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Autore: chaplin    10/05/2011    4 recensioni
Aveva incontrato una ragazza, tempo fa. Una gran bella ragazza.
Bella ma incapace di guardare il mondo coi propri occhi; per questa ragione, aveva provato a prestarle i suoi.

Incontri nel mezzo di un lungo inverno in perfetto stile British. (2° classificata al contest "She smiled at me on the subway")
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: George Harrison, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Contest: “She smiled at me on the subway”
Autore (nick sul forum): Thief_
Nick su EFP: Thief_
Titolo storia: I can almost see you.
Pairing: George/Sconosciuta.
Rating: G.
Genere: Romantico, malinconico.
Luogo: Londra, Inghilterra.
Anno: 1968/'69.
Note dell'autore: Titolo del racconto tratto dal titolo di un brano degli Hammock. Il finale del racconto e' aperto, immagino, visto che proprio non sapevo come far concludere questa vicenda, LOL.

 

 



I can almost see you.

 

Aveva incontrato una ragazza, tempo fa. Una gran bella ragazza.
Bella ma incapace di guardare il mondo coi propri occhi; per questa ragione, aveva provato a prestarle i suoi.

Rise, piano, mentre il suo fiato si condensava di fronte alle sue labbra e prendeva vita in un'avvolgente nuvola di chiarore.
Faceva freddo in metropolitana, vuota; George, tra la copertura e tutto il resto, teneva il bavero alzato – i vari
tube londinesi non erano sicuramente il posto più accogliente di quest'umile mondo.
L'anno precedente, il freddo non era stato affatto da meno. L'anno precedente aveva fatto
un freddo boia in Inghilterra, e il freddo di quell'anno glielo ricordava tanto. Il Sessantotto, i vari casini, il freddo inverno e tutto il resto. E i vari festoni natalizi appesi sui muri.
Le uniche certezze che aveva dell'anno precedente erano l'India e una ragazza. Quella che
aveva incontrato tempo fa, circa verso Natale.
D
i quella ragazza ricordava gli occhi, soprattutto: occhi scuri e tondi e costantemente aperti; non chiudeva spesso le palpebre.
In quell'istante, di quella ragazza, George riusciva a ricordare e a vedere solo gli occhi. Se assottigliava i suoi, di occhi, poteva mettere a fuoco un naso piccolo e dritto in mezzo ad essi; abbassando lo sguardo, le rosee labbra sottili e screpolate dal freddo erano le prime a risaltare nitide sul suo viso delicato e pallido.
Allargando il campo visivo, George riusciva a vedere la massa fluente di capelli biondi uscire dall'angolo dello sfondo a cui era stata relegata, incoronando dolcemente il visino della ragazza. Alla fine dell'apertura dello show, incominciavano a comparire il collo, le spalle, il seno e i fianchi e la vita e le gambe: ne immaginava i contorni e immaginava di percorrerli con le dita, tenendo ben custoditi questi desideri che sapevano del delizioso sapore di qualcosa di proibito – individuava una ad una le lunghe e curve linee immaginarie di cui era composto quel grazioso corpicino filiforme, ora coperto da sciarpe e veli per l'inverno, intenti a trattenere nel morbido calore quel che racchiudevano in s
è.
Ora, George era finalmente riuscito a ritagliarla fuori dagli altri ricordi, a rivedere quel sorriso che gli aveva rivolto. Riusciva quasi a vederla, nella sua intera modesta e minuta figura alta e magrolina, tutta acqua e sapone.

La vedeva, ora. Ferma là, accanto ad una fila di sedili occupati, col braccio alzato per tenersi. Stava in bilico in mezzo ai ricordi e al sogno lucido, fischiettando.
A George parve di notare sul suo viso un piccolo sorriso. Fu un'arroganza priva di fondamenta concrete a convincerlo che quel sorriso fosse rivolto proprio a lui, nonostante non avesse la certezza che quegli occhi stessero guardando proprio la sua faccia.
E tutt'ad un tratto, quegli enormi occhioni scuri e tondi, che con tanta fatica aveva estraniato dall'omogeneo piano grigio, erano a pochissimi centimetri di distanza dai suoi, intenti a fissarlo con tanta sorpresa. Le sottili labbra screpolate di lei s'erano spalancate in una grande “o”.

Non sapeva dove guardare, se guardarle gli occhi o le labbra – il respiro lento e regolare della ragazza gli scaldava le labbra umide.
E poi lei lo guardava con quell'aria tanto spensierata, felice; sembrava che lo conoscesse da una vita.
Non sapeva nemmeno se dovesse per forza parlarle, chiederle chi fosse, come si chiamasse, quanti anni avesse – mmm, questo no; quella ragazza dava l'aria di essere parecchio giovane, e spa
ventarla era proprio l'ultima cosa che aveva intenzione di fare – e altre cose del genere. Ma, invece di dire o fare qualcosa, stette zitto ad aspettare un segno di vita dall'altra. In fondo, non sapeva se dovesse per forza porgerle delle domande.
Fu infatti lei a parlare per prima, poi, sorridendo maliziosa.
“E' inutile che stai zitto,” disse. “Lo sento, che
respiri.”
George sollev
ò un sopracciglio, perplesso da quella sua uscita. Non che non fosse un modo originale per attaccare bottone con gli sconosciuti sulla metropolitana, affatto, ma non era esattamente una cosa che si poteva sentire ogni giorno. Non che lui, per fare un esempio banale, salutasse Pattie dicendo “Ciao, vedo che anche oggi respiri!”; poi, francamente, gli suonava tanto come un malaugurio. Lanciare malauguri alla gente non era una cosa gentile.
“Allora? Mi stai ignorando, per caso?”
Aveva una voce sottile, lievemente nasale.
“Ma no...” borbott
ò George, incapace di dire altro che potesse andar bene come risposta.
A quel punto, lo stupore distese i lineamenti del viso della ragazza.
“Allora sai parlare, tu! Per un attimo ho addirittura pensato che fossi muto, sai?”
George rimase zitto, tenendo ancora il bavero alzato fin sopra il suo naso, autoconvincendosi che esso l'avrebbe potuto difendere. Ma doveva far notare in qualche modo che era piuttosto seccante sentirsi dire che l'avevano creduto
muto – che poi lui era pieno fino al collo di cose da dire – ma incacchiarsi immediatamente sarebbe stato un evidente segno di scarsa maturità e, nel caso, pure di maleducazione.
Idee che gli frullavano in testa lo spinsero ad aprire bocca per dire qualcosa, ma venne subito interrotto dalla ragazza, che si sedette sul sedile libero accanto al suo dopo avergli chiesto il permesso, senza neppure degnarsi di aspettare la risposta.
“Cercavo un posto dove sedermi da
mezz'ora,” rise, e non disse nient'altro.
Stettero zitti entrambi, lui a guardare lei e lei a guardarsi i piedi.
George odiava a morte quel genere di silenzio, quel fastidiosissimo silenzio gonfio e rigonfio di imbarazzo, inutile discrezione e altro silenzio.
Il silenzio non era una brutta cosa, anzi; George amava il silenzio, la musicalit
à di esso e i significati che poteva celare, ma la mancanza di comunicazione era una vera e propria piaga della sua vita quotidiana. Tipo due persone che andavano ad un ristorante e, zitti zitti, consumavano con calma il loro pasto. Era insensato – perchè ci andavano a fare ad un fottuto ristorante, se manco parlavano? Era insensato e irritante.
“Come ti chiami?”
La domanda arriv
ò all'improvviso – all'improvviso, come all'improvviso lei era apparsa di fronte a lui – imprevista.
George corrug
ò la fronte. Non l'aveva riconosciuto? Era meglio, ma era anche strano.
“I tuoi genitori non ti hanno dato un nome?” chiese lei, ora, chinando la testa di lato. Non c'era segno di malizia o sarcasmo nella sua vocetta, sul suo viso s'era fatta strada un'espressione di pura e ingenua curiosità. George si grattò la tempia e aprì le labbra, pronto a dare una qualsiasi risposta.
Ma, per un'altra volta, ancor prima che George potesse dare una risposta ai suoi dubbi, lei lo precedette.
“I miei genitori, invece, sono proprio degli incapaci a dare nomi alle cose o alle persone. Tipo, mio fratello si chiama Wilbur.
Wilbur, te ne rendi conto? Wilbur era il nome di mio nonno! Ed è anche un nome da animaletto domestico, non trovi?”
“Certo, certo.”
Ed era riuscito a dire qualcosa, finalmente. L'unica soluzione era di non stare a pensarci su e a
parlare, parlare e basta.
“Non trovi anche tu che Wilbur sia un nome da animaletto domestico?” chiese ancora la ragazza, sempre con lo sguardo rivolto verso il basso. “Insomma, sai, una versione pi
ù chic di Fido. Wilbur? Vai a prendere la palla, Wilbur!
George sorrise in silenzio.
“E' un nome particolare, Wilbur.”
“Di' pure
strano,” ghignò la ragazza, ridendosela sotto i baffi.
Err, comunque, io mi chiamo George.”
La ragazza rimase per un secondo in silenzio; aveva alzato il viso e s'era messa a guardare il cartello delle fermate della metropolitana – il viso animato da un guizzo di un'eterna, inesauribile e continua sorpresa.
“George, tu scendi alla prossima?” chiese lei, esitante.
“S
ì, perchè?”
La ragazza pensava, mentre l'altro cercava di incrociare i suoi occhi.
“Potresti farmi un po' compagnia, questo pomeriggio?”

George stava sognando, ed era la prima volta che gli capitava di sognare una cosa che gli era già successa. Un ricordo.
Ricordava in effetti che quella volta era andata proprio in quel modo, che aveva incontrato la ragazza, ci aveva parlato – o meglio,
lei aveva parlato – in metropolitana e tante altre varie cose. Per il resto della giornata, non si era affatto annoiato a stare con lei, anzi.
Che poi, lei, a livello di ragazza, era parecchio
graziosa.
Graziosa, infinitamente graziosa. Graziosa anche mentre inciampava in continuazione, trascinandolo con forza verso le rive del Tamigi. Le sue gambette magroline facevano capolino da sotto il giaccone colorato; rideva serena e spensierata, correva.
Aaaaaah!
Alzava la voce di tanto in tanto, respirando a pieni polmoni l'aria fredda e secca di dicembre; il vento le accarezzava i capelli, scompigliandoglieli delicatamente, e la fioca luce bianca del sole, filtrata dalle spesse coltri di nubi grigie, le illuminava gli occhioni scuri.
“George! George! Li senti questi rumori?” urlava, con l'eccitazione che le inebriava i sensi. Non smetteva pi
ù di muoversi, mimava piroette immaginarie e cantava, urlava.
George non capiva – era solo il Tamigi, in fondo: non capiva cosa ci fosse di tanto divertente. E lei, col fiatone, gli urlava “Questi rumori!
Questo rumore!” in continuazione, raccontandogli di come non lo sentisse da tanto tempo.
Con un piccolo aiuto da parte di George, la ragazza sal
ì su un piccolo punto del terreno che era stato rialzato rispetto al resto della spiaggetta di ghiaia, rischiando più volte di cadere. Ma ancora rideva.
“Sono gli uccelli, George, e
il vento, l'acqua... Questo rumore! George, lo senti? Lo senti?”
Era strano, ma George tese lo stesso le orecchie.
E lo sent
ì per davvero, quel rumore.

Wilbur non mi porta mai in giro,” disse, imbronciata. “E' sempre impegnato col suo lavoro.”
Beveva la sua cioccolata molto lentamente, alternando piccoli e brevi sorsi a lunghe pause. Le sue dita tremavano, mentre stringevano il bicchiere – la superficie del liquido scuro e denso traballava ogni volta che lei alzava il bicchiere.
“Non pensa mai a me. Alle volte sento di odiarlo.”
George sorrise.
“Non penso che non badi a te o non ti dia importanza... Forse
è semplicemente impegnato,” suggerì. “L'hai detto pure tu.”
Lei sbuff
ò: “Dici?” bevve. “In ogni caso, questa sua pseudo-indifferenza mi irrita.”
Anche George bevve un po' della sua parte di bevanda, guardandosi attorno, impaurito dalla prospettiva di farsi riconoscere da un qualsiasi genere di essere umano. Era ancora sorpreso dal fatto che la sua piccola interlocutrice non l'avesse ancora riconosciuto, comunque.
“Ma tu... Anche tu hai un lavoro?”
George rischi
ò di sputare tutta la cioccolata, ma riuscì a tapparsi la bocca in tempo.
Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, anche una genuina bugia, ma sarebbe stato ben scorretto essere un bugiardo con una persona come lei. Fece un lungo sospiro, mandando gi
ù il mezzo sorso – quasi del tutto andato di traverso – e sporgendosi leggermente verso il viso dell'altra.
“E' un piccolo segreto, sai,
a-hem...”
Uao! Fai l'agente segreto o qualcosa del genere??” lo inondò immediatamente lei, con gli occhioni che le brillavano.
“No no no! Che mi vai a capire, eh?”
Risero assieme, George intenerito e la ragazza imbarazzata.
“Comunque, sono il chitarrista di un gruppo.” George si scaldava le mani sulla tazza di cioccolata, pentendosi di aver iniziato quel discorso sulla sua professione – che poi la sua professione non meritava nemmeno tanti discorsi pomposi e rifatti. “Sai, no...
I Beatles...”
Rimasero in silenzio per qualche minuto; lei ora rigirava in continuazione il cucchiaino di ferro dentro il suo bicchiere, mentre George si mordicchiava le labbra, in attesa di un qualsiasi tipo di reazione da parte dell'altra.
Ma lei fece solo un largo sorriso meravigliato, portandosi le mani sulle labbra.
Uao...” sussurrò, “Dev'essere bellissimo fare il musicista...”


 

Ehi, ricordi quella ragazza cieca di un anno fa? L'ho sognata questo pomeriggio in metropolitana. Assurdo, non trovi?”

 

 

 

 

A/Nnote, chiarimenti, deliri per cose che non fregano a nessuno:
Ho scritto ben poco nelle note di prima per il semplice motivo che non c'era nulla da scrivere. Ma chiariamo qualcosa.
Questa fic ha raggiunto la
seconda posizione di quel concorso strafigo che ho nominato sulla griglia iniziale – “She smiled at me on the subway”, di cui realizzai proprio io le varie targhe, a-hem. A mio giudizio, non meritavo del tutto una posizione tanto alta: la mia è una storia semplice e dalla qualità piuttosto scadente, e le valutazioni mi hanno lasciata piuttosto perplessa – e chiudiamo qui. In ogni caso, ok. Ancora non posso crederci. Secondo me mi sono sognata tutto. Comunque sì, sono piuttosto rincoglionita, oggi. Dicevamo? Beh, diciamo che io sono anche una grande appassionata di un particolare tipo di musica elettronica, quindi... Niente, sarebbe davvero bello se qualcuno trovasse un po' di questa storia e dell'atmosfera di essa e della sua protagonista all'interno delle note del già citato brano/composizione degli Hammock che potete trovare qui. Perché è stato questo brano ad avermi aiutata più di ogni altra cosa a completare questa fic. E anche quell'attrice nota come CassiediSkins, che mi ha dato una visione completa dell'aspetto fisico di questa protagonista priva di nome. E ok, non scrivo nulla sui Beatles da 45678467 anni, e pubblicare questa cosa mi fa sentire... non Dio, Ronnie James Dio è troppo figo perché io possa rappresentare anche un briciolo della sua persona. Mi sento molto Giovanni Rana in questo preciso istante.
A questo punto, ringrazio di cuore quella Dazed che ha creato questo concorso, un concorso originale e carino a cui mi son divertita tantissimo a partecipare, i Rolling Stones
*trollface* per avermi spinta a scrivere queste ultime cagate prima di pubblicare, il secondo volume di Vampire Knight che ho acquistato in fumetteria questo pomeriggio, mia madre, la mia inesistente suocera, i libri e i fogli da disegno che mi circondano, CassiediSkins e at last but not least quell'uomo meraviglioso noto come George Harrison e quei quattro capelluti sovente denominati Beatles o coleotteri o, erroneamente, scarafaggi.
Grazie ancora a chi ha letto e buon proseguimento di mattino-pomeriggio-serata a quest'ultimo.
Peace.

  
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