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Autore: Artemys    12/05/2011    5 recensioni
Bella Swan non è la ragazza fragile che finge di essere. La sua goffaggine è studiata, la sua incapacità di mentire è frutto di una recitazione praticamente perfetta.
Una maschera che ha imparato a cesellare da quando aveva undici anni, sotto la guida di sua nonna, insieme ad altre due ragazze che condividono il suo stesso triste destino.
Isabella, Arsinoe e Fatima.
Future guide dei clan che, da secoli, combattono una guerra silenziosa. Regine di una realtà sconosciuta anche a coloro che fanno della segretezza la loro unica legge.
Addestrate ad un solo scopo: uccidere vampiri.
Ma cosa succederebbe se Bella, lasciata sola dalle altre due, scoprisse che non tutti i vampiri sono assassini? Se decidesse di avvicinare uno di loro per infiltrarsi in quel mondo? Sarebbe capace di lasciare fuori i sentimenti?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Isabella Swan, Nuovo personaggio | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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D’accordo, premetto che non ho la più pallida idea di cosa stia facendo, né del perché stia postando questa storia. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai scritto niente su questo fandom, per un semplice motivo: Bella Swan mi è contro la vista. Il suo personaggio mi da ai nervi, e credo si potrà intuire da quello che scrivo su di lei, perché l’ho completamente stravolto. Questa “cosa” è nata in un momento in cui ero particolarmente girata, e, non essendo io abituata a scrivere in prima persona, ne tanto meno in questo stile, non so valutare come sia uscito questa specie di esperimento. Per me è un tentativo e uno sfogo, non ho la pretesa che possa piacere a qualcuno, ma nel caso i commenti sono sempre ben accetti. Comunque, seppure l’idea per la storia ci sia, non so se la continuerò, ne con che frequenza. Insomma, non è proprio una cosa fatta così, a caso, ma nemmeno ci sono troppo legata, perché la priorità ce l’ha l’altra fic che sto scrivendo.
Detto questo, vi lascio a questo sclero. Baci.
Artemys
 




 
3moon

 

Alone

 

In solitude we are in the presence of mere matter (even the sky, the stars, the moon, trees in blossom), things of less value (perhaps) than a human spirit. Its value lies in the greater possibility of attention.

Simone Weil

 




Al diavolo.
Al diavolo tutto.
Al diavolo la scuola, non me ne frega un cazzo di quel posto pieno di sfigati che si credono chissà chi, solo perché papino gli ha lastricato il vialetto d’oro e pagato l’ammissione al college da quando avevano sette anni. Finiranno tutti a servire al Burger King, o a piegare magliette al Walmart sulla quinta strada.
Al diavolo gli insegnanti, non ce n’è uno che valga la pena di ascoltare. Tanto varrebbe studiare a casa, sono capace anche io di leggere pari pari dal libro di testo.
Al diavolo quel gruppo di deficienti che mi si è appiccicato addosso dall’anno scorso, hanno pure la pretesa di essere miei amici. Certo, come no!
Al diavolo mia madre, lei, la sua immaturità, la sua incoscienza, il suo non sapere assolutamente nulla del mare di merda in cui mi lascia affogare da sei anni.
Al diavolo quel beota di Phil, che, tutto sommato, ha l’enorme utilità di levarmi di dosso la responsabilità di quella svampita e del marmocchio in arrivo.
Lui, o lei, non lo mando certo al diavolo. Se me ne vado è perché mi concedo la speranza che lui non ci debba mai avere niente a che fare.
Non come me.
Non come la nonna. Cazzo, lei ci ha fatto i conti per una vita intera. Se anche le fosse toccato l’inferno, ne ha fatti fuori talmente tanti che sarà bastata la sua fama per farle il vuoto intorno.
È grazie a lei se sono in questo schifo, ma è anche merito suo se sono ancora viva. Mi ha insegnato ciò che mi serve per sopravvivere, il resto, però, ho dovuto impararlo da sola.
Se ne è andata troppo presto, per me.
Chiudo i due lucchetti a combinazione e la cassetta delle armi finisce sul fondo della valigia. Dentro ci sono solo quelle di riserva, le cose importanti me le tengo sempre addosso. Non si sa mai.
Butto un paio di maglioni per coprire la superficie metallica e chiudo il bagaglio, le serrature scattano e il suono mi arriva alle orecchie violento, come un colpo di frusta. Tutto il resto andrà nel borsone. Dopotutto non ho così tanti vestiti pesanti da portarmi dietro, e ,dove sto andando, il top smanicato non metterebbe mai il naso fuori dall’armadio.
Se non altro, la cosa bella di indossare maglioni è che è facile nasconderci sotto una pistola. Basta portali larghi, chi se ne frega se mi faranno sembrare un sacco di patate: va tutto a favore della copertura.
Comincio a fare avanti e indietro dall’armadio, trasferendo maglioni, camicie, pantaloni e quant’altro dagli scatoloni della roba invernale al borsone, aperto sul letto. Mi trattengo dallo scaraventare tutto dentro alla rinfusa, come l'istinto mi suggerisce, ma solo perchè non ho voglia di litigare con la cerniera della borsa dopo. Sono tesa come le corde di un violino, se mi pizzicassero ora nel modo sbagliato, emetterei il suono più stonato, tetro e bellicoso che si sia mai udito. Afferro una pila di jeans e in quel momento parte la suoneria dei White Stripes, diffondendo in tutta la stanza le note decise del basso, a cui si aggiungono presto i colpi di tamburo e gran cassa. Il cellulare vibra sul comodino, facendo un rumore che mi dà estremamente sui nervi, tra l’altro, e siccome sono una casinista patentata, sta pure sul bordo del mobile. Lo prendo praticamente al volo.
“Pronto?”
“Come vanno i preparativi?” trilla la voce di una bionda ossigenata di mia conoscenza.
Sbuffo sonoramente nella cornetta e lancio i jeans dentro la valigia, in barba ai miei buoni propositi.
“Vanno”.
“Mmm… vanno! Loquace come al solito, vedo”
“Ary, che vuoi che ti dica?! Sto facendo le valigie, non mi sembra un’impresa tale da meritare una telefonata di controllo”. Mi butto avvilita sul letto. Questa è una conversazione che non ho voglia di fare, perché so già dove andrà a finire. L'idea di fingere un disturbo della linea e chiudere la telefonata mi solletica, ma tanto so che non mi porterebbe da nessuna parte.
“Vorrei che mi dicessi che hai cambiato idea, per esempio”.
Fantastico. Davvero fantastico.
“Io vorrei che quella, che si suppone essere la mia migliore amica, la smettesse di preoccuparsi per nulla, ma non si può sempre ottenere ciò che si vuole…” sbuffo sarcastica.
“Chiamalo nulla… Te lo devo ricordare io che stai andando in casino alla rocca, tutta sola, lontana da qualsiasi contatto, o ce l' hai bene impresso in quella testolina bacata che ti porti in giro?!”.
Ok, voglio bene ad Arsinoe, ma sta diventando decisamente ripetitiva.
“Lo so benissimo dove sto andando, ti ringrazio per l’interessamento, miss GPS! Tuttavia, non ti sembra che, il fatto che non abbiamo basi da quelle parti, sia un motivo in più per fare un sopralluogo?!”
“Cioè?”
Ecco. La voce della biondina dall’altra parte della cornetta si è abbassata, assumendo quel tono adulto che ha quando è attenta e concentrata. Chissà quanti dei suoi amici hanno mai sentito questa sua voce…
“Ho controllato negli archivi: non ci sono attacchi o morti registrate in quell’area” dico con tono eloquente.
“Da quando?”
“Da mai. È questo che non mi torna, Ary!”.
“Cazzo!”
“Appunto!” sogghigno. Finalmente qualcuno che capisce.
“Cosa pensi che voglia dire?” mi chiede lei, ma posso già sentire le rotelle del suo cervello da genio che partono a tutta velocità. Arsinoe non è una stupida ochetta bionda. È solo estremamente brava a fingere di esserlo.
“Non ho un’idea precisa” abbozzo sincera io. “Ma ho intenzione di svolgere qualche ricerca. In quella zona c’è una delle più antiche tribù di nativi d’America, magari loro sanno qualcosa che noi non sappiamo!”
“Hai già qualche idea su come procedere?” mi chiede lei, la sua mente procede per calcoli e schemi… quando vuole.
Un ghigno si allarga sul mio viso mentre mi rialzo in piedi e prendo dal comodino una vecchia foto di me e mio padre. Avrò sei anni in questa foto, sono in braccio a Charlie, e dietro di noi, sullo sfondo, c’è una spiaggia grigia sotto un cielo plumbeo. In riva al mare ci sono tre ragazzini dai capelli neri e la pelle bronzea.
“Mio padre ha alcuni amici nella riserva, credo che uno sia addirittura un diretto discendente dell’ultimo capo tribù. Comincerò da quello, poi andrò avanti a istinto”.
“Come al solito, dunque!” commenta lei con fare ovvio. Posso quasi vedere quel suo odioso sorrisetto saccente dipinto sulla sua migliore faccia da schiaffi.
Dio, e c’è anche chi crede che quella ragazza sia una specie di ingenua, frivola, oca bionda con in mano dei pon-pon.
“Come al solito. Sai com’è, quando una tattica funziona, non vedo perché cambiarla” aggiungo con tono acido. A buon intenditor, poche parole.
“I cambiamenti sono necessari Bella. Fanno parte de…”
“Ti prego, Ary, non cominciare! Ho già ricevuto la mia dose di cazzate per oggi, tra Renèe, Phil ed Elisabeth. Non ti ci mettere pure tu, perché giuro che non riuscirei a sopportarlo. È inutile che fai tanto la parte di quella matura e superiore, tanto lo so che questa situazione fa incazzare pure te, quindi evita!”
Sento un profondo sospiro nella cornetta e stringo gli occhi, cercando di calmarmi. Devo smetterla di reagire così, faccio solo male ad entrambe. E io non ce l’ho con lei.
“Hai ragione” dice serenamente. “Ogni volta che ci penso vado in bestia. Ogni volta che guardo fuori dalla finestra e vedo i grattacieli mi viene male. E ogni volta che guardo la nostra foto mi sento un nodo alla gola e allo stomaco, perché mi chiedo in che razza di guai ti stai andando a cacciare senza di me… Ma non posso farci niente”.
Il mio sguardo va verso il comodino, dove dentro ad una semplice cornice argentata sta un’altra foto. La più preziosa e importante che ho.
Gli occhi di tre ragazze ricambiano il mio sguardo, sorridenti.
Una, quella a destra, ha una cascata di onde dorate intorno al viso di porcellana, capelli così biondi da risultare quasi bianchi, fini come seta, e occhi blu come gli abissi. Arsinoe.
La seconda, al centro, ha una zazzera ribelle di capelli rosso fiamma, un viso appuntito e spruzzato di lentiggini, gli occhi tinti di uno strano verde chiaro e sporco, tendente al giallo. L’inconsueto abbinamento cromatico le dona un che di misterioso ed inquietante. Fatima.
E poi ci sono io. Viso a cuore, pallida come la morte, occhi color cioccolato, capelli castani anonimi e con un taglio banale.
Sono passati due anni da quella foto, ma io sono rimasta esattamente la stessa.
Isabella Swan è refrattaria ai cambiamenti. Non mi piacciono, né mai mi piaceranno. Perché ogni volta che è avvenuto un cambiamento, nella mia vita, ha portato sempre con sé conseguenze pressoché disastrose.
Eppure ne sto per attuare uno io stessa, facendo queste valigie, nella speranza che, cercandolo, per una volta, il cambiamento avvenga per il meglio. Se non per me stessa, almeno per qualcun altro.
“Tu no” sospiro rassegnata, “ma io sì”.
“È per questo che te ne stai andando, allora” dice Arsinoe, felice di essere finalmente arrivata al nocciolo della questione. Ma non c’è nessuna nota di trionfo nella sua voce, lo so. Sa quanto questo distacco da mia madre e da Phoenix, checché ne dica, mi addolori.
Sospiro. Non ho la forza nemmeno di dire di sì.
“Lo sai che non cambierà niente, vero?! Se è come noi, che tu resti o te ne vada, non fa differenza”. Non sta cercando di convincermi. Vorrebbe solo addolcirmi una pillola che comunque mi scorticherà la gola nella sua discesa.
“Lo so. Ma se invece così non fosse, intendo stargli alla larga il più possibile. Se è destino, almeno lui, o lei, avrà una vita normale. Non sarò certo io a riempirla di mostri” sussurro amaramente, un groppo in gola mi blocca la voce e le lacrime premono per venire fuori. Dovranno restarsene lì e farsene una ragione. Non intendo piangere per l’unica cosa buona che potrò mai fare nella mia vita per quell’agglomerato di cellule che sarà mio fratello, o mia sorella.
“E se invece fosse come te? Se avesse il dono?” la sento sputare quell’ ultima parola come se fosse la peggiore delle bestemmie. Per noi, che con quel dono ci dobbiamo convivere, è peggio di una maledizione. Ci ha portato via la nostra adolescenza, ci corrode l’anima e dannerà la nostra esistenza fino alla morte. Chi lo considera una sorta di grazia divina non è altro che un cieco, un fanatico e un ipocrita.
“In quel caso gli starò vicina abbastanza da tenerlo d’occhio, ma senza interferire nella sua vita. Quando sarà il momento mi prenderò cura io di lui. Non permetterò a nessun altro di addestrarlo” chiarisco io, decisa e combattiva. Farò esattamente quello che ha fatto mia nonna per me, per noi.
Gli insegnerò a proteggere sé stesso e gli altri, e lo proteggerò da quei pazzi fanatici che addestrano i neofiti come dei cani da combattimento. Ma nemmeno questo sarebbe qualcosa di cui andare fiera nella mia vita, non tanto quanto riuscire nella disperata impresa di tenere il mio mondo fuori dalla sua vita.
“Almeno Renèe lo sa?” chiede con un sospiro di rassegnazione Ary, che ormai ha capito quanto sono messa male.
“No” rispondo sicura io. “Credo sia all’inizio del secondo mese e ancora non si è accorta di niente, anche se credo che in questi ultimi giorni qualche sospetto le sia venuto. Per questo è assolutamente necessario che io parta adesso. Prima che lo capisca, che dia la notizia a Phil, che, è matematico, comincerà a dare di matto in giro per casa e a camminare avanti e indietro come una gallina senza testa… prima che lei, felice, preoccupata e sprovveduta com’è, mi faccia gli occhioni da cucciolo supplicandomi di starle vicina, darle una mano con Phil e col bambino, magari strappandomi la promessa di farle da baby sitter quando vorranno avere una serata romantica, e Dio sa cos’altro…
Prima che le si cominci a vedere la pancia, che scopriamo se è maschio o femmina, che iniziamo a pensare ai nomi e a cercare le cose per la sua cameretta… prima che io possa affezionarmi all’idea”.
Mi passo stancamente una mano sulla faccia e crollo di nuovo sul letto. Sono esausta. Non sono particolarmente loquace, e solitamente, quando parlo così tanto, la mia voce è a livelli di volume molto più alti, e il mio approccio è molto più bellicoso. È strano, ma una chiacchierata a cuore aperto con la mia migliore amica è più estenuante di una bella sfuriata con chicchessia.
“Interessante… Ci hai fatto caso che, comunque vada, per te è tremendamente ingiusto?” dice lei, nella voce la stessa nota acida di cui risuonano i miei pensieri e la mia risposta.
“Ma dai? Pensa che avevo cominciato a credere di essere io quella che la vedeva troppo nera!”
Una risata bassa e amara mi sale in gola e una sua gemella fa eco nel ricevitore del mio cellulare.
“Quindi è definitivo. Parti domani” conclude Arsinoe.
“Già”
“Portati l’ombrello” ghigna lei e un moto di stizza mi monta dentro. A Forks non fa altro che piovere per tutto l’anno, e se non piove c’è odore di pioggia per tutto il tempo.
Io odio la pioggia. E non è perché io sia meteoropatica o cretinate del genere. Certo, mettetemi davanti un deficiente che sia allegro quando piove e state certi che non avrà il mio voto per le presidenziali, ma la questione è un’altra. A me la pioggia mette ansia.
Quando piove tutti gli odori sono amplificati e si coprono l’un l’altro. Quando piove i miei sensi, già all’erta, sono come sotto sforzo, e mi mandano in paranoia. Mi destabilizzano.
E io devo sempre avere il controllo.
Ary lo sa. È una delle nostre massime di vita.
La prima regola di nonna Marie.
“Buonanotte, Ary”.
“Buonanotte, Bella”.
Con un click chiudo la telefonata e mi rilascio cadere a peso morto sul letto, il braccio inerte e la mano ancora stretta sul cellulare. Rimango per qualche secondo a fissare il soffitto blu notte.
Era stata un’idea di Arsinoe. Un paio di anni fa era arrivata in camera mia armata di tintura e pennelli, mentre Fatima aveva portato un sacchetto con quelle stelline fosforescenti che poi avevamo attaccato per fare una riproduzione della volta celeste. Al centro avevamo appeso un lampadario a forma di falce di luna. Da allora, a luci spente, camera mia sembra un planetario.
Il loro regalo di addio. Solo che, all’epoca, nessuna di noi lo sapeva.
Volto la testa e tamburello le dita sulla superficie del telefonino, contemplando dubbiosa l’idea di chiamare Fatima.
Forse però è meglio aspettare, dopo la sfuriata di ieri. E poi, probabilmente, è al telefono con Ary in questo stesso istante.
Di noi tre, Arsinoe è sempre stata quella più diplomatica. Sicuramente le sta spiegando i motivi per cui me ne sto andando via da Phoenix, lontano da mia madre, da Elisabeth, dal clan, e da tutto ciò che conosco. Le starà dicendo quello che io, ieri, non sono riuscita a tirare fuori, non con la sua voce che mi strillava nelle orecchie quanto fossi una pazza, una sconsiderata, e un’egoista.
Egoista, io.
Non sono io che ho mollato le mie migliori amiche qui, in mezzo ai pazzi.
Non sono io che mi sono lasciata spedire all’altro capo dell’America e oltre oceano senza battere ciglio.
Io sono quella che è rimasta qui come una cretina, ed è ora che anche io prenda la mia strada.
Esito ancora per un momento, un’ultima occhiata allo schermo del mio cellulare, come aspettandomi di vedere il nome di Fatima comparire su di esso e di sentire la sua voce.
Sospiro pesantemente e mi tiro su dal letto con un colpo di reni.
Al diavolo. Non ho soldi da spendere per chiamare in Francia e litigare di nuovo. O peggio, finire per essere compatita.
Non lo sopporterei.
E comunque è meglio lasciar fare ad Ary, lei sa come prenderci.
Butto il cellulare sul cuscino e finisco di fare i bagagli.
Faccio appena in tempo a chiudere la cerniera della borsa, che l’apparecchio s’illumina e prende a vibrare.
Un messaggio.
 
“Ci troviamo tutti al Black Rose,
 Lance ci ha messi in lista.
Se vuoi venire siamo lì tra un’ora”
 
È di Pam. È entrata a far parte della compagnia che frequento un paio di mesi fa.
Un ordine di Elisabeth, ci scommetto.
Pam non è male, ma è ancora molto inesperta.
Sa che stasera sono impegnata con i preparativi, quindi se mi ha detto di quest’uscita…
O vuole offrirmi l’occasione per divertirmi, oppure ha una pista.
“Il Black Rose…”
Conosco quel locale, ci sono stata un sacco di volte. Ha una grande pista da ballo e due stanze adiacenti, per fumatori e non.
Ma soprattutto, ha un’uscita sul retro che sbuca in un vicolo cieco e buio.
“Ma si, perché no?!” mormoro tra me e me, inviando un messaggio di risposta a Pam.
Non sarà mai come le serate con Ary e Fatima, ma almeno mi aiuterà a distrarmi.
Raggiungo l’armadio e ne estraggo un mini abito nero da discoteca, senza maniche e con un profondo scollo a V.
Sotto ci metterò gli stivali neri, alti fin sopra il ginocchio.
Provocante e comodo.
Più pelle scoperta lascio, meglio è.
I miei occhi sono vuoti, la mia espressione concentrata.
Non sto andando a divertirmi.
Sto andando a caccia.




   
 
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