mise in piedi e sollevò la maglia: un grosso livido si spandeva sul lato del torace.
«Dannazione.» soffiò tra i denti. Faceva davvero male.
Kaitos gli aveva ordinato di riflettere sullo scontro, ma non ne aveva voglia. Si sentiva umiliato per la sconfitta. Dove ho sbagliato?
Aveva cercato di seguire gli insegnamenti, ma aveva sbagliato in qualcosa. Pensò di non avere la stoffa del cavaliere, in fondo non era scritto da nessuna parte che proprio lui sarebbe diventato un cavaliere d’oro. L’armatura dello Scorpione avrebbe potuto volere qualcun altro.
Si sedette sulla battigia, con le gambe allungate. L’acqua massaggiava i muscoli ancora contratti per lo sforzo.
Non sono stato male, l’ho colpito.Mi sono mosso molto più velocemente di lui. Dove diavolo ho sbagliato? si chiedeva in continuazione, e a forza di pensarlo, senza rendersene conto, iniziò a parlare ad alta voce, rivolgendosi sempre a se stesso, ma guardando il mare e il sole tramontare.
Ripassò mentalmente in rassegna le immagini dello scontro. Il calcio ricevuto, la ginocchiata. Le contromosse del maestro. Il suo cosmo espandersi come mai prima di allora.
Sgranò gli occhi e fece una smorfia di delusione. Il suo cosmo non era diventato dorato, ma rosso. Attribuì a quello strano cambiamento di colore la sua sconfitta. Forse il maestro avrebbe potuto spiegargli cosa era successo, e andò a cercarlo. Lo trovò intento a inalzare un muro a secco.
«Kaitos, voi sapete perchè ho perso?»
«Ovviamente.» poggiò una grossa pietra sul terreno, e spinse di modo che penetrasse bene nel terriccio.
«È stato il mio cosmo?»
«No.»
Non si aspettava quella risposta. Era convinto di aver capito.
«Il tuo cosmo non c’entra niente. Eppure mi sembra di averti detto una cosa alla fine del combattimento.» Attese qualche secondo, per verificare che Milo avesse capito, poi continuò: «Mi hai sottovalutato, Milo. Quando hai visto che non ero in grado di starti dietro, anzichè finirmi, hai rallentato. Ti stavi muovendo alla velocità della luce, per me è impossibile vederti per più di un istante se ti muovi a quella velocità.»
«Velocità della luce?»
«Esatto. Avevi la velocità di un cavaliere d’oro, ma non hai voluto colpirmi. Non volevi farmi del male e hai pensato di combattere ad armi pari. Grosso errore.»
«Ma vi avrei ucciso!»
«E allora? Io ho quarant’anni. Ormai sono vecchio per combattere. Non riuscirei a sostenere un combattimento tanto a lungo come potresti tu o un qualunque cavaliere inferiore. Presto la mia armatura verrà assegnata a qualcun’altro.» Fece cadere un grosso sasso e ci si sedette.
«Cosa significa?»
«Alla prossima guerra, io morirò. Quindi devo decidere una cosa e devo farlo in fretta: morire per mano tua, affinché tu sia cavaliere, o morire in battaglia chissà quando, magari ancora più vecchio e inutile. Ma credo di aver già deciso.»
«Combatteremo insieme. »
«Mi piacerebbe. Ma perchè succeda, devi imparare a colpire. Uno scorpione non teme di uccidere quando colpisce. Se non uccidesse, verrebbe ucciso. Lo stesso vale per te.» si asciugò il sudore dalla fronte col dorso della mano.
«Io non voglio uccidervi.»
«L’ho capito, Milo. Per questo ho voluto darti quella lezione poco fa.»
Kaitos si sollevò in piedi, mosse una gamba avanti e accennò un altro passo, ma rimase fermo. «Ma che diavolo!?»  abbassò lo sguardo e si vide circondato da sottili anelli rossi, che emanavano una flebile luce dorata.
«Mi insegnerai ancora?» tuonò Milo. Aggrottò le sopracciglia, la sua espressione divenne rabbiosa.
«Che significa?»
«Rispondi!»
Kaitos rise. «Mi manchi anche di rispetto, ora!»
Milo si concentrò e gli anelli divennero più stretti. Aderirono al corpo di Kaitos, serrandogli il respiro. Arse il cosmo, ma quello di Milo era troppo potente da contrastare.
«Mi allenerai ancora?» ripeté Milo. Le sopracciglia aggrottate e il naso arricciato.
«Immagino che non accetteresti un no come risposta.» scherzò Kaitos, e gli anelli divennero ancora più stretti.
«Mi allenerai?»
«D’accordo, ma solo perché è il volere di Atena e non di uno moccioso viziato e arrogante!»
Milo alleggerì la morsa degli anelli, finché non scomparirono.
Kaitos gli andò vicino e sorrise. «Ci sarà da divertirsi, d’ora in poi.»

Pochi mesi ancora e Milo sarebbe stato pronto, erano trascorsi due anni e qualche mese dal suo arrivo e forse sarebbe stato tra i primi a rientrare al Santuario.
Non disse niente riguardo la roccia distrutta da Kaitos, semplicemente smise di sedercisi sopra nei primi giorni, limitandosi a mandare i suoi pensieri al di là del mare in piedi, e dopo qualche giorno aveva smesso di recarcisi.
Iniziò a usare il tempo per allenarsi e meditare, seguendo alla lettera le parole e gli insegnamenti di Kaitos, che a dispetto dei modi a volte un po' burberi, si rivelava essere sempre più gentile e paterno.
In mezzo al bosco, creò una radura, dove si sedeva dando le spalle a due ginepri e fissava un punto davanti a lui.
Dopo qualche minuto, serrava le palpebre e si concentrava sempre di più, finché non riusciva a trovare quella forza che si agitava in lui. Con il tempo, divenne automatico trovarla. Non aveva più bisogno di concentrazione. Finalmente era padrone del settimo senso. Dal giorno, Milo non ebbe più nessun problema a sprigionare l'energia che la costellazione alla quale era legato gli metteva a disposizione.
L'aveva sognata, ne era certo, anche se il sogno si era rivelato essere troppo ermetico. L'unica cosa che aveva avuto senso era il deserto; lì vivevano gli scorpioni più pericolosi, quelli più forti e temibili e lui era uno di essi. Finché il suo piede sarebbe stato capace di colpire un bersaglio davanti alla sua faccia semplicemente piegandosi leggermente in avanti, finché l'unghia fosse rimasta così com'era diventata quando lanciava Antares, rossa, lunga e lucida, avrebbe fatto quello che ci si aspettava da lui, e lo avrebbe fatto con letale precisione.
Ora, doveva solamente tornare in Grecia, affrontare il torneo e uscirne vincitore, così come aveva promesso spesso, negli ultimi tempi, al maestro.
Quando la data della partenza fu fissata, Kaitos lo raggiunse nella radura.
«Perchè non ti godi l’isola? È l’ultimo giorno che trascorri qui, potresti andare in città a fare un giro.»
«La città la vedrò domani, e sarà Atene!» trillò tirandosi in piedi.
Kaitos sorrise. «Hai capito cosa ti bloccava?»
«Sì. La nostalgia. Non capivo che mi rallentava. Tutte le mie forze le dedicavo nello struggermi in ricordo dei miei amici e del Santuario. Mi ci è voluto un po’ per capire che prima avrei raggiunto stabilmente il settimo senso e prima sarei tornato.»
«Quindi l'orgoglio non c'entrava niente?» lo prese in giro.
Milo rise. «D'accordo, forse sono un po' troppo orgoglioso. E pecco di superbia ogni tanto, prima che lo dica tu.»
I due si allontanarono in direzione della capanna che avevano condiviso fino ad allora, quando Milo si fermò di colpo.
«Che c'è?» domandò il maestro.
«Grazie per aver distrutto la roccia.»
«E di che! Non la sopportavo proprio! Copriva una spiaggia dove le turiste nuotano nude. Era solo un impiccio, lo era sempre stata.»
Fu Milo a sorridere. «Pervertito. Non capisco cosa ci trovi di tanto interessante.»
Il maestro gli poggiò una mano sulla spalla. «Vedi Milo, ci sono cose che un bambino di sei anni non considera, alle quali neanche pensa, ma tra qualche anno sbaverai dietro a ragazze come quelle che fanno il bagno nude, riverserai litri di bava su di loro, le rincorrerai e se il mio allenamento ti ha trasmesso anche la mia fortuna con le donne, ti prenderanno a calci nelle palle.»
Milo si mise a immaginarsi mentre rincorreva le ragazze, rendendosi conto che non gli interessava davvero, ma forse avrebbe dovuto aspettare, come diceva Kaitos.
«Fidati, ragazzo! Tra qualche anno vorrai essere circondato di donne, belle donne con le tette gigantesche.»
«Non mi interessano!» e riprese a camminare.
«Lo dicevo anche io. Poi ho incontrato lei.» per un secondo i pensieri di Kaitos furono succubi della Siberia, dei suoi ghiacci e di una donna che aveva fatto una scelta importante.
«Cosa?» domandò Milo.
«Nulla!»

Il rientro ad Atene fu più clamoroso di quanto Milo si aspettasse. La nutrice che lo aveva preso in affidamento durante i suoi primi giorni al Santuario, lo aspettava all'ingresso dei dormitori con un pacchetto regalo in mano, piccolo e colorato.
Non le parlò, perché sapeva che lei non voleva parole, ma solo un abbraccio, che le concesse.
Scartò il regalo e al suo interno c'era un piccolo scorpione di gomma, in qualunque modo si piegasse, questo riprendeva la forma iniziale.
A Camus piacerebbe una cosa del genere, pensò mentre si riprendeva il cuscino promessa dal letto di Camus. Aveva già in mente un fastidioso scherzo per quando anche il francese sarebbe tornato, non vedeva l'ora.
«Milo!» trillò una voce alle sue spalle. Una voce nuova, che celava però qualcosa di conosciuto. Si voltò a guardare di chi si trattasse e quasi gli venne un colpo.
Era cresciuto ed era cambiato, così come doveva esserlo lui.
«Aiolia!»





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È il turno dello scorpioncino, per qualcuno è una sorpresa, per qualcun'altro no, ma mi auguro che la lettura sia di vostro gradimento.
Al solito vi ringrazio tantissimo e colgo l'occasione per comunicarvi che d'ora in poi i miei ringraziamenti saranno impliciti: nel momento in cui chiunque - compreso gugol - aprirà la pagina di qualunque cosa scritta da me, avrà la mia gratitudine, la mia gioia nel caso piaccia e le mie più sentite scuse nel caso che faccia vomitare il pranzo di Pasqua del 2001.
Dunque, a meno di non dover fare dichiarazioni bomba, eviterò di "sporcare", e per concludere: grazie mille a tutti.
   
 
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